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elsa fornero

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, salute Luglio 5, 2012

Spending Review: quanto costa a noi donne

La chiusura di quasi 150 piccoli ospedali, da Conegliano a Iglesias, e la diminuzione dei posti letto, misure contenute nella spending review del governo Monti, tra le molte conseguenze avranno questa, come sempre sottostimata, anzi totalmente ignorata dagli analisti e dai media: che noi donne dovremo lavorare di più. Se le possibilità di ricovero si ridurranno, toccherà essenzialmente a noi farci carico della quota supplementare di lavoro di cura che si rende necessaria quando c’è un malato in casa.

Questo significa che avremo ancora meno tempo per tutto il resto. Che aumenterà il numero di quelle che il lavoro non lo cercano più. Che di conseguenza la natalità non crescerà: il tasso di nascite ha una correlazione positiva con il tasso di occupazione. Che non crescendo l’occupazione femminile, non crescerà corrispettivamente nemmeno il Pil. Che occuparsi di cose come la politica, figuriamoci! con sofferenza per il Paese, costantemente privato di metà del doppio sguardo. Che si cronicizzerà la nostra condizione di welfare vivente. Che a nostra volta ci ammaleremo di più, sotto un peso sempre più mostruoso e sempre meno condiviso: non esistono più le grandi famiglie, non c’è la possibilità di distribuire il carico, compreso quello psicologico, sempre più spesso sei da sola. Con conseguente possibile aggravio della spesa sanitaria.

Questo per dire che in un Paese come il nostro i provvedimenti del governo non pesano allo stesso modo sui due sessi, e quando si varano occorre valutarne attentamente l’impatto anche dal punto di vista del genere.

Sarebbe compito della ministra per le Pari Opportunità Elsa Fornero.

 

economics, lavoro, Politica Giugno 4, 2012

Lo strano Pd di Finocchiaro

 

Dunque, mentre si apprendeva che suo marito Melchiorre Fidelbo è indagato in quanto titolare della Solsamb s.r.l., a cui senza regolare gara d’appalto sarebbero stati affidati lavori per l’informatizzazione del Pta di Giarre, 1.7 milioni di euro (appalto ora revocato dalla Regione Sicilia), la capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro festeggiava  con un elogio e autoelogio l’approvazione della riforma del lavoro:

‘Penso che oggi noi abbiamo raggiunto una sintesi razionale, laica, direi costituzionale e riformista del mercato del lavoro e penso che questo sarà utile per davvero all’Italia’‘, ringraziando quindi personalmente la ministra Elsa Forneroper il coraggio e la determinazione”. Nel frattempo sui social network i militanti piddini -già disturbati, come tutti noi contribuenti, dalla spesa all’Ikea con regolamentare scorta spingicarrello- la ricoprivano di improperi.

Ora, si può anche essere perfettamente convinte di aver raggiunto un buon punto di mediazione, e che di più proprio non si poteva, senza far cadere il governo. Si può perfino e sinceramente ammirare il carattere e la tigna di Fornero. Ma che la capogruppo del Pd, a nome del suo partito, esprima un simile entusiasmo di fronte a una riforma che non può essere certo intesa come un successone per i lavoratori, dà effettivamente da pensare.

“Ofelé fa’ el tò mesté”, si dice dalle mie parti. E sul fatto che il mestiere del Pd sia quello di far festa per una riforma come questa avrei qualche dubbio. Che la si votasse, se proprio la si doveva votare, con la massima sobrietà e senza simili manifestazioni di entusiasmo e autocompiacimento. Il compito che gli elettori hanno affidato al Pd sarebbe un altro, ma forse Finocchiaro se l’e dimenticato.

Vedi una scena come questa, dai un’occhiata agli ultimissimi sondaggi che indicano il partito dell’astensione in aumento vertiginoso, guardi il cielo novembrino e il lampadario che balla e  ti viene da pensare che se tutti questi -ma proprio tutti-tutti-, se l’intera classe dirigente di questi partiti alla deriva si presentasse facendo ciao-ciao, se tutte le facce che abbiamo visto ogni giorno sulle prime tre-quattro-cinque pagine dei quotidiani di punto in bianco non si vedessero più, se facessero un’uscita collettiva e alla grande, come in un musical di Broadway, permettendo il ricambio che ostinatamente impediscono, be’, forse la mattina ti alzeresti un po’ più di buonumore.

