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bambini, diritti, Donne e Uomini Dicembre 8, 2015

9 domande e 9 risposte sull’utero in affitto

Girano un bel po’ di stupidaggini sulla questione utero in affitto, che pur con ritardo è clamorosamente esplosa anche nel nostro Paese (qui, come saprete, ce ne occupiamo da anni).

Sarebbe tutto molto semplice: come Eduardo fa dire a Filumena Marturano, “i figli non si pagano”. Ma in questi tempi di dirittismo esasperato, le cose tendono a complicarsi.

Proviamo quindi a tornare in tema, affrontando le questioni che ricorrono con maggiore frequenza.

1. Tutti abbiamo diritto alla “genitorialità”

E’ un diritto inesistente, privo di fondamento, figlio di una cultura dirittistica e adolescenziale che non distingue tra desideri e, appunto, diritti, e fonda un diritto per ogni desiderio. Sarebbe come affermare il diritto ad avere un marito o una moglie: il mio diritto, semmai, è che nessuno mi impedisca di legarmi liberamente a qualcuno/a, ma non posso certo pretendere che mi venga garantito un legame affettivo. Così per i figli: ho diritto a metterli al mondo, se intendo farlo –e conseguentemente ho il dovere di occuparmene responsabilmente, una volta che l’ho fatto-, ho diritto a che nessuno mi impedisca di diventare madre o padre minacciando per esempio di licenziarmi, come avviene correntemente alle giovani precarie (diritto per il quale si battono in pochi). Ho diritto a cure mediche ragionevoli, se la mia salute riproduttiva le richiede. Ma non posso chiedere che lo Stato mi garantisca di essere padre o madre a ogni costo e in qualunque condizione, fino a consentire un vero e proprio mercato dei figli. L’unica titolare di diritti è la creatura: diritti a cui le convenzioni internazionali riconoscono assoluta superiorità, e che nei discorsi sull’utero in affitto e più in generale sulla fecondazione assistita vengono invece tenuti spesso come terzi e ultimi.

2. Del mio corpo faccio quello che voglio

Per la nostra legge il corpo è indisponibile: non posso, cioè, farne sempre quello che mi pare, né tanto meno oggetto di mercato. L’unica eccezione è un uso solidale. Posso cioè donare sangue, midollo, o anche un rene a un consanguineo, ma non posso metterli in vendita o comprarli. Nessuno di noi ha perciò diritto di mettere in vendita parti del proprio corpo. E’ una limitazione alla propria libertà? Sì, lo è.

 3. E’ come per le donazioni d’organo

Sì e no. Anche nel caso dell’utero in affitto la legge ammette, ad alcune precise condizioni, la pratica solidale: i nostri tribunali hanno già ammesso casi di “utero solidale” dopo aver vagliato attentamente le situazioni, aver accertato l’esistenza di una relazione affettiva tra la donatrice e i riceventi, e aver escluso ogni passaggio di denaro. Ma l’analogia si ferma qui: perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni vanno tenute per prime.

 4. Non si può impedire a una donna di offrire il proprio utero

Se una donna si offre di condurre una gestazione per altri in cambio di denaro –quindi per ragioni di bisogno economico suo o, peggio, di terzi sfruttatori che decidono per lei- è necessario opporsi con ogni mezzo a questa pratica. Se l’offerta è solidale, è necessario verificare a fondo l’effettiva necessità a cui la sua offerta corrisponde, e la gratuità e autenticità di questa solidarietà, che comporta l’esistenza di una relazione e il suo mantenimento nel tempo con i “committenti” e con il nascituro. Questo limita la libertà della donna? Sì, la limita. Il limite consiste precisamente nel fatto che la sua decisione darà vita a un terzo, che va tenuto per primo, e va in ogni modo tutelato. Inoltre la “portatrice” deve essere libera di revocare in ogni momento il suo consenso, anche dopo la nascita del bambino, per tenere la creatura presso di sé.

5. Se c’è libertà di prostituirsi, ci dev’essere libertà di offrire l’utero

I piani sono molto diversi, e per la ragione che dicevamo sopra: perché qui non si tratta di un agreement tra due (è vero, troppo spesso anche nella prostituzione non c’è affatto libertà, ma qui non approfondiamo il tema) ma di un accordo finalizzato alla messa al mondo di un terzo, il bambino, che al momento dell’accordo non ha voce in capitolo, e che non può essere pensato come prodotto, ma è a tutti gli effetti il protagonista muto della vicenda.

6. Molte donne si offrono gratis

Si tratta di un numero infinitesimo e non significativo di casi. Anche in quei Paesi, come il Canada, in cui alle donne viene riconosciuta un’indennità comprensiva del rimborso delle spese mediche sostenute, si tratta in realtà di una transazione economica -in Canada si adotta la medesima prassi per rimborsare chi si offre per la sperimentazione di un farmaco-. Si tratta in realtà di un compenso a tutti gli effetti, destinato a donne che nella quasi totalità dei casi si offrono per necessità economiche.

 7. La portatrice non ha legami biologici con il bambino

La “semplice” portatrice non ha legami genetici con il bambino, ma ha importanti legami epigenetici, che influenzano il fenotipo (ovvero la morfologia, lo sviluppo, le proprietà biochimiche e fisiologiche comprensive del comportamento etc.) senza modificare il genotipo.  In parole semplici, durante la gestazione tra lei e il feto avvengono scambi biochimici decisivi per lo sviluppo del bambino, scambi che continuano nella fase perinatale e che fanno di quel bambino quello che sarà. La madre portatrice non è un semplice incubatore, come nella visione aristotelica fondativa del patriarcato, che postula la naturale inferiorità del genere femminile: nella riproduzione, secondo Aristotele, il maschio è attivo, è il vero genitore che dà forma alla materia inerte femminile, la donna è invece “passiva” in quanto  “è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore” (il maschio). Chi pensa alle portatrici come semplici contenitori che alla fine della gestazione consegnano docilmente il prodotto ai committenti, si allinea alla violenza di questo pensiero patriarcale.

