Nel giro di una ventina d’anni, secondo le nerissime previsioni Oms, la depressione sarà il male umano numero uno: saldamente al primo posto nei paesi ricchi, al secondo posto, preceduto solo dall’Aids, nella classifica mondiale delle malattie. Una crescita esponenziale a cui purtroppo non sembra corrispondere un progresso altrettanto rapido delle neuroscienze: di come funziona il cervello si capisce ancora molto poco. Sulle cause e sulle terapie della depressione si sta ancora cercando.
Le ricerche degli ultimi vent’anni si sono concentrate su un paio di neurotrasmettitori, serotonina e norepinefrina, ai cui livelli troppo bassi si assocerebbe la depressione: gli antidepressivi SSRI, come Prozac e Zoloft, agiscono proprio su queste sostanze. Studi più recenti si sono invece focalizzati sulle cellule nervose e sui circuiti cerebrali: la depressione potrebbe essere l’effetto di danni permanenti a queste strutture, provocati da un’esposizione prolungata allo stress, da una risposta eccessiva a più eventi stressogeni o anche a un’unica esperienza traumatica. La terapia dovrebbe quindi mirare a bloccare o ridurre l’eccesso di reattività individuale allo stress.
Un altro studio comproverebbe una certa efficacia antidepressiva del Dhea, madre degli ormoni sessuali, venduto negli Stati Uniti come integratore alimentare. Il Dhea funzionerebbe soprattutto sulla depressione della mezza età.
Un problema che ritarda e complica la diagnosi e la cura della depressione è la sua “clandestinizzazione”: i sintomi depressivi si associano spesso a sensi di colpa e a vergogna, soprattutto tra gli uomini, che diversamente dalle donne non hanno nemmeno l’“alibi” delle fluttuazioni ormonali. Ma il problema è ormai così radicato e diffuso da non poter più essere tenuto nascosto. Sul numero crescente di uomini vittime del “cane nero”, così Winston Churchill chiamava la depressione, negli Stati Uniti sono stati pubblicati saggi come “Unmasking Male Depression”di Archibald Hart, e “I Don’t Want to Talk About It: Overcoming the Secret Legacy of Male Depression”, di Terrence Real.
Come si sa, i medici raccomandano di non dire mai a un depresso cose del tipo: “fatti forza”, “usa la testa”, “mettici un po’ di buona volontà”. Un vero depresso non ha forza né volontà da usare, ed esortazioni di questo genere non fanno che aggravare il suo senso di inadeguatezza. Eppure c’è qualcosa, in questo appello alla volontà e al bene, che potrebbe rappresentare una speranza, o addirittura il principio di un nuovo approccio alla malattia.
La rivoluzione copernicana è la scoperta della plasticità del cervello, organo soggetto a continui cambiamenti indotti dai rapporti con l’ambiente, dalle esperienze, dalle sostanze con cui entra in contatto. Un esempio: in un pianista l’area cerebrale che controlla il movimento delle dita tende ad allargarsi a scapito di altre funzioni attivate più raramente. Nel tempo, il nostro cervello diventa la fotografia della vita che abbiamo condotto. La sua specializzazione, quindi, non è fissata una volta per tutte dall’anatomia o dai geni, ma è il risultato di quello che ci è capitato.
Per decenni, il dogma prevalente nelle neuroscienze era quello della fissità e dell’immutabilità del cervello adulto. Oggi si sa invece che la neuroplasticità è una caratteristica permanente, e che anche un “vecchio” cervello, non solo quello di un bambino, può subire modificazioni fisiche significative.
Una scoperta rivoluzionaria, perché se un cervello può cambiare, e quindi può ammalarsi in seguito a eventi e situazioni che ha subito, la strada non è a senso unico: sul cervello si può attivamente agire per modificarlo, e quindi per guarirlo, applicando pensiero e volontà in una sorta di “rieducazione emozionale”. Perché si è visto che anche l’attività puramente mentale e il semplice pensiero possono cambiare il cervello. I segnali che producono cambiamenti non arrivano solo dal mondo “fuori”, ma anche da “dentro”, dalla nostra interiorità, dalla nostra mente. Possiamo quindi diventare promotori consapevoli e attivi di questo processo, allenarci al benessere, pensare pensieri che ci fanno stare meglio.