Donne e Uomini, lavoro, Politica Aprile 26, 2012

Fornero: 188 promesse tradite


Mi invia Ritanna Armeni, pubblicato su Il Foglio di oggi. Ripubblico e sottoscrivo.

Gentile ministra Fornero ,

Mi dispiace davvero dirlo ma lei non ha mantenuto le sue promesse. Non ha risolto il problema delle dimissioni in bianco che obbligavano le donne che rimanevano incinte a lasciare il posto di lavoro. Il disegno di legge sul mercato del lavoro lascia confusa anzi, nella sostanza, può peggiorare la condizione già esistente.

Non nè facile capire quell’articolo 55 tanto l’italiano è sciatto, confuso, ingarbugliato, burocratico.  Ci vogliono molte letture e la spiegazione di chi se ne intende più , ma alla fine il senso è questo.

Salvo che  il fatto “costituisca reato” , dice la legge, il datore di lavoro che “abusi del foglio firmato in bianco al fine di simulare le dimissioni o la risoluzione consensuale è punito con la sanzione amministrativa da 5000 a 30.000 euro”.

La prima domanda è ovvia: quando l’abuso costituisce reato? Siamo di fronte ad un datore di lavoro che usa uno strumento illegale, la firma su una lettera di dimissioni per potere licenziare. E’ abuso o reato? Evidentemente, per la sua proposta di legge  il ricatto è, nella maggior parte dei casi, un abuso. E come si interviene nei confronti di un abuso?  Con una multa di maggiore o minore entità. Riassumendo e andando alla sostanza la donna che viene licenziata, in seguito alla estorsione di una firma su una lettera  di dimissioni senza la quale non sarebbe stata assunta, viene lo stesso licenziata, ma il suo datore di lavoro paga un’ammenda allo Stato. Ora, ministro ci spieghi, per piacere perchè il licenziamento di quella donna non è “discriminatorio” e non rientri, di conseguenza,  sia secondo la vecchia legge che secondo la  nuova (quella ancora in discussione in Parlamento) fra i licenziamenti che prevedono il reintegro. Non le pare evidente la discriminazione sessuale? Non è chiaro che rimane intatto l’impedimento alla maternità che in molte le avevamo chiesto di rimuovere?  Secondo la sua proposta di legge se un datore di lavoro commette reato non si sa che cosa succede, se abusa paga una multa, ma per la donna il licenziamento c’è comunque. Dobbiamo dedurne che le norme contro le discriminazione sul luogo di lavoro valgono per tutti, ma non per chi aspetta un bambino e, inoltre. per tutti coloro che hanno firmato per essere assunti una lettera di dimissioni.

So bene che il primo comma del suo articolo di legge prevede che la lavoratrice madre non può essere licenziata nei primi tre anni di vita del bambino, so bene che lei ha innalzato questo periodo che prima di limitava ad un anno. Con tutto il rispetto possibile questo è fumo che solo giornali   disinteressati e superficiali hanno potuto avallare come grande cambiamento. La pratica delle dimissioni in bianco si è diffusa proprio per evitare la legge e ha davvero poca importanza che questa preveda tre anni o uno di garanzia per la lavoratrice che diventa madre. L’abuso o il reato vanno prevenuti e tagliati alla radice con dei semplici e chiari meccanismi come quelli previsti dalla legge 188  prima che venisse abrogata dal governo Berlusconi . Questo le avevamo chiesto. Non quel testo che quando non è incomprensibile prevede delle assurdità di cui non si capisce il senso.

La donna , dice la sua legge, dovrebbe offrire entro 7 giorni dalla ricevuta della raccomandata di licenziamento le proprie prestazioni al datore di lavoro come forma di contestazione. Abbiamo provato ad immaginare la scena. La donna incinta che si reca sul luogo di lavoro Che succede? Viene cacciata? Ritorna? Insiste? Prega? Invoca la legge sul mercato del lavoro? Qui siamo all’assurdo o al grottesco. Quando proviamo a tradurre il burocratese nel linguaggio della realtà lo sgomento è davvero tanto.

Davvero chi fa le leggi è così lontano dalla vita reale? Evidentemente sì. Evidentemente  le donne che si sono impegnate finora in questa battaglia dovranno trovare altre strade per arrivare  al loro obiettivo.

 

Alle considerazioni di Armeni, che condivido pienamente, aggiungo questo: la ministra Fornero una figlia l’ha avuta. Da donna dovrebbe poter immaginare la sofferenza di tante sue simili che questa possibilità rischiano di non averla mai, se non vogliono perdere il lavoro che serve loro per vivere.