8. Chi si oppone all’utero in affitto è omofobo

Non è affatto così, visto che la pratica riguarda nella stragrande maggioranza dei casi coppie o singoli eterosessuali. Inoltre il più del femminismo mobilitato contro l’utero in affitto sostiene attivamente i diritti delle coppie omosessuali, ed è a favore dell’adozione anche per loro (me compresa). E’ pur vero che se solo una minoranza di chi ricorre all’utero in affitto è omosessuale, la quasi totalità dei maschi omosessuali che progettano un figlio geneticamente proprio deve ricorrere a una donna, che “concede” il proprio utero in solidarietà o molto più frequentemente a pagamento, cedendo la creatura e interrompendo ogni relazione con lei. Si commette inoltre un grave errore quando sul fronte della genitorialità, secondo una logica paritaria fuoriviante, si fa un tutt’uno tra gay e lesbiche, invocando “uguali diritti”. Una lesbica è una donna sulla cui scelta di diventare madre non può esserci parola pubblica: è lei che  decide, che sia sola o abbia una compagna, esattamente come una donna eterosessuale –con l’unica differenza di non concepire, di norma, via rapporto sessuale-. Nel caso di un maschio, invece, che sia gay o un eterosessuale deciso a concepire fuori da una relazione con una donna, la parola pubblica è decisiva, perché il suo desiderio necessita di almeno tre livelli di mediazione: dev’esserci un mercato dove acquistare ovociti e “affittare” uteri (o molto più di rado averli in dono); dev’esserci una medicina che ti assista, dal momento del prelievo (doloroso) degli ovociti, all’impianto dell’embrione, alla gestazione; dev’esserci un quadro normativo che ti permetta di condurre in porto l’operazione. Non vi è, quindi, alcuna “uguaglianza di diritti” su questo fronte fra gay e lesbiche, perché la differenza sessuale esiste a prescindere dall’orientamento sessuale. Questo è triste e doloroso per i gay che vogliono un figlio geneticamente proprio? Immagino di sì, ma non ci si può fare molto. Esiste pur sempre l’opzione di fare quel figlio con una donna che lo desideri, e che sarebbe sua madre (senza costringerla a scomparire).

9. La stepchild adoption non c’entra con l’utero in affitto

Purtroppo c’entra, e qui si apre un notevole dilemma. La stepchild adoption (ovvero l’adozione del figlio del proprio partner) è molto importante per tutti quei bambini che vivono nelle cosiddette famiglie arcobaleno, perché si tratterebbe del riconoscimento dell’affettività che lega questi bambini al partner del genitore biologico, garantendo la continuità di relazione. E’ vero anche, tuttavia, che poter adottare i figli del partner costituirebbe una remora in meno alla scelta di concepire un bambino con utero in affitto. Si tratta, quindi, di bilanciare l’interesse dei già nati, per i quali si aspira giustamente alla continuità affettiva, con quello di ulteriore nascituri, moltiplicando il numero di quelli che subirebbero la violenza di essere tolti alla madre. Trovare un equilibrio è difficile. Una strada –forse- potrebbe essere quella di un riconoscimento “tombale” per i bambini già nati, subordinando la concessione di stepchild adoption per i nascituri alla presenza di una madre.

Un’osservazione, per finire: quando si evidenziano i limiti “naturali” (ovvero fondati nella biologia dei corpi) che impediscono a molti desideri di tradursi automaticamente in diritti, molte e molti reagiscono con stizza, come bambini a cui sia negato di avere tutto ciò che vogliono e che di “no” (o magari di doveri che bilancino i diritti) non vogliono sentir parlare. Ma spesso si tratta di desideri indotti da un mercato che non si dà limiti di profitto, il cui obiettivo non è certo farci crescere in umanità, e che di consumatori-bambini ha sempre più bisogno.

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Aggiornamento 18 dicembre: seguendo il dibattito, a tratti furente ma certamente interessante, evidenzierei due temi che ne sono usciti e che mi sembrano decisivi: 

1) affermare un diritto significa ipotizzare un corrispettivo dovere: se, quindi, si pone un diritto alla genitorialità, chi è titolare del dovere corrispondente? se ho diritto ad avere un figlio, chi ha il dovere di darmelo? una donna, al momento non c’è alternativa. quindi toccherebbe alle donne farsi carico di questo dovere. e perché mai?

2) si glissa sul tema della gratuità della Gpa. probabilmente sarebbe più facile trovare una composizione se si ammettesse che l’utero non può essere affittato, ma deve essere effettivamente donato. e il dono, per definizione, non ammette alcuno scambio di denaro. perché non si conviene sulla gratuità? perché si sa benissimo che nessuna donna (salvo rarissime eccezioni solidali) si presterebbe a una Gpa, se non in cambio di denaro. quindi è meglio glissare.

 

 

 

 

 

 

 

diritti, Donne e Uomini, Femminismo, Politica, questione maschile Novembre 30, 2015

Giovanna Martelli, consigliera di Parità dimissionaria: “Troppa disattenzione ai temi delle donne”

Ho “litigato” spesso –rispettosamente- con Giovanna Martelli, consigliera di Parità del governo Renzi. Con rispetto anche maggiore guardo alle improvvise dimissioni dal suo incarico istituzionale nonché dal Pd (è entrata nel gruppo misto alla Camera). Da quel carro si scende malvolentieri –il flusso più cospicuo è in entrata- e dagli incarichi non si stacca mai nessuno.

Il casus belli: il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Martelli aveva chiesto di anticipare il suo voto per l’elezione di 3 giudici della Consulta, in modo da poter partecipare a un incontro sulla violenza a Milano. Dopo un iniziale ok, il permesso viene negato via sms.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso di una generale disattenzione sui temi delegati a Martelli: “Nel partito” dice “a queste cose si guarda con troppo sussiego. Si pensa che il 25 novembre sia solo una celebrazione retorica. Le donne del Pd mi hanno cercato solo dopo le mie dimissioni. Non esistono più le condizioni per lavorare”.

