Browsing Category

lavoro

bambini, Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Ottobre 2, 2014

Piano per la fertilità? No, serve un piano contro la cattiva politica

Spiacente, ma il nome non funziona. Perché non imposta correttamente il problema. C’è falsa coscienza. 

“Piano nazionale per la fertilità”, come l’ha chiamato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, annunciando un tavolo che studierà la nostra denatalità (1.23 figli per donna) e le misure per incrementare le nascite, ricorda troppo i “figli alla patria”, non pone al centro la libertà femminile, che è il principale fattore in gioco, e la politica che la ostacola.

Vero: alle ragazze e ai ragazzi va ricordato che la funzione riproduttiva è un meccanismo delicato e a tempo -non c’è fecondazione assistita che tenga – e che le infezioni a trasmissione sessuale possono compromettere la fecondità. Che ci sono comportamenti -come l’abuso di sostanze, dal tabacco alla marijuana, i disturbi dell’alimentazione e l’eccessiva sedentarietà- che diminuiscono le probabilità di concepire. Ma se poi la politica non mette fuori legge gli ftalati, componenti di oggetti in plastica, creme solari, saponi e dentifrici (le ricerche hanno ampiamente dimostrato che sono un vero killer per la fertilità maschile) c’è poco da dirgli di non farsi le canne.

Il principale fattore di rischio resta senz’altro l’età, giusto avvisare.

Da noi l’età media in cui una donna partorisce il primo figlio è 31.4 anni, quando la possibilità di concepire è già ridotta del 60-70 per cento (nella gran parte dei paesi europei le primipare hanno 27-29 anni). Ma se la politica non interviene contro inoccupazione, instabilità del lavoro, scarsa o nulla tutela della maternità per non occupate, lavoratrici autonome e precarie, dimissioni in bianco, carenza di welfare e servizi di cura, caro affitti e zero mutui; se la politica non promuove un cambiamento culturale, assumendo con determinazione l’evidenza che le donne fanno più figli quando lavorano e non quando stanno a casa come piacerebbe ancora a molti uomini, politici compresi, c’è poco da incoraggiare a fare i figli prima.

L’intervento sociale, quindi, è prioritario per una prevenzione dell’infertilità e sterilità. Lavoro per le donne e welfare = aumento del Pil e delle nascite. Le politiche francesi hanno quasi raddoppiato la natalità. Non impedendo più alle donne che lo desiderano -se lo desiderano- di mettere al mondo bambini.

E’ il libero desiderio delle donne a essere decisivo, e a non dover essere ostacolato dalla cattiva politica.

 

AGGIORNAMENTO sabato 4 ottobre: mi spiegate a che cosa serve studiare l’infertilità italiana, se poi si aumentano le rette degli asili nido?

 

italia, lavoro, Politica Settembre 30, 2014

#Jobsact: perché il lavoro sporco sul lavoro tocca al Pd?

Almeno 3 i topics della fluviale direzione Pd di ieri

• il segretario Matteo Renzi che nell’orazione d’apertura, dicendo “abbiamo sconfitto la politica” (anziché, come da copione, “l’antipolitica”) inciampa in un lapsus da ola. Forse il jet lag depotenzia le capacità di controllo del Super Io.

••  sempre il segretario Matteo Renzi, che in un passaggio dell’orazione finale ha affermato che “gli imprenditori sono lavoratori, come i lavoratori tradizionali”. Insomma: qua di padroni non ce ne sono più. Ci sono solo lavoratori fichi (gli imprenditori) e poi lavoratori d’antan, gente vecchia, muffosa e piena di pretese. Strano, perché io dal mio angolo visuale vedo quasi più padroni che lavoratori, e onestamente li vedo feroci come non mi è mai capitato di vederli prima, e con mani liberissime nella gestione dei traditional e pure dei new. Non mi pare pertanto una buona idea quella di liberargliele ulteriormente, consentendogli di licenziare (senza rischi di reintegra), di demansionare, di mobilizzare, di sfruttare, di terrorizzare, di sottopagare, di umiliare, di ledere la dignità, pratiche che già hanno corso e che, senza l’argine costituito da quel diritto già fortemente depotenziato a cui diamo il nome di art. 18, potranno dilagare fino alla semi-schiavitù. Credo peraltro non sembri una buona idea nemmeno alla grande parte degli elettori del Pd. Non è una buona idea che il lavoro sporco sul lavoro tocchi a quello che dovrebbe essere il partito dei lavoratori (perché se il Pd non è il partito dei lavoratori, allora che cos’è?) mentre la destra se ne esce tutto sommato pulita. Che poi l’idea piaccia all’80 per cento dei membri della direzione è un fatto del tutto occasionale, contingente, in discreta quota opportunistico, oltre che antistorico.

••• top of the topics, quell’impressionante passaggio dell’ordine del giorno conclusivo –stavolta tocca al responsabile economico e del lavoro Filippo Taddei- in cui si propone “una disciplina per i licenziamenti economici che SOSTITUISCA L’INCERTEZZA E LA DISCREZIONALITA’ DI UN PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro”. Ergo: se dico che ti licenzio adducendo ragioni economiche, inutile che vai dal giudice, a cui abbiamo tolto la possibilità di reintegrarti. Beccati un po’ di soldi, vai a casa e stai contento, perché pecunia semper certa est, iustitia numquam. Con quei giudici che ci ritroviamo, poi… Come mi scrive un’amica sbigottita, “la rivoluzione francese liquidata in un tweet”.

Non toccava al Pd, questa spallata a ciò che resta in piedi dei diritti dei lavoratori.