Sul fatto che come donna avrebbe saputo capire più di un uomo, 188 di noi hanno scommesso, e con noi molte altre, indirizzandole una lettera che la sollecitava a rimuovere al più presto questa intollerabile discriminazione. La sua riforma del lavoro non ci sta piacendo affatto, ma almeno sul ripristino della legge contro le dimissioni in bianco, che pure tardava ad arrivare -cosa che insospettiva- avevamo avuto assicurazioni e garanzie. Scoprire che invece nemmeno questo minimo è stato garantito, e che questa donna che è ministra ha fatto così poco per le altre donne, procura una ferita che sarà difficile sanare e rende intollerabile il peso dei sacrifici che ci vengono ripetutamente e arrogantemente richiesti.

 

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Aprile 11, 2012

Riforma del lavoro: ci basta?

E al capo V del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, sotto la voce “ulteriori disposizioni”, arrivano le voci rubricate come “donne”: dimissioni in bianco, figli, baby sitter. Troppo poco? Un primo segno? Ne l’uno né l’altro. Perché per capire quello che la riforma significa per le donne, conviene guardare al tutto (http://governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=67489), non solo al ripristino del contrasto alle dimissioni in bianco, al mini-mini congedo di tre giorni continuativi di paternità obbligatoria, e ai buoni per pagare le baby sitter invece di prendersi le aspettative facoltative per maternità.

Togliamo subito di mezzo il Moloch: l’articolo 18 e l’accordo finale che lo ha avuto ad oggetto. Non perché non conti: sotto la voce “economici” potevano passare anche i licenziamenti discriminatori. Adesso i pesi sono stati un po’ riequilibrati, si sono rafforzate le tutele in uscita, buttando la palla nel campo dei giudici. Ma tutto questo dibattito ha continuato a oscurare l’altra faccia della riforma, la questione dell’entrata al lavoro. Su questo ci vogliamo concentrare. Perché a noi interessano quelle che l’art. 18 non ce l’hanno e non lo avranno mai, le non-posto-fisso, senza tutele. Era per loro la riforma, no? Allora qualche numero, e i nostri 4 punti.

Uno. Non tutti i disoccupati sono uguali. Ci sono quelli che hanno appena perso un lavoro e quelli che invece cercano il primo lavoro, o escono da un periodo in cui (vuoi per scoraggiamento, vuoi per altri accidenti della vita, tra i quali – per dire – un figlio) non l’avevano e non l’hanno cercato. Tra i primi (disoccupati ex-lavoratori) i maschi sono la maggioranza: 56%. Nel secondo gruppo (nuovi entranti sul mercato del lavoro) primeggiano le donne: 63%. (dati Istat, riportati nell’articolo di redazione di inGenere.it “Lavoro, una riforma che guarda al passato”, http://www.ingenere.it/articoli/lavoro-una-riforma-che-guarda-al-passato). Tutti gli ammortizzatori sociali oggi esistenti sono per il primo gruppo, gli ex. Motivo forte per sperare nella riforma. Che però non prevede niente per i nuovi entranti: hai un’indennità, di qualche tipo, in caso di disoccupazione, solo se hai perso un lavoro.

Due. Anche quelli che hanno perso un lavoro non sono tutti uguali. Ci sono i tempi indeterminati, quelli del posto fisso, poi i tempi determinati, posto a termine ma comunque da dipendente, e tutti gli altri, i precari (co-co-pro, partite Iva, prestatori occasionali, ecc). La riforma allarga le tutele solo ai dipendenti, rispetto a prima quel che cambia è che ci sono gli apprendisti e gli artisti. Per loro sarà l’Aspi. Mentre la mini-Aspi rafforza un po’ la vecchia “disoccupazione a requisiti ridotti”, ma ancora una volta riguarda solo quelli che escono da un lavoro dipendente (e hanno almeno 2 anni di contributi versati). Rimangono invece esclusi da qualunque tutela “tutti gli altri” e le donne – manco a dirlo – sono qui le più numerose. Una ricerca Isfol (si veda http://www.isfol.it/Notizie/Dettaglio/index.scm?codi_noti=7176&cod_archivio=1) ha, infatti, calcolato che tra i lavoratori “non-standard” ci sono più donne che uomini. Se poi si va a guardare per fasce d’età troviamo che è sotto i 40 anni che c’è la maggiore disuguaglianza tra uomini e donne con un’alta concentrazione di precarie. Lo confermano anche i dati Inps sulla gestione separata. Discriminazione per fertilità? A questo proposito, nella riforma non c’è traccia dell’assegno di maternità universale, cavallo di tante battaglie (si veda la proposta elaborata dal gruppo Maternità e paternità: http://maternitapaternita.blogspot.it/p/avere-un-figlio-oggi-e-un-privilegio.html).