Anche se i nodi da affrontare non mancherebbero: il surplace senza fine sui diritti; i molti problemi delle donne su cui, ammette Martelli, “stiamo assistendo a veri passi indietro”: lavoro, gap salariale e pensionistico, servizi, salute, legge 194. Al governo più femminile di sempre non stanno corrispondendo, paradossalmente, passi avanti per la cittadinanza femminile.

Nella legge di stabilità (articolo 1, comma 334, gli stanziamenti per le Pari Opportunità subiscono un taglio di 2,8 milioni di euro l’anno nel triennio 2016-2018. Quindi dai 28 milioni previsti inizialmente per il 2016 (e ridotti a 25) si passerà a circa 17.500.000 nel 2018.

Preso in contropiede dalle dimissioni, il governo tenta il recupero. L’ex-consigliera alza il tiro: “Intendo porre precise condizioni”. Per esempio la re-istituzione di un Ministero per le pari opportunità?Non credo che sarebbe lo strumento più efficace” dice Martelli.

Al segnale lanciato da queste dimissioni -e alla “trattativa” che ne consegue- non stiamo prestando sufficiente attenzione.

 

 

 

 

Corpo-anima, diritti, economics, questione maschile Ottobre 23, 2015

La lobby dei papponi dietro la proposta di Amnesty International di legalizzare la prostituzione

Ebbene siamo state qui a combattere con clienti di prostitute che si facevano forti della proposta di Amnesty International di legalizzare la prostituzione in nome dei diritti umani–sulla legalizzazione questo blog ha già prodotto molto materiale: vedi qui, e qui, e qui-. La proposta di Amnesty ha sconcertato anche molte e molti fra noi, convinte/i che la legalizzazione e la teoria del libero sex working siano inutili e anzi dannose nella lotta contro la tratta e lo sfruttamento.

In effetti da Amnesty non ce lo aspettavamo. Poi leggi questo articolo del britannico “The Guardian”, e improvvisamente i conti tornano. 

In sostanza: la vice-presidente del Global Network of Sex Work Projects, Alejandra Gil, ascoltatissima da Amnesty come esperta e con ruoli di opinion leading anche presso organismi delle Nazioni Unite, è una sfruttatrice, condannata a 15 anni di carcere per tratta a seguito della denuncia di una vittima.

Come scrive “The Guardian” (qui nella traduzione di Resistenza Femminista) “Gil faceva parte di una rete di sfruttamento che coinvolgeva circa 200 donne. Conosciuta come la Madam di Sullivan era una delle più potenti sfruttatrici di Sullivan Street, area di Città del Messico famosa per la prostituzione. Gil e suo figlio facevano parte di una rete di trafficanti nello stato di Tiaxcala, luogo conosciuto in Messico come l’epicentro della tratta. Madai, una ragazza di 24 anni che è stata trafficata a Città del Messico, è una delle persone che ha fornito le prove contro Gil. Parlando con un giornalista in Messico ha dichiarato: “il lavoro di Gil era di controllarci dalla macchina. Suo figlio ci portava negli hotel e ci prendeva i soldi. Lei teneva i conti. Aveva una lista dove prendeva nota di tutto. Scriveva perfino quanto tempo impiegavamo”.

Oltre ai suoi impegni di sfruttatrice, Alejandra Gil era presidente di Aproase,una NGO che diceva di sostenere i diritti delle persone in prostituzione, ma che in pratica funzionava da copertura utlile per le sue operazioni di sfruttamento. E fino all’arresto Madam di Sullivan era vicepresidente di un’ organizzazione che si chiama Global Network of Sex Work Projects. Nel 2009 la Gil è stata anche eletta co-presidente del “Comitato Consultivo su HIV e Sex Work“ di UNAIDS. UNAIDS è l’associazione internazionale responsabile del contrasto su scala globale alla diffusione del virus HIV. Alejandra Gil è anche personalmente riconosciuta, in un report sul mercato del sesso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità -WHO, 2012- come una degli “esperti” che hanno dedicato il loro “tempo e competenza” per sviluppare le loro raccomandazioni. Amnesty International fa riferimento, nella sua proposta sul sex work, al NSWP e al comitato consultivo che ha diretto. La politica di Amnesty fa riferimento a “organizzazioni per i diritti umani” che appoggiano la loro proposta: “e in modo particolare“, scrivono, a “un vasto numero di organizzazioni e reti per i diritti dei/delle sex workers, incluso il Global Network of Sex Work Projects, che sostengono la depenalizzazione del sex work”.

Come è potuto accadere tutto questo? Come ha potuto una sfruttatrice finire a essere seconda al comando di un’associazione globale che ufficialmente ha il ruolo di consulente per le agenzie delle Nazioni Unite sulle politiche da adottare in tema di prostituzione, e che è citata da Amnesty International nel suo documento sul sex work? 

NSWP ha organizzato una campagna per la depenalizzazione delle “parti terze” nella prostituzione. Di questi fanno parte, secondo le loro dichiarazioni, “i managers, i proprietari di bordello e qualsiasi persona considerata un/a favoreggiatore/trice del sex work”. L’organizzazione insiste nel dire che “i sex workers possono essere lavoratori/lavoratrici o imprenditori o partecipare in una gamma di altri lavori collegati al sex work”. Secondo la politica del NSWP la sfruttatrice Alejandra Gil era una “sex worker” il cui ruolo nel mercato del sesso era la “manager”. L’organizzazione fa pressione politica perché lo sfruttamento e la gestione dei bordelli sia considerata un lavoro legittimo. Per ricoprire il suo ruolo come Vice Presidente del NWSP, Gil non aveva nessun bisogno di nascondere i suoi interessi come pappona, aveva un mandato per perseguirli. Questi interessi sono stati perseguiti con grande successo grazie a una delle organizzazioni per i diritti umani più famose al mondo.