Il saggio “Train Your Mind, Change Your Brain” (Allena la tua mente, cambia il tuo cervello- Ballantine Books, New York, 2007) di Sharon Begley, senior editor e science columnist di “Newsweek”, ragiona in profondità su questi temi, ed è un libro straordinario per la sua capacità di infondere speranza con argomenti solidamente scientifici. Sul risvolto di copertina, un’immagine della giornalista accanto a un sorridente Dalai Lama. Come spiega nella prefazione Daniel Goleman, autore del best seller “L’intelligenza emotiva”, “le pratiche di meditazione buddista sembrano poter offrire ai neuroscienziati una dimostrazione “in natura” della neuroplasticità al suo massimo potenziale”.
Con il consenso e la collaborazione del Dalai Lama, che firma l’introduzione al saggio di Begley, un gruppo di monaci con una lunga esperienza di meditazione sono stati sottoposti a test strumentali nei laboratori di Richard Davidson, neuroscienziato dell’università del Wisconsin. I test hanno inequivocabilmente dimostrato che la ripetuta pratica di una particolare tecnica di meditazione “sulla compassione” aveva prodotto significativi mutamenti in certe aree del cervello (la corteccia prefrontale) dei meditatori veterani, mutamenti associati a un incremento dello stato di felicità e di benessere, di empatia e di amore “materno”, a scapito di rabbia, depressione e “bad feeling”. La meditazione, quindi, aveva cambiato fisicamente il cervello dei monaci rendendo più attivi i “circuiti della felicità”, chiara dimostrazione che importanti cambiamenti possono essere volontariamente indotti con un’intenzionale applicazione del pensiero. Ci si può “allenare” a essere felici, insomma, o almeno a essere meno negativi e infelici. E una volontà costante può fare molto.
La meditazione non è l’unica strada. Spiega Sharon Begley: “Le ricerche si sono focalizzate soprattutto su questo, ma alcuni studi evidenziano che anche la terapia cognitivo-comportamentale può mutare certi modelli di attività cerebrale, fino a trattare la depressione e a ridurre la percentuale di ricadute. Vi è motivo di ritenere che altre forme di training mentale, la stessa preghiera cristiana probabilmente, possano indurre e indirizzare consapevolmente la plasticità del cervello”.
In una serie di incontri tra il buddismo e la scienza promossi a Dharamsala (India) dal Dalai Lama, in collaborazione con il Mind e Life Institute di Louisville, si è discusso degli eclatanti risultati delle ricerche sulla plasticità cerebrale: Sharon Begley ne riferisce nel suo appassionante reportage. Uno dei casi riportati è l’esperimento di Alvaro Pascual-Leone, neuroscienziato della Harvard Medical School. Pascual-Leone ha chiesto a un gruppo di volontari di eseguire un semplice esercizio a cinque dita al pianoforte, due ore al giorno per una settimana. Alla fine dell’esperimento si è visto che l’area cerebrale deputata al movimento delle cinque dita andava “colonizzando” le aree contigue. Cioè un quantitativo sempre maggiore di corteccia cerebrale veniva delegata al compito di far muovere le dita. La neuroplasticità infatti non è semplicemente la capacità del cervello di creare nuove sinapsi, cioè nuove connessioni tra neuroni, “tracce” di nuovi apprendimenti e nuovi ricordi, ma va ben oltre. E’ la stessa funzione delle aree cerebrali che può mutare: una zona del cervello geneticamente assegnata a un compito, per esempio alla vista o all’udito, può mettersi a fare altro. Ma ci vuole un’applicazione intenzionale. In una parola, serve allenamento e volontà perché questo possa accadere.