Tre. Quel che c’è sono alcuni paletti e vincoli all’uso dei contratti precari. Che daranno più rogne amministrative e costeranno di più. I contributi per gli atipici infatti salgono, e parecchio: per i co-co-pro arriveranno al 28% l’anno prossimo e al 33% nel 2018. Se le imprese saranno costrette a pagare i contributi ai co-co-pro quasi quanto quelli dei dipendenti, alla fine potrebbero trovare conveniente assumerli, dice il governo. Ma il ragionamento cade se questi contributi, formalmente a carico dei datori di lavoro, alla fine saranno scaricati sui precari stessi, abbassando il loro compenso netto. Lo dicono i precari dell’associazione Tutelare i lavori (Un bidone per i precari, http://www.tutelareilavori.it/), e lo ha scritto Tito Boeri: “in assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese”). (http://www.lavoce.info/articoli/-lavoro/pagina1002956.html). Morale: i precari avranno contributi più cari senza nessuna tutela in più.

Quattro. Eccoci alla voce “ulteriori”, zona donne. La legge contro le dimissioni in bianco, abolita dal governo Berlusconi nel 2008, prevedeva che le dimissioni volontarie potessero essere firmate solo su particolari moduli degli uffici del lavoro, numerati e datati: in questo modo si poteva evitare la pratica, appunto, della firma preventiva su fogli bianchi senza data. Procedura troppo complicata, secondo il governo, che ne ha predisposto un’altra (v. art. 55 del ddl): salutiamo la buona notizia, sperando di essere finalmente passate dal simbolo alla realtà. (Anche se qualcuno teme che alla fine i datori di lavoro colpevoli di aver fatto firmare le dimissioni in bianco possano cavarsela solo con una multa: ma su questo, sarà opportuno aspettare i dettagli tecnici del testo e analisi più approfondite). Mentre è di certo solo un simbolo l’art. 56, quello sui congedi obbligatori di paternità: 3 giorni in tutto, “anche continuativi”, di cui due “in sostituzione della madre”. Alcuni contratti di lavoro già prevedono congedi di paternità, ma sarebbe la prima volta che ne viene introdotto, per legge e in Italia, l’obbligo. E questo è un passo avanti. Ma così piccolo e così puramente simbolico da poter sembrare quasi un inciampo. Ovunque si discuta seriamente di congedi di paternità, si va ben oltre la soglia – abbastanza risibile – dei tre giorni (si veda il dossier http://www.ingenere.it/dossier/i-congedi-di-paternit). Forse consapevole del fatto che le misure proposte sono poca roba, il ministro Riccardi si appresta a rafforzare il pacchetto “congedi” nell’iter parlamentare, mettendoci dentro anche quelli per i nonni: perché allora non preparare in parlamento un assalto trasversale al congedo di paternità, portandolo da 3 a 15 giorni?

Insomma, il primo atto del governo Monti-Fornero ha aumentato l’età della pensione, nuove regole per tutti ma con effetti prevalenti sulle donne. Dal secondo atto – la grande riforma del mercato del lavoro – era lecito aspettarsi una fase due un po’ women friendly, dato che la titolare del lavoro ha anche le pari opportunità, dato che le analisi sull’aumento del Pil che può portare il lavoro femminile si sprecano, dato che il vecchio sistema degli ammortizzatori sociali era studiato sul maschio-adulto-e-garantito. E invece, di gender mainstreaming nella riforma non c’è traccia (si veda anche l’analisi di Snoq: http://www.senonoraquando.eu/?p=9234). Finisce che portiamo a casa solo un articoletto che, ben che vada, impedisce di buttarci fuori quando abbiamo la pancia. Ci basta?

 

contemporaneamente postato da

Roberta Carlini

Giovanna Cosenza

InGenere-Webmagazine

Loredana Lipperini

Manuela Mimosa Ravasio

Lorella Zanardo

e da

Italia 2013

Supercalifragili

Giorgia Vezzoli

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Marzo 24, 2012

Questo governo non sta facendo nulla per le donne/2

Non è l’art. 18 a fermare lo sviluppo del Paese, ma la troppa burocrazia. Poi la mancanza di infrastrutture. E il costo eccessivo dell’energia.