Quello che è successo nel 2007 è fondamentale per capire in che modo il gruppo è riuscito ad imporsi.  Una versione rivista della nota guida di UNAIDS fu pubblicata, questa volta contenente l’appendice preparata dal comitato informativo del gruppo. Questa raccomandava che “gli Stati abbandonassero le politiche di criminalizzazione del sex work e delle attività associate ad esso. La depenalizzazione del sex work dovrebbe comprendere la rimozione di quelle leggi penali contro la vendita e l’acquisto di sesso, della gestione dei sex workers e dei bordelli e delle altre attività legate al sex work”. Quel report è diventato adesso un riferimento fondamentale per i gruppi che fanno pressione sui governi per rendere legale lo sfruttamento e la gestione dei bordelli. È il modello legale sostenuto dal NSWP – la totale depenalizzazione del mercato del sesso- che la Direzione di Amnesty International ha votato ad agosto. Amnesty sostiene che la sua linea politica è stata il risultato di due anni di ricerche e che si tratta della soluzione  migliore per la protezione dei diritti umani di quelle persone che alcuni uomini comprano per il sesso. Amnesty International sostiene la depenalizzazione di una forma di violenza contro le donne, consentendo agli Stati di diventare papponi, rendendo i bordelli leciti e tassando le donne che sono sfruttate là dentro.

Esohe Agathise, Consulente sulla tratta a scopo sessuale di Equality Now, ha detto “È sconvolgente come una persona condannata per tratta a scopo sessuale possa influenzare una politica che, in se stessa, è incompatibile con i diritti umani e la legge internazionale. Abbiamo bisogno di fermare la domanda che alimenta la tratta piuttosto che depenalizzare quelli che lucrano sullo sfruttamento degli altri. Le agenzie delle Nazioni Unite devono immediatamente chiarire la loro posizione sul mercato del sesso, in particolare alla luce di queste nuove prove schiaccianti”.

Senza dubbio, le persone che sono pagate per il sesso dovrebbero essere completamente depenalizzate. Ma non quelli che le sfruttano sessualmente: i papponi, i proprietari di bordello e i compratori. Questi sono criminali e non imprenditori o consumatori. Mia de Faoite, sopravvissuta alla prostituzione, ha detto: “Ho lasciato la prostituzione completamente distrutta come essere umano e non riesco minimamente a immaginare come un tale livello di violenza possa essere sancito e considerato “lavoro””.
La condannata per tratta a scopo sessuale Alejandra Gil e il suo gruppo sono stati così strettamente coinvolti nella costruzione della politica delle agenzie delle Nazioni Unite sulla prostituzione, da autorizzare a parlare di uno scandalo nel campo dei diritti umani. Chiaramente UNAIDS deve urgentemente condurre un’inchiesta trasparente e approfondita su tutte le politiche che sono state condotte dal NSWP e fare indagini su come tutto questo sia potuto accadere. Per quanto riguarda Amnesty International, sarebbe orribile vedere l’organizzazione perseverare nel suo appello per la depenalizzazione totale del mercato del sesso. Non c’è bisogno di una condanna per tratta di chi rappresenta il principale gruppo sostenitore della sua linea politica per capire chi è che in realtà trae i maggiori vantaggi, quando lo Stato legalizza la gestione dei bordelli e lo sfruttamento”.

Ma sulla proposta di Amnesty c’è di più. Non solo una sfruttatrice ha avuto molta influenza sulla sua risoluzione, ma uno sfruttatore ha redatto la bozza originale del documento. Ne dà notizia Resistenza Femminista. Si tratta di Douglas Fox, fondatore e partner commerciale della Christony Companions, una delle più grandi agenzie di escort della Gran Bretagna, un pappone che ha scritto il documento per sostenere la depenalizzazione di persone come lui, proprietari di bordelli, sfruttatori. Lui stesso ha rivendicato di aver scritto questo documento in un’intervista rilasciata a “The Guardian”. Douglas Fox si considera un “sex worker” nonostante non si sia mai prostituito. Nell’intervista afferma: “I think anyone who makes money from selling sex is a sex worker” (“Io credo che chiunque faccia soldi con la vendita di sesso sia un sex worker”). Fox afferma che “quelli che voi (femministe) chiamate papponi noi li chiamiamo managers” (“what you call pimps we call managers”).

Ecco  la trascrizione di un confronto presso la Commissione Giustizia dell’Irlanda del Nord del 30 gennaio 2014 nel quale una rappresentante di Amnesty ammette che Fox faceva parte del gruppo di New Castle che nel 2008 ha proposto la prima versione del documento sul sex work, e che quindi Fox fosse al centro dell’iniziativa.

Che Amnesty ripensi seriamente alla sua proposta.

Noi ne siamo convinte da tempo: dove si parla di legalizzare la prostituzione e lo sfruttamento sessuale c’è sempre odore di business, e le lobby si muovono potentemente.

 

 

bambini, diritti Ottobre 19, 2015

Il dilemma della Stepchild Adoption

Spieghiamolo bene perché forse non è chiaro a tutti.

Stepchild Adoption vuole dire questo: che se uno/a ha un figlio che non è anche figlio del suo/a partner, il/la partner può adottarlo. Questo in Italia è già consentito alle coppie sposate. Non possono farlo invece le coppie omosessuali, a cui non è consentito sposarsi.

Il ddl Cirinnà propone di allargare alle coppie omosessuali la Stepchild Adoption, mentre conferma che non potranno adottare un bambino che non sia già figlio di uno dei due (questo lo capisco poco, ma va be’).

E’ il punto nevralgico della proposta in discussione, su cui assistiamo a un continuo stop-and-go.

In concreto: Mario e Luigi sono una coppia che sta crescendo il figlio che Mario ha messo al mondo grazie a ovodonazione e maternità surrogata (o, che ha avuto da una precedente relazione eterosessuale, o che ha adottato con una ex-partner). Il bambino quindi ha un legame affettivo sia con il padre biologico sia con il suo partner, legame che la legge oggi non riconosce e non tutela. Se la coppia si separasse o se Mario morisse, il rapporto tra Luigi e il bambino non sarebbe tutelato in alcun modo. La Stepchild Adoption intenderebbe anzitutto tutelare il diritto del bambino alla continuità affettiva, e quindi il diritto a continuare a essere cresciuto da Luigi. Sarebbe una grande crudeltà strapparlo ai suoi affetti, e questo è evidente a tutti.

In Italia i bambini in questa situazione sarebbero almeno 100 mila: una platea cospicua.

