L’orrore che vedete qui è il monumento alla Violata, fortissimamente e improvvidamente voluto dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Marche e collocata sul lungomare di Ancona.

“Orrore” non tanto per le qualità estetiche del manufatto, quanto per l’insieme dell’operazione: alcune migliaia di euro, di cui la lotta alla violenza -quella vera- avrebbe massima necessità, investite in un aggeggio inutile, vagamente porno, e che oltretutto non comunica il vero. E cioè il fatto che la maggior parte delle violenze sulle donne avviene tra le mura domestiche a opera di qualcuno a cui la donna è affettivamente legata. E non da parte di uno sconosciuto per la strada, come lascerebbe supporre la signorina verde con borsetta.

La spettacolarizzazione mediatica di violenza e femminicidio non sta portando risultati concreti, e anzi è causa di problemi.

Instant-book, format tv, show, associazioni e sportelli che nascono come funghi, esperte improvvisate che mettono in piedi progetti pariopportunistici al solo scopo di intercettare finanziamenti comunitari, una specie di business della violenza. Oltre al vittimistico attaccamento al tema, che impegna la grande parte delle energie politiche femminili. Un diffuso e universale piagnisteo che satura l’attenzione e fa immaginare che sulla violenza si stia facendo molto. E invece si sta facendo poco, e male.

Presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano aperta ormai 25 anni fa, Marisa Guarneri esprime ad alta voce tutta la sua “indignazione per quest’ultima spiaggia delle pari opportunità, che non hanno saputo far guadagnare alcuna libertà alle donne. Oggi sembra che per parlare e agire sulla violenza non serva alcuna preparazione. Ma se si vuole davvero lottare contro il femminicidio e la violenza serve altro”.

Mentre una ragazza di vent’anni sta lottando tra la vita e la morte dopo che il compagno le ha spappolato la milza a calci, una pensionata è ricoverata in ospedale per essere stata accoltellata a freddo dal marito ottantacinquenne, una bambina di 11 anni è scappata da casa, a Cornate d’Adda, dove il padre aguzzino la violentava da due anni, e una donna di San Giuliano milanese è stata sequestrata, torturata, picchiata e stuprata dall’ex-convivente (sono solo gli ultimissimi casi di cronaca), vediamo un po’ di dati veri -niente show- stringendo l’obiettivo sulla realtà milanese. La Lombardia, con le sue 19 morte ammazzate del 2012 (su un totale di 120), si piazza sorprendentemente in cima alla sanguinosa classifica.

Sulla base del suo osservatorio -220 donne accompagnate nel percorso di uscita dalla violenza nel 2012- la Casa delle donne maltrattate segnala l’86.8 per cento di casi di violenza psicologica, il 70,9 di violenza fisica, il 25.9 di violenza economica, il 15 per cento di stalking e il 13 per cento di violenza sessuale, nella stragrande maggioranza dei casi agita da un uomo ben conosciuto e tra le mura di casa (i vari tipi di maltrattamento possono coesistere).

Il 67 per cento delle donne viene maltrattata in casa, nel 46 per cento dei casi l’aguzzino è il marito, si sale al 52 per cento contando gli ex-mariti. Nel 18 per cento si tratta del convivente e nel 4 per cento dell’ex.

Il maggior numero di violenze si concentra tra i 28 e i 47 anni, fascia d’età in cui la donna è socialmente più attiva, e quindi più autonoma. Nel 59 per cento dei casi la donna lavora: non basta a preservare. Ha una scolarità alta nel 35 per cento dei casi, e media per il 17.7 per cento: il titolo di studio non è una variabile significativa.

Le straniere sono il 31 per cento delle assistite.

In 8 casi su 10 non ci sono problematiche di dipendenza da alcol o droghe, né prostituzione, né si rilevano disturbi psichiatrici: tutti luoghi comuni da sfatare.

Solo il 30 per cento delle maltrattate denuncia: il 67,2 non lo fa (più del 3 ritira la querela): le donne non credono che denunciare le metta in sicurezza, “sentono” anzi di essere a maggior rischio dopo aver denunciato –ed è effettivamente così-. Molte sono costrette a continuare a vivere sotto lo stesso tetto con il denunciante, in assenza di provvedimenti di tutela immediata.

Ma i dati più sconcertanti emergono dalla ricerca delle avvocate della Cadmi sui procedimenti giudiziari, da cui emerge che il goal della Procura milanese è l’archiviazione del maggior numero possibile di casi: le richieste di archiviazione sono aumentate in modo esponenziale, fino a superare il 50 per cento delle iscrizioni per i maltrattamenti in famiglia, ritenuti casi di banale conflittualità familiare. Nonostante il fatto che, come notavamo prima, solo in una minoranza dei casi e dopo un doloroso percorso la donna arriva alla denuncia.

L’avvocata della Cadmi cita per tutti il caso di un autorevole magistrato che ha inoltrato richiesta di archiviazione perché alla denuncia è allegato “un solo” certificato medico, e comunque potrebbe trattarsi di “legittima difesa” del marito.

La parola d’ordine è “sfoltire”. Eventualmente proponendo come alternativa la mediazione tra le parti (come se si trattasse di ordinaria conflittualità civile) a opera della polizia municipale (!) a cui manca la necessaria preparazione. E anche se la convenzione di Istanbul contro la violenza sessista, recentemente sottoscritta dal governo italiano, vieta espressamente la mediazione in quanto inefficace e pericolosa.

L’equivoco tra violenza sessista e conflitto familiare mette ulteriormente a rischio la vita delle donne, e chiede di porre la massima attenzione, oltre che alla questione urgente del finanziamento dei centri antiviolenza, al tema della cultura con cui le istituzioni –forze dell’ordine, magistratura, politica- stanno affrontando, almeno a parole, l’emergenza.

 

Casa delle donne maltrattate di Milano, via Piacenza 14, 02 55019609.

Per destinare il 5X1000, indicare il codice fiscale 97086840150   

 

 

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