Non lo dice un guerrigliero del Chiapas, non lo dico io, ma lo dice -con queste precise parole- Giorgio Squinzi, il nuovo presidente di Confindustria. E con ciò mi pare che l’argomento sia definitivamente chiuso.

In attesa di capire come il Parlamento interverrà sul disegno di legge, ribadisco: questo governo non sta facendo abbastanza per le donne, e quindi per il Paese e per la “crescita” (virgolette non casuali: su che cosa diavolo sia questa crescita, su che cosa debba crescere, non c’è affatto chiarezza).

Primo: le donne vengono pensate non al centro della riforma del lavoro -come dovrebbe essere, a meno che non si giudichino dei perfetti imbecilli tutti quelli che sostengono, a partire dalla Banca d’Italia, che il Pil cresce, e di una decina di punti, se ci si avvicina al 60 per cento di occupazione femminile- ma a latere, alla fine, come spinoso capitolo aggiuntivo a cui destinare qualche briciola delle risorse.

Il solito della politica, insomma. Un’impostazione fallace e discriminatoria, che continua a pensare il lavoro come maschile, e le donne che lavorano un’eccezione, quando invece le donne si fanno carico della gran parte del lavoro sul pianeta (e quasi sempre gratis).

Da questo enorme svarione, e beffardamente proprio da parte di una ministra, discende l’insufficienza dei provvedimenti: quei ridicoli 3 giorni di congedo di paternità obbligatoria (contro le due settimane in Francia e le 12 settimane della Norvegia) che non servono proprio a niente; l’abolizione delle dimissioni in bianco, e ci mancherebbe altro; l’attuazione sulle quote nei cda delle società quotate in borsa e partecipate dallo Stato: mero atto amministrativo, la legge c’era già, e non può essere venduta come una concessione di questo governo; e ok, i voucher per la baby sitter per un annetto se la mamma torna al lavoro subito dopo la maternità obbligatoria.

Tutto qua. Ah, sì, da qualche parte dovrebbero esserci misure di defiscalizzazione per l’assunzione dei giovani e delle donne (ovvero dei giovani maschi, che presentano il vantaggio di non restare incinti) ma sui giornali oggi non ne vedo traccia.

E’ stata persa una grandissima occasione: quella di portare nella discussione sul lavoro, e a beneficio di tutti, lavorator*, imprese, Paese, quel ricco pensiero femminile sul lavoro che si focalizza anzitutto sul tema dell’organizzazione.

Continueremo a vivere insensatamente detenuti nelle aziende, che pagano costi di gestione insensati in cambio di un’organizzazione militare e maschile del lavoro, mettendoci in coda alle 9 del mattino e alle 6 di sera, inquinando le città, svuotando i quartieri dormitorio, depositando i bambini all’alba e riprendendoli al tramonto, e in più con il terrore di un licenziamento “economico”, in un momento in cui con due stipendi in famiglia ce la si fa a malapena.

Grande risultato.

E se per caso questa “riforma del Lavoro” che divide lo stesso governo non fosse farina del sacco di Elsa Fornero -come io non smetto di sperare- ma emanazione della volontà del premier Monti, che Elsa Fornero si faccia sentire, con tutta la sua forza femminile.

E magari si faccia sentire anche Se non ora quando, perché la sua voce sta mancando molto.

 

 

economics, lavoro, Politica Marzo 23, 2012

Lacrime-Napolitano

Due scene che mi hanno colpito, in questo rush finale sulla riforma del lavoro:

la piccola esitazione di Elsa Fornero in conferenza stampa, quando rispondendo a un giornalista le è toccato chiarire che le nuove norme sull’articolo 18 riguardavano tutti i lavoratori, e non soltanto i nuovi assunti come qualcuno poteva avere creduto; come se temesse una reazione, che invece non è arrivata.

Soprattutto, il singhiozzo trattenuto del Presidente Napolitano nel suo discorso alla gente di Vernazza, quando ha accennato alla sua propria “responsabilità”. La responsabilità è immane, non c’è dubbio. Ma quel cedimento mi ha fatto paura. Mi ha fatto pensare che nemmeno lui fosse del tutto certo che la strada intrapresa era quella giusta. Anche se poi oggi tutti i giornali riferiscono della sua instancabile attività di “moral suasion”.