Tra gli argomenti degli oppositori, il fatto che la Stepchild Adoption costituirebbe un passo importante in direzione della liceità dell’utero in affitto, pratica che nel nostro Paese resta vietata (mettiamo qui tra parentesi la questione dei bambini nati da donazione di seme maschile, che si declina diversamente).

Sull’utero in affitto mi sono già espressa più volte: che i committenti siano etero o omosessuali, salvo rarissime eccezioni si tratta di una pratica di sfruttamento di donne povere che conducono una gravidanza –e vendono i propri ovociti -unicamente per ragioni di bisogno economico. Soprattutto si tratta di una violazione del diritto del bambino a mantenere un legame con chi l’ha partorito, diritto che la prima generazione di nati da fecondazione assistita ha rivendicato a gran voce.

E’ vero, come sostengono gli oppositori della Stepchild Adoption, che ammetterla significherebbe “sdoganare” ovodonazione e utero in affitto, e quindi normalizzare sfruttamento delle donne e taglio del legame tra il bambino e la/le madre/i?

Probabilmente sì, trattandosi della rimozione di un ostacolo. Non è vero però il contrario: cioè che bocciare la Stepchild Adoption arginerebbe queste pratiche, il ricorso alle quali è sempre più ampio, che la legge consenta o non consenta.

Ma un fatto è certo: impedire la Stepchild Adoption danneggerebbe affettivamente, psicologicamente e non solo i bambini che stanno crescendo in queste famiglie.

Quindi, come vedete, il dilemma è reale.

 

diritti, Donne e Uomini, salute Ottobre 1, 2015

Milano e Caserta: cortei il 10 ottobre contro la 194

Il prossimo 10 ottobre a Milano (ore 15.00, partenza da piazza Cadorna) e quasi in contemporanea a Caserta (ore 16.30 da piazza Vanvitelli) si svolgeranno due cortei organizzati dal comitato No194 in preparazione di un referendum abrogativo della legge 194 che regola l’interruzione volontaria di gravidanza. Al corteo parteciperanno probabilmente anche estremisti di destra di Forza Nuova, come in occasione della precedente manifestazione milanese l’11 aprile scorso.

Pietro Guerini, avvocato di Clusone (Bg), è presidente del comitato.

“Siamo nati nel 2009” dice “con l’unico obiettivo di abolire la legge 194. Dobbiamo irrobustirci per poter raccogliere le 500 mila firme che servono per il referendum”.

Non le sembra già sufficientemente abolita, la legge 194? Siamo perfino sotto sanzione europea per la sua disapplicazione a causa della fortissima obiezione di coscienza.

“Ma lei davvero è una giornalista del Corriere?”.

Perché, scusi?

“Questa è una domanda più da Repubblica… Comunque le rispondo. Per me lo scandalo non sono gli obiettori, lo scandalo è che ci siano medici che non obiettano, che tradiscono il giuramento di Ippocrate e che uccidono esseri umani indifesi”.

Lei sa che nel 1981 il referendum andò molto male…

“Altro che! Ero un ragazzino, andavo al liceo, e quel referendum mi ha cambiato la vita. Fu una disfatta totale, 68 no all’abrogazione contro 32 sì. Ma allora l’ideologizzazione era molto forte, la gente seguiva le direttive dei partiti. Oggi il clima è molto diverso. Alle Europee del 2009 la sinistra aveva perso molto e in generale si è manifestata una grande disaffezione ai partiti. E’ allora che ho fondato il comitato. Oggi la de-ideologizzazione è generale e il referendum avrebbe grandi chance”.

Vorrebbe abrogare l’intera legge?

“Salvo l’art. 6 lettera A, che ammette il diritto ad abortire in caso di comprovato pericolo di vita per la donna: la gravidanza poteva essere interrotta per questo motivo anche prima della legge 194. E salvo gli articoli sanzionatori, 17-18-19, perché l’aborto deve restare un reato ed essere adeguatamente punito”.

Quindi lei non si accontenta di abrogare l’”aborto di Stato”, come si dice, praticabile nelle strutture pubbliche. E’ anche contrario a ogni forma di depenalizzazione.

“Vede, ragioniamo da punti di vista radicalmente indifferenti: io considero sacro il diritto di nascere, e lei considera sacro il diritto di scelta della donna”.

Guardi che è sempre la donna a scegliere, legge o non legge. Nessuno può obbligarla a condurre una gravidanza, a meno di legarla a un letto di contenzione.

“Se intende interromperla, sia consapevole di commettere un reato e venga condannata per questo. E con lei il medico, e chi l’ha istigata a commetterlo, ad esempio il padre”.

Quindi una donna deve sempre portare a termine la gravidanza.

“Sempre. Noi vogliamo tutelare i più deboli, quelli che non hanno voce e che non votano. Se una donna resta incinta il bambino se lo tiene. Punto. Uno stato civile non può consentire la soppressione di un essere umano”.

Mentre può consentire la morte per aborto clandestino: perché è così che va a finire, anche lei lo sa.

Se una vuole rischiare di crepare per aborto sono solo fatti suoi”.

Lei è cattolico?

“Cattolicissimo. Ma nel nostro comitato, che conta 30 mila iscritti, ci sono anche atei. La nostra è un’impostazione giuridica, non religiosa”.

Come giudica il perdono di Francesco, in occasione del Giubileo, alle donne che hanno abortito?

“Giusto che il Papa sia misericordioso. Ma un altro conto è l’impunità per chi uccide”.

Siete legati a un partito?

“A nessuno. Ma non abbiamo pregiudiziali. Se un partito vuole collaborare al raggiungimento del nostro obiettivo siamo apertissimi”.

Tipo Forza Nuova?

Il primo tra i principi di Forza Nuova è la cancellazione dell’aborto. Io non voto Forza Nuova, sono un liberale e loro lo sanno. Ma su questo punto la convergenza è oggettiva”.

 

Questi i fatti. E quella che segue l’opinione: un referendum abrogativo della 194 difficilmente raccoglierà il numero di firme sufficiente, e nel caso le raccogliesse, difficilmente vincerebbe. Ma queste mobilitazioni creano “clima”, perfezionando lo svuotamento della legge dall’interno.