Le scoperte di Alvaro Pascual-Leone non finiscono qui. A un secondo gruppo di volontari lo scienziato ha chiesto di eseguire lo stesso motivo musicale solo mentalmente, semplicemente immaginando di muovere le cinque dita: ebbene, anche in questo secondo caso la regione di corteccia che controlla i movimenti delle dita è andata espandendosi. La struttura fisica del cervello quindi può cambiare non solo in conseguenza delle cose che facciamo o delle esperienze che abbiamo subito, ma anche di quelle che “semplicemente” pensiamo. Scoperta che, osserva Begley, può avere importanti implicazioni terapeutiche: si tratta in sostanza di pensare le cose adatte e nel modo adatto ad alterare le connessioni cerebrali su cui si fonda il disturbo mentale. Si può parlare di “neuroplasticità auto-diretta”. Evitarci il male e il dolore non è nelle nostre possibilità, ma controllarne gli effetti negativi probabilmente sì.
La prova delle capacità di autoguarigione della mente in alcune ricerche condotte dall’università di California: la terapia cognitivo-comportamentale sarebbe infatti in grado “acquietare” l’iperattività anomala dei circuiti cerebrali connessi al disturbo ossessivo-compulsivo. Mutuando dalle tecniche della meditazione buddista, il neuroscienziato Jeffrey Schwartz ha istruito alcuni pazienti a “osservare” i loro stessi pensieri ossessivi come delle “sciocchezze emesse da un circuito difettoso”. Dopo dieci settimane di trattamento, 12 dei 18 pazienti erano significativamente migliorati, e l’attività nella corteccia orbitale frontale, centro del disturbo ossessivo, si era drammaticamente ridotta, come capita in chi assume farmaci ad hoc.
Perché allora non ricorrere direttamente ai farmaci? “Perché in genere hanno effetti collaterali” spiega Begley “e per evitare ricadute depressive spesso vanno assunti per tutta la vita. Gli effetti della “mindfulness”, invece, della piena consapevolezza e dell’allenamento mentale, durano per sempre e non hanno controindicazioni. Inoltre non c’è farmaco che sappia incrementare l’empatia e l’amore come sa fare l’allenamento mentale”.
Richard Davidson, il neuroscienziato dell’università del Wisconsin che ha studiato i monaci, sottolinea l’esistenza di “una tremenda lacuna nella nostra visione del mondo: riconosciamo l’importanza dell’allenamento per aumentare le nostre forze, per l’agilità fisica, per le capacità atletiche, per l’abilità musicale… per tutto, salvo che per le emozioni”. E invece anche la felicità può essere appresa come un’arte: agli scienziati americani il Dalai Lama ha raccontato di essere stato lui stesso un ragazzino ribelle e perfino un po’ bullo. Oggi, dice, non conosce più il sentimento dell’odio.
Le tecniche della meditazione sono nate come risposta a una situazione ambientale molto avversa, che richiedeva grandi capacità di resistenza e di adattamento. Forse oggi, da un punto di vista spirituale, ci troviamo in una situazione ugualmente difficile: “Nel mondo attuale” conviene Sharon Begley “siamo costantemente sottoposti al bombardamento delle cattive notizie, viviamo immersi nel materialismo e nelle atrocità. Oggi più che mai dobbiamo poter contare sulle nostre risorse interiori per andare avanti”.
Qual è l’atteggiamento della scienza tradizionale su queste scoperte? “L’evidenza della neuroplasticità non può più essere negata” dice ancora Begley. “Semmai oggi si discute sui suoi limiti e sulle sue potenzialità. Si può pensare di ricorrere al training mentale anche per trattare disturbi mentali gravi, come la schizofrenia, l’autismo, l’Alzheimer? Per ora non lo sappiamo. Ma io credo che la scienza abbia sottovalutato troppo a lungo le potenzialità di autoguarigione del cervello, e sarebbe un errore liquidare a priori qualunque ipotesi prima di verificarla”.
La scoperta della neuroplasticità e delle potenzialità del training mentale, osserva ancora Begley, potrebbe aiutarci a cambiare radicalmente “anche il mondo, sfruttando appieno la possibilità di allenarci a essere più gentili e compassionevoli, meno difesi ed egoriferiti, meno aggressivi e guerrafondai”.

Il benessere dell’individuo e quello del mondo come un tutt’uno: è la speranza più grande, per il Dalai Lama, per i suoi monaci, per gli scienziati di Dharamsala. E per noi tutti.

(pubblicato su “Io donna” – “Corriere della Sera”)

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