Ieri sera la ministra Fornero ha assicurato che non saranno consentiti abusi. Che il nuovo art. 18 non significa dare alle aziende licenza di uccidere con licenziamenti in massa. Che saranno adottati strumenti in questo senso.

Quali? Qualcuno di voi riesce a immaginarli?  Quanto facilmente saranno aggirabili? Avete presente l’efficacia del lavoro di lobbying?

L’altra cosa è questa faccenda dei lavoratori statali. Fornero se ne lava le mani, con un certo sollievo. Ci penserà il ministro della funzione pubblica, dice. Ma che ai lavoratori del privato e quelli del pubblico tocchi un diverso destino è francamente inaccettabile, e forse facilmente aggirabile in quanto incostituzionale. Tanto più che, a proposito di investitori esteri, il nostro gigantismo burocratico, insieme alla pervasività della grande criminalità organizzata, altro che art. 18, scoraggerebbe un elefante. I conti non tornano. E però sì, tenere fuori gli statali ha i suoi vantaggi, significa fare fuori un grosso ostacolo sulla strada della riforma e spaccare il fronte del lavoro.

Intendo dire che, alla prova dei fatti, le performance del nostro magnificato governo tecnico sono molto meno infallibili di quanto ci fosse venuto comodo credere. Sono persone, possono sbagliare. Anche noi che non siamo professori e che non ce ne intendiamo, qualcosa che non torna lo intravediamo. Perfino la Chiesa è intervenuta in modo molto più duro di quanto ci sarebbe potuti aspettare.

Ogni tanto ho la sensazione che anche i professori dicano e facciano qualche cavolata. Mi capitava anche a scuola, ricordo. Non è una sensazione piacevole.

 

Aggiungo ultim’ora, dichiarazione di stamattina: «Non credo che stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili” ha detto il Presidente “sulla base della modifica dell’articolo 18, anche perché bisogna sapere a cosa si riferisce l’articolo 18»

Ecco, “non credo” -se ha detto proprio così- mi pare diverso da “vi assicuro”, vi garantisco”, “mi impegno”, “vi do la mia parola”.

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Marzo 21, 2012

La solitudine di Susanna

Non vorrei essere Susanna Camusso. Sento il peso enorme della responsabilità che ha sulle spalle, dopo la giornata di ieri, che a quanto pare ha sancito la fine della concertazione, insieme a quella dell’articolo 18, e sta mettendo a dura prova l’unità sindacale,

L’altro giorno Emma Marcegaglia diceva agli industriali che le era stato affidato quel ruolo proprio nel momento più difficile. Credo che Susanna Camusso possa dire la stessa cosa. Almeno in questo saranno d’accordo.

Intervendo ieri sera a Linea notte su RaiTre, dicevo che alle imprese è stato dato molto, con questa riforma; ora tocca loro restituire in investimenti e occupazione. Vedremo. Quel che è certo, la questione dell’articolo 18 è stata il focus. Quello era il muro che si doveva abbattere. Il resto ha il sapore di un contorno.

Ho detto ieri sera che si è parlato di entrata nel lavoro (un po’) e di uscita (moltissimo). Di decollo e di atterraggio. Ma del volo, di quello che c’è in mezzo, che poi è la nostra vita non separabile dal lavoro, si è parlato pochissimo. Intendendo con questo l’organizzazione del lavoro, inchiodata a tempi, modi e orari vecchi un secolo, una struttura militare fatta di gerarchie e di detenzione dei corpi, evidentemente costosissima -per tutti, aziende comprese- e improduttiva.

Mettere le donne al centro di questa riforma del lavoro significava soprattutto questo: parlare di organizzazione del lavoro, e cambiarla. Molto più che insistere sull’abbinata lavoro-welfare e sulla solita  improbabile conciliazione, strumento ormai inservibile. E del resto non si è fatto nemmeno questo minimo. Le misure di defiscalizzazione conteranno molto poco per l’occupazione femminile, e di servizi ce n’è sempre meno.

Quando si parla di lavoro si continua a pensare ai lavoratori maschi, e la “questione” del lavoro femminile è sempre assunta dopo, e a latere, come osservava giustamente Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, quando tutte le analisi, compresa quella della Banca d’Italia, concordano sul fatto che metterla al centro apporterebbe benefici (+8-10 per cento di Pil) a tutto il Paese.