 

 

diritti, Femminismo, Politica, salute Settembre 12, 2015

#Save194: parla uno degli ultimi non-obiettori

Antonio Spreafico detto Nino -o anche “Sprea”-, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprefico è ginecologo– si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche essere al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.

Brianzolo, cattolico, in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più erogabile.

“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.

Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…

“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche tipo San Pio X  o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale, molto remunerativa, quella sì”.

Che è l’anticamera dell’aborto terapeutico, nient’altro.

“Regione Lombardia dovrebbe obbligare queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni. E invece anche per gli aborti terapeutici ormai siamo al “turismo”: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.

Come mai un’obiezione così alta tra i giovani neoassunti? Si tratta di un cambiamento di sensibilità?

“Come dicevo si tratta fondamentalmente di ragioni di carriera. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Io quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui al momento delle dimissioni  metti in mano 10 euro perché non sa come mangiare”.

Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?

“Sempre tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… Un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.

Prima dell’approvazione della legge 194 si è parlato anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.

“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione: chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità potrebbe rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.

C’è clima per riparlarne?

“Non mi pare. Le donne sono lontane, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Ma una soluzione la dovremo trovare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Spreafico detto Nino, o anche “Sprea”, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprea è ginecologo- si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche stare al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.

Brianzolo, cattolico e in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più garantito.

“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.

Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…

“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche come San Pio X  o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale sì”.

Che è  l’anticamera dell’aborto terapeutico. Altrimenti a che cosa serve?

“Ecco: perché Regione Lombardia non obbliga queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni? Anche per i terapeutici siamo al turismo abortivo: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.

Un’obiezione così alta tra i “nuovi” perché è cambiata la sensibilità??

 

“Fondamentalmente per ragioni di carriera, come dicevo. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui quando la dimetti dai anche 10 euro perché non sa come mangiare”.

 

Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?

 

“Tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.

 

Prima dell’approvazione della legge 194 si parlava anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.

 

“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione.  Chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità avrebbe potuto rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.

C’è il clima per riparlarne?

“Non mi pare. Le donne fanno poco su questo tema, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Non è sempre stato così”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

della Il drg Con Drg (acronimo di Diagnosis Related Groups, ovvero Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi) si indica il sistema di retribuzione degli ospedali per l’ attività di cura, introdotto in Italia nel 1995. Il meccanismo Gli interventi vengono retribuiti non più «a piè di lista», cioè in base alle giornate di degenza, ma «a prestazione». In base ad una stima predefinita del costo. La storia Il sistema Drg nasce negli Stati Uniti, negli anni ‘ 80, quando ci si accorge che il rimborso a «piè di lista» stava portando all’ implosione del sistema, a causa dei costi insostenibili, perché più si teneva il paziente in ospedale più si incassava: con i letti sempre pieni e le liste d’ attesa infinite. La Lombardia È una delle prime regioni ad applicare il modello Drg. In principio i raggruppamenti sono molto generali. Poi vengono perfezionati: oggi ci sono più di 500 Drg. Vengono rivisti ogni due anni. Dal ‘ 95 siamo alla 23 esima riedizione. Un’ innovazione tecnica o tecnologica può richiedere il ritocco della spesa. La novità Per ogni intervento (dall’ appendicite al trapianto di fegato) sono previsti diversi gradi di rimborso, dal caso semplice a quello complesso. Per evitare truffe, dal 2008 ad un caso complesso non può corrispondere una degenza inferiore ai 3 giorni.

bambini, Corpo-anima, cronaca, diritti, Donne e Uomini Agosto 17, 2015

Il bambino “dell’acido” e i figli dell’utero in affitto. Anche loro “strappati alla madre”. Ma qui, nessun problema

Sono madre, posso ben capire come si sente Martina Levato, disgraziata ragazza “dell’acido” a cui il piccolo è stato tolto subito dopo averlo partorito. Strazio che si aggiunge a quello di una vicenda assurda in cui stavano già soffrendo in tanti: il ragazzo sfregiato a vita, i due sfregiatori -in galera si sta male-, le loro famiglie. E anche, almeno momentaneamente, quel piccolo solo nella sua culletta alla Mangiagalli, privato del latte e del contatto con il corpo della madre, da cui si sente ancora indistinto.

La pm Annamaria Fiorillo ha chiesto che il bambino venga dichiarato “in stato di abbandono per totale e irreversibile incapacità e inadeguatezza del padre e della madre a svolgere funzioni genitoriali”, e forse già nelle prossime ore il Tribunale dei Minori deciderà, nell’esclusivo interesse del piccolo, se restituirlo alla madre perché lo cresca in un istituto a custodia attenuata, se affidarlo temporaneamente ai nonni, o a una famiglia estranea in attesa di adozione.

A quanto pare i giudici non potevano agire diversamente. E del resto, nel caso il neonato venga dichiarato adottabile, strapparlo a sua madre fra qualche giorno o fra qualche settimana sarebbe probabilmente ancora più doloroso, per il piccolo e anche per lei: e con buona pace dei molti forcaioli esultanti, massimizzare la sofferenza dei detenuti non è l’obiettivo della giustizia umana.

Ma sono alcuni commenti a lasciarmi sconcertata. Per esempio, Gianna Schelotto, Corriere di oggi: “I bambini durante la gravidanza assorbono tensioni, ansie, gioie. E Daniela Monti, sulla 27 ora: “a quel bambino abbiamo già tolto il diritto al primo sguardo materno, alla prima poppata, al primo rapporto esclusivo – visivo, gestuale, di nutrimento – con la madre su cui tanti studi insistono, rintracciando proprio in quei primi istanti amorevoli le basi per un corretto equilibrio psichico e relazionale“.

Mi domando se questo non valga anche per quei bambini nati da donne-contenitori, o uteri in affitto. Loro forse non assorbono dalla madre “tensioni, ansie, gioie”? Loro non sono forse privati di quel “diritto al primo sguardo materno, alla prima poppata, al primo rapporto esclusivo” e a tutto ciò che dovrebbe seguirne?

