Fino a poco più di un anno fa eravamo veramente in poche, e ci conoscevamo quasi tutte.

 

Dirti femminista era a tuo rischio e pericolo. Se poi eri “storica” –così vengono chiamate le madri di tutte noi- eri proprio da rottamare. Il lavoro continuava intensamente, proficuamente e felicemente nella riflessione sotto-traccia mediatica –nel senso che i media lo ignoravano del tutto- e nelle pratiche di politica prima, altrimenti dette volontariato o cura. Il cosiddetto “silenzio” c’era solo per i media.

 

Lo spartiacque è stato il 13 febbraio. Per tante è stata davvero una grandissima rivelazione. Per alcune solo un’ottima occasione. Da quel momento in poi non è stato più sconveniente dirsi femministe. Anzi. Ci sono anche maschi femministi, volendo.

 

Le femministe last minute pretendono di ricominciare da zero, come se prima di loro non ci fosse stato nulla. Fanno molta fatica a riconoscere l’autorità dell’altra. In una parola, cancellano la madre (come fanno da sempre gli uomini, e anche le emancipate). Ma dimenticando la madre rischi anche terribili svarioni.

 

Sono inorridita partecipando a una riunione in cui alcune protestavano perché ad aprire un convegno sarebbe venuta la delegata del sindaco e non invece il sindaco in persona: pratica inaudita nel femminismo, che casomai avrebbe chiesto cortesemente al sindaco maschio di astenersi e di mandarci la sua delegata. Ma direi che la notizia oggi è questa: una che via Facebook convoca una manifestazione sabato 26 in Regione Lombardia per chiedere le dimissioni di Nicole Minetti. Soltanto di lei, e non, casomai, di chi l’ha messa nel listino bloccato come merce di scambio politico, o di altri indagati (non c’è che l’imbarazzo della scelta). Pratica esplicita di giustizialismo misogino, inaudita anche questa. E poi che cosa fanno? La rapano a zero?

 

Direi che c’è ampia materia di riflessione.

 

 

 

 

 

 

 

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