L’occasione è stata mancata. Paradossalmente, proprio quando erano tre donne in prima linea a discutere e decidere. Ma la lingua delle donne non è entrata in questa trattativa. Continueremo a lavorare come prima, peggio di prima, sentendo la lama sul collo, regressivamente in difensiva. Siamo finalmente europei: meno tutele per tutti. Non lo siamo quanto a qualità e quantità dei servizi, e quanto a livello degli stipendi non parliamone. Problemi che noi donne -nessun aiuto, stipendi e pensioni più bassi, una società ferocemente maschilista che ci scarica tutto addosso- sentiremo in modo molto più acuto.

Del resto favorire l’occupazione femminile significa lasciare sguarnito quel welfare vivente quotidianamente e silenziosamente erogato, una risorsa che non conosce crisi, e dover investire soldi pubblici in servizi… No, meglio che stiamo a casa, come si faceva una volta. Molto più comodo per tutti.

Dipendesse da me, per come sono fatta io, scenderei in piazza ora, subito, così come mi trovo, mollando ogni altra occupazione.

Sento la solitudine di Susanna, che non può nemmeno contare sulla sponda parlamentare di un Pd  incerto, lacerato, in irreversibile crisi identitaria.

Non so come andrà a finire. So che abbiamo cominciato molto male.

 

Donne e Uomini, lavoro, Politica Gennaio 3, 2012

Elsa, rispondi!

Pubblico qui un articolo dell’amica Ritanna Armeni, da Il Foglio di oggi.

La ministra Elsa Fornero sa il fatto suo e ci tiene a dimostrarlo. Taglia,  bacchetta, predica, pratica rigore e sobrietà. Ed evidentemente non ha tempo per occuparsi di questioni secondarie, marginali quale, per esempio, quella che un gruppo di donne, giornaliste, sindacaliste e imprenditrici, politiche le sta ponendo chiedendo un suo immediato intervento. Lei, alle loro richieste, semplicemente non risponde.

 La questione in termini molto sintetici è questa. Il suo predecessore al Welfare, il ministro Sacconi (che certo non ha acquistato durante il suo mandato la fama di amico dei lavoratori) quando nel maggio del 2008  Berlusconi si insediò al governo, come primo atto ( badate bene, proprio il primo) ha cancellato la cosiddetta legge sulle dimissioni in bianco approvata dal precedente esecutivo. La giudicava burocratica e “demenziale”. In realtà era una legge molto semplice che impediva un abuso grave e diffuso, quello per cui una giovane donna, che trovava un lavoro veniva garbatamente invitata a firmare una lettera senza data nella quale affermava di volersi dimettere. La lettera era  consegnata al datore di lavoro, conservata e usata nel caso la firmataria rimanesse incinta. Allora sarebbe stata tirata fuori dal cassetto e  il licenziamento sarebbe stato immediato e per il datore di lavoro assolutamente indolore.

 Agli occhi della legge si trattava di dimissioni liberamente sottoscritte  di un rapporto di lavoro altrettanto liberamente rescisso. Naturalmente la verità era ed è esattamente opposta. Con il voto della  maggioranza e dell’opposizione nell’ultima fase del governo Prodi  l’imbroglio fu reso impossibile grazie ad  una nuova legge che non era  complicata o minacciosa, che non  prevedeva punizioni, multe, manette. 

La dichiarazione di dimissioni volontarie – dicevano le nuove norme –è valida solo se si utilizzano appositi moduli distribuiti esclusivamente dagli uffici provinciali del lavoro e dalle amministrazioni comunali. Questi moduli sono contrassegnati da codici alfanumerici progressivi e da una data di emissione. Devono essere compilati con il nome del datore di lavoro e del dipendente. Proprio il codice progressivo  assicurava che i modelli non fossero stati compilati prima. Non era possibile contraffarli e, quindi, potevano  essere utilizzati solo se la donna effettivamente voleva lasciare il lavoro. Ogni lettera e ogni dichiarazione fatta, o meglio, estorta in precedenza, non era valida. Semplice no?

E per la ministra Fornero sarebbe semplice anche ripristinarla quella legge, che allo Stato non costa nulla, che va nella direzione della serietà e della fine degli abusi tanto proclamata dal nuovo governo, e che, in un primo momento, prima del’intervento di Sacconi, era stata votata da molti esponenti del Pdl e anche dalla ministra Mara Carfagna allora al ministero delle Pari opportunità come oggi la ministra Fornero.