Perché, com’è giusto, ci preoccupiamo per questo bambino nato a Ferragosto da una madre detenuta per un reato odioso, e non diciamo mai una parola sulle centinaia o migliaia di bambini che ogni giorno vengono tolti alle povere donne che li hanno partoriti in forza di un contratto economico? Perché in questi casi non permettiamo al dubbio di assillarci? Perché lì non vediamo il legame che viene spezzato?

Forse perché le madri surrogate sono donne povere e invisibili? Forse perché quando si tratta di “libero” mercato il valore dei soldi e il diritto a procurarsi ogni genere di merce spazzano via tutti gli altri valori, e così sia?

*aggiornamento 18 agosto: il Tribunale dei Minori concede a Martina di vedere il bambino, ma non di allattarlo. Nel contempo avvia la procedura di adottabilità. Mi pare che si stia navigando a vista, come sempre quando la legge cerca di normare i fondamentali della vita.

 

 

bambini, Corpo-anima, diritti, Donne e Uomini Luglio 21, 2015

Una coppia gay, la loro bambina e la madre surrogata che non la vuole lasciare

Gordon, Manuel e la piccola Carmen

Gordon e Manuel sono una coppia gay. Hanno un bimbo di 23 mesi, Alvaro, nato con ovodonazione e maternità surrogata in India. E una piccola appena nata, Carmen, partorita da una donna thailandese. Carmen è biologicamente figlia di Gordon e di una donatrice sconosciuta. La donna che l’ha partorita non ha alcun legame  genetico con la bambina. Ma ora questa donna rifiuta di firmare le carte che permetterebbero alla famiglia di lasciare il Paese, e la coppia è bloccata a Bangkok, in una località sconosciuta, insieme ai due bambini. Il terrore è che le autorità thailandesi portino via loro la piccola.

La madre surrogata ha cambiato idea sul permesso di espatrio per la bambina quando ha scoperto che sarebbe stata figlia di due uomini. Ha detto che non lo sapeva, e che è molto preoccupata per lei.

Da febbraio in Thailandia la maternità surrogata non è più consentita in seguito ad alcuni casi drammatici (un businessman giapponese che si era procurato in questo modo 16 figli e un bambino down rifiutato dalla coppia che l’aveva “commissionato”). Non è chiaro, quindi, quale potrebbe essere l’esito della vicenda di Carmen: le autorità potrebbero acconsentire all’espatrio della bambina, decidere di affidarla alla madre surrogata o dichiararla adottabile.

Toccare i fondamentali della vita comporta spesso dilemmi irresolubili, se non con decisioni umanamente arbitrarie.

Carmen è figlia biologica di Gordon, ma la madre portatrice, a sorpresa, rivendica di voler prendere parte alle decisioni che la riguardano, manifestando l’instaurarsi di un legame con lei nel corso della gestazione. Con ogni probabilità è stata pagata per il suo “lavoro”, ma non le basta. Per la bambina che ha partorito “pretende” un padre e una madre. Ma in effetti, al netto delle sue legittime convinzioni etiche, non avrebbe alcun diritto di separare la bambina dal padre biologico.

Intanto c’è una bimba che sta vivendo le sue prime settimane in un clima drammatico, e un bimbo di 23 mesi insieme a lei.

A chiunque tocchi la parte di Salomone in questa piccola grande tragedia, si aggrappi a questa certezza: i bambini, prima di tutto. Tutti i diritti sono loro. I grandi che a vario titolo li hanno chiamati al mondo -con i loro gameti o con il proprio utero- se ne dovranno fare una ragione.

 

 

AMARE GLI ALTRI, diritti Luglio 8, 2015

L’eutanasia di Laura e la violenza del Pensiero Unico

E meno male, dico, che per un inconveniente tecnico il post su Laura, la ventiquattrenne belga che ha chiesto e ottenuto di morire con suicidio assistito, non ha potuto ricevere commenti. Ho avuto un fronte in meno su cui combattere. Per due giorni il bombardamento sui social network è stato feroce: sono stata accusata di ignorare la sofferenza della depressione, di sperare che la ragazza si togliesse la vita da sola e dolorosamente, di ergermi a giudice della sua scelta, di non farmi i fatti miei, di non essere politicamente corretta. Qualcuno (anzi, qualcuna) ha affermato che in una formazione progressista NON (ripeto: NON) ci dovrebbe essere libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili: insomma, quello che capita normalmente in un regime. Qualcun’altra ha ridacchiato compiaciuta (“eh eh eh”) di fronte al mio sgomento per questi attacchi, come se in tutta questa vicenda ci fosse qualcosa da ridere. Mi è stato detto di non piagnucolare e di non fare la vittima. Tanti si sono scandalizzati per la colorita espressione “merda” (e non per il fatto che una ragazza di 24 anni sta per essere accompagnata a morire da uno Stato): il mondo alla rovescia. Altri hanno inteso che io dessi della merda alla ragazza. E poi molti, davvero molti, hanno condiviso la mia pena e il mio senso di rivolta per questa vicenda.

Anche il tema dell’eutanasia per i malati psichici -questione universalmente dibattuta e controversa: chi soffre psichicamente è dotato della lucidità necessaria a decidere di essere accompagnato a morire?- per tanti non può essere nemmeno posto in discussione (e invece perfino Gramellini osa discuterne).

Mi spaventa molto il non poter dire quello di cui si è intimamente convinti secondo coscienza, anche correndo il rischio di sbagliare: questo rischio c’è sempre e bisogna correrlo sempre per amore del mondo. La muraglia del pensiero unico non è mai stata tanto alta e insormontabile.

Sotto sotto la questione è una sola: quella dei diritti individuali. “Ognuno sta solo sul cuor della terra”, con il suo bravo armamentario di diritti. L’un contro l’altro armato di diritti anche astrusi: ne inventiamo di nuovi ogni giorno. L’individuo e i suoi diritti come atomo irriducibile. Parlando con alcune amiche, ieri notavamo che perfino Judith Butler, madre dellle gender theory e dell’individuo-a che fa di se stesso-a ciò che vuole, costruendosi a prescindere dalla sua realtà biologica, a un certo punto si è arresa arrivando a dichiarare “il corpo è mio e non è mio”. Ma qui, come ho già scritto qualche giorno fa, non l’ha ascoltata più nessuno. Butler intendeva dire che quell’uno armato di diritti è solo un’astrazione. Che fin da quando veniamo al mondo siamo in due: è il due della relazione,  l’atomo irriducibile. Che qualunque cosa decidiamo di noi stessi riguarda sempre anche qualcun altro. E’ uno dei postulati fondamentali del femminismo, la centralità della relazione: questo almeno si può dire?

C’è poi uno svarione storico, sul quale è bene fare chiarezza: quella dell’individuo armato di diritti è un principio del liberalismo, non del pensiero “di sinistra”. La sinistra ha sempre cercato altre soluzioni. Oggi si tende invece a porre la lotta in difesa dei diritti dell’individuo al centro dell’appartenenza a sinistra, oltre a confondere laicità e laicismo (per quanto mi concerne, se interessa, io sono laica e non laicista).

Sarebbe bene pensarci un po’ su. Se è permesso.

Aggiornamento 13 luglio: qui un interessante punto di vista psichiatrico.

 

a tutti suggerisco la lettura di questa allarmante inchiesta del New Yorker sull’eutanasia in Belgio : se poi ci fosse un santo che ha voglia di tradurre per chi non sa l’inglese

AMARE GLI ALTRI, diritti, salute Luglio 6, 2015

Belgio: l’eutanasia di Laura, 24enne depressa

In Belgio una ragazza depressa di 24 anni ha chiesto e ottenuto di essere sottoposta a eutanasia –forse sarebbe più corretto parlare di suicidio assistito-, pratica che dovrebbe essere messa in atto entro l’estate. La legge belga, insieme a quella olandese, ammette l’eutanasia: ogni giorno vengono accompagnate alla morte 5 persone ammalate fisicamente o psichicamente, e le richieste sono in costante aumento, di quasi un terzo nell’ultimo anno. Cresce anche il numero di accessi consentiti a persone non terminali e senza patologie fisiche. Recentemente è stata sottoposta ad eutanasia una transessuale che non accettava l’esito degli interventi a cui si era sottoposta e si sentiva “un mostro”. In febbraio la possibilità di accedere a eutanasia è stata estesa ai bambini malati terminali.

Laura, chiamiamola così, non è una paziente terminale, né soffre di alcuna patologia fisica. Il suo problema è una forte depressione con pensieri suicidari. In un intervista al quotidiano De Morgen, Laura dice che “la vita non fa per me e racconta di essere stata ossessionata dal pensiero della morte fino dalla prima infanzia. Spiega di non essere stata desiderata dai genitori e di aver avuto un padre alcolista. Dice che i suoi nonni le hanno dato una famiglia stabile e affettuosa, ma questo non è bastato. Dice che è convinta che avrebbe avuto questo desiderio di morte anche se le cose con i suoi genitori fossero andate diversamente. “La morte” spiega “non la vedo come una scelta. Se avessi la possibilità di scegliere opterei per una vita decente, ma ci ho provato in tutti modi e senza successo. Ho commesso vari tentativi di suicidio, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di me e io non volevo fare del male a nessuno. E’ questo che mi ha fermato”.

In ospedale psichiatrico Laura ha conosciuto una ragazza che è stata sottoposta ad eutanasia per problemi simili ai suoi, e da allora ha cominciato a concepire questa soluzione. Il Daily Mail riferisce che uno dei maggiori sostenitori dell’eutanasia in Belgio, il dottor Wim Distelmans, è stato al centro di grandi polemiche e condanne per aver organizzato un simposio ad Auschwitz. Il medico ha spiegato che “Auschwitz è il luogo più adatto per organizzare un seminario e riflettere su queste pratiche”. Un report pubblicato dal Journal of Medical Ethics ha concluso che almeno un paziente su 60 sottoposti a eutanasia non l’ha mai richiesto: in particolare si tratta di anziani ottantenni e ultraottantenni ricoverati in ospedale senza patologie terminali, in stato di coma o affetti da demenza. I cosiddetti  lungodegenti, che costano molto alla sanità pubblica . Spesso la decisione viene assunta dai medici senza nemmeno consultare i familiari. L’autore del report, il Professor Raphael Cohen-Almagor della Hull University, dice che “la decisione su quale sia definibile vita e quale no non è nelle mani dei pazienti, ma in quelle dei medici. E’ una pratica che sta prendendo sempre più piede in Belgio”.

Il caso di Laura sta dividendo il Paese. Si tratta di un caso limite: una ragazza fisicamente sana, con una lunghissima aspettativa di vita, e una  ragionevole speranza di poterla cambiare (essere adeguatamente e amorosamente curata, magari aiutata a trasferirsi altrove, lontano dal teatro di una vita insopportabile, poter sperare in un amore, in una rete di relazioni affettive, in qualcosa di bello che può capitarti). Forse appena un barlume, che tuttavia resta acceso. E’, in quanto gravemente depressa, abbastanza lucida per chiedere la soluzione definitiva della morte? E’ abbastanza adulta da essere immune da comuni fantasie adolescenziali sulla morte?

I tentativi non riusciti di suicidio messi in atto da Laura lo dimostrano indirettamente: in genere i TS sono grida d’allarme, estreme richieste di attenzione. Chi vuole davvero morire, la gran parte di noi lo sa avendo avuto la dolorosa esperienza di amici o congiunti suicidi, sa farlo a colpo sicuro.

Certo: l’eutanasia di Laura costerebbe pochissimo al servizio sanitario nazionale belga, molto più che prendersi cura di lei. Ma costerebbe moltissimo all’identità di quel Paese.

L’augurio è che i cittadini belgi inorriditi da questa storia sappiano fare sentire alta la propria voce: Not in My Name.

Il tempo è davvero poco. Io non posso che ripetere qui quello che ho scritto ieri sui social network, dopo aver appreso della vicenda:  questa storia è merda.