Invece niente da fare. La lettera inviata alla nuova responsabile del Welfare e delle pari opportunità dalle donne  che chiedono il ripristino di quella legge,  le richieste e le sollecitazioni che si susseguono sul web finora non hanno ricevuto risposta. Neanche due righe, neanche una telefonata dell’ufficio stampa o dalla segreteria del ministero. La ministra, che in nome della parità e dei bilanci rigorosi , ha elevato l’età in cui le donne vanno in pensione, che vuole tagliare ingiustizie e predica l’equità, finora non ha dato una risposta  a chi le  ha scritto chiedendo un suo intervento su una pratica a dir poco vergognosa.  Silenziosa come allora la Carfagna. Che consideri la legge per l’abolizione delle dimissioni in bianco “demenziale” come ha affermato finemente il ministro Sacconi?  

Per favore ce lo dica con chiarezza, anche con un Sms.

 

 

 

 

 

 

 

 

Donne e Uomini, esperienze, lavoro, Politica Dicembre 20, 2011

Datemi la mia nemica

Questa cosa delle 3 donne in conflitto sul tema cruciale del lavoro (Fornero-Camusso-Marcegaglia), la trovo semplicemente esaltante, e volevo dire due parole in più.

Apro il Corriere e sono pazza di gioia, pp 2-3 con l’immagine di 3 donne che non sono lì per un caso di cronaca, come vittime di qualcosa, con la ramazza in mano o con le tette fuori. Sono 3 protagoniste della nostra vita politica. E questo è moltissimo.

Di più: sono in conflitto pesante tra loro -conflitto che naturalmente tutte e tutti speriamo trovi un punto di mediazione soddisfacente per il maggior numero. Chi invoca solidarietà dice una stupidaggine.

Io voglio una nemica. Ho bisogno di una nemica. Ho diritto ad averne una.

Forse non sembra, ma anche questo è un modo per riconoscere l’altra, e anche me stessa. Non intendo farmi schiacciare e limitare da un unanimismo solidale che impedisce le differenze e i conflitti. Questo è un modo maschile di guardare a noi stesse, come a un unicum indifferenziato.

Quello in cui sperare è molto diverso dalla solidarietà. E’ un patto tra donne. E’ una fedeltà al proprio genere che consenta di convenire su un valore comune -io direi: tenere la vita al primo posto– pur nella differenza assoluta delle posizioni.

E’ una fantastica prima volta.

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Dicembre 20, 2011

Totem e Tabù

La ministra Elsa Fornero dice che l‘art.18 dello Statuto dei lavoratori non è un totem. Giusto. E allora mettiamo tutto nel piatto: una riforma del lavoro non può essere fatta partendo, a muso durissimo, dall’abolizione di una delle poche garanzie che restano a tutela dei lavoratori.

Nessun tabù: ma allora parliamo di tutto, mettiamo tutto sul tavolo. Il precariato, lo sfruttamento, il fatto che i salari di molte categorie sono più bassi della media europea, la grande arretratezza nell’organizzazione del lavoro -parlavo qui l’altro giorno di telelavoro, altro tabù nelle aziende italiane-, le lettere anticipate di dimissioni richieste alle donne in cambio dell’assunzione, il gap delle retribuzioni e quindi delle pensioni tra i sessi, il misconoscimento del lavoro di cura, il welfare, e così via. Altrimenti rischiamo che capiti anche qui quello che è successo alle donne, ritenute “pari” soltanto in uscita, e su tutte le altre possibili “parità” nessuna garanzia.

E magari smettiamola di dire sciocchezze tipo “la sintonia tra Camusso e Fornero scricchiola sul piano della solidarietà di genere” (come leggo oggi su Il Fatto, tanto per dirne uno). Qui la solidarietà non c’entra un accidente. L’auspicio può solo essere che nessuna delle interlocutrici -Fornero, Camusso e Marcegaglia- debba dimenticare di essere donna, sedendosi a questo supertavolo, e si senta libera di cercare un linguaggio e delle soluzioni che tengano conto del fatto di non essere un uomo, di avere del lavoro un’esperienza ben diversa, di auspicare soluzioni ben diverse, di non sentirsi costretta alle  ritualità e al simbolico maschili.
p.s. Questo essere tutte donne ai livelli massimi del confronto non deve essere visto come occasione di “solidarietà”, ma come occasione di esprimere a quel tavolo, pur nel conflitto delle rispettive posizioni, la grande competenza femminile sul tema del lavoro.