Giornata nerissima, quella di ieri.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica Settembre 25, 2014

Welfare non vuole dire “dare una mano alla mamma”

Il capitolo 5 della legge delega sul lavoro -lo leggete integralmente in coda al post- riguarda in particolare le donne. Si parla, correttamente, di indennità di maternità universale, di misure di incentivazione del lavoro femminile -come il tax credit-, di flessibilità d’orario e di telelavoro, di conciliazione e di congedi parentali anche per i padri.

Per esempio, al punto d: “incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro”.

L’adozione di misure di flessibilità worker-friendly in realtà non costuirebbe solo un vantaggio per i lavoratori e le lavoratrici: secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart Working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori (e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno).

Ma il punto è un altro: sembra resistere, in questa impostazione, l’idea di un welfare saldamente basato sulla famiglia -leggi: donna-  intesa come il principale erogatore di servizi -lavoro di cura- destinati ai suoi membri. Famiglia (donna) a cui lo Stato offre il suo supporto.

Una cosa un po’ anni Cinquanta.

Questo modello familista-mediterraneo, diffuso in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, Stati che delegano moltissimo alle donne, non fa crescere occupazione femminile né natalità (le due cose, come dovremmo ormai avere imparato, vanno di pari passo). Si crea cioè una paralisi di sistema. Sarebbe interessante ragionare su quanto questi modelli di welfare contribuiscono al rischio default in quei Paesi.

Si dovrebbe passare dall’impostazione familista (il più lo fa la donna, lo Stato dà una mano) a un modello di welfare inteso come servizi alla persona, sulla base delle sue effettive necessità. Non si tratta, cioè, di “dare una mano alla mamma” -che se possibile sta a casa a occuparsi di tutti-, si tratta di considerare le necessità di un cittadino-a contribuente (che ha fatto un bambino, o è invecchiato, o non è autosufficiente) e di corrispondervi, tenendo conto del suo reddito.

Questa impostazione, che richiede un vero e proprio salto culturale, è alla base del modello di welfare francese, definito dall’Ue come l’eccellenza a cui fare riferimento. Gli effetti sono virtuosi: liberazione di energie femminili, crescita di occupazione femminile e corrispettivamente di natalità, esternalizzazione e creazione di un indotto di servizi, che con l’uscita dal nero (il nostro sistema di colf-badantato, per chiamarlo così, è per almeno la metà sommerso) comporterebbe anche un maggiore introito fiscale per lo Stato, e via dicendo.

Se si deve riformare, proviamo a farlo davvero, “cambiando verso” innanzitutto nelle nostre teste.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

Art. 5.

(Delega al Governo in materia di maternità e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro)

1. Allo scopo di garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

2. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici;

b) garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;

c) introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;

d) incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro;

e) favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi;

f) ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;

g) estensione dei principi di cui al presente comma, in quanto compatibili e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento al riconoscimento della possibilità di fruizione dei congedi parentali in modo frazionato e alle misure organizzative finalizzate al rafforzamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica, questione maschile, Senza categoria Settembre 22, 2014

#Jobsact: c’è troppo poco sul lavoro femminile

Da anni ci viene raccontato -da Bankitalia, dall’Ocse, non da femministe “interessate”- che un aumento dell’occupazione femminile in Italia in direzione di quell’obiettivo di Lisbona indicato nel 60 per cento, avrebbe effetti virtuosi, anzi virtuosissimi, non solo sulla vita delle donne nel nostro Paese, ma anche sul Pil, sulla natalità (siamo la nazione meno prolifica nonché la più anziana d’Europa, e tanti di quei pochi che nascono a 18 anni ci salutano) e via dicendo.

Lo abbiamo letto in molti editoriali firmati prevalentemente da editorialisti uomini (gli editorialisti restano quasi esclusivamente uomini): più donne al lavoro farebbero + 7 punti di Pil secondo Bankitalia, una dozzina in più secondo l’Ocse. Generebbero un indotto occupazionale, “esternalizzando” servizi di cura oggi delegati quasi esclusivamente a loro, 3 miliardi di ore lavoro annue gratuite:  secondo l’Ue la riorganizzazione e la valorizzazione del settore dei servizi alla persona potrebbero creare 7 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro. Una ristrutturazione del welfare sul modello francese, che l’Europa indica come l’eccellenza assoluta, trasformerebbe il settore dei servizi da costo per lo Stato in Pil aggiuntivo. La natalità aumenterebbe: contrariamente a quanto ci si ostina a credere, più le donne lavorano fuori casa, più figli fanno. Inoltre una massiccia femminilizzazione potrebbe innovare profondamente l’organizzazione del lavoro: le donne sono le più interessate a una flessibilità worker-friendly: part time, telelavoro, tempi elastici, coworking e così via. Secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori, e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno. Altro effetto virtuoso.

Tutte ottime ragioni per posizionare l’occupazione femminile al centro di una efficace riforma del lavoro nel nostro Paese. Vedremo i dettagli del jobsact, ma non mi pare che questo stia capitando -tolto il giustissimo intento di estendere l’indennità e le tutele alla maternità oltre il “recinto” delle garantite, e qualche forma di incentivazione per le imprese che assumono donne-.

I famosi Pigs, dove la crisi morde di più, sono proprio quelli in cui gli stati delegano moltissimo alle donne, intese come welfare vivente. In quei Paesi, Italia compresa, l’occupazione femminile non cresce e la natalità nemmeno, si crea cioè una paralisi di sistema. Si dovrebbe ragionare su quanto questi modelli di non-welfare e non-occupazione femminile contribuiscono al rischio default.

Resiste invece un’idea del lavoro femminile come un di più, un lusso a cui dover rinunciare nei momenti di vacche magre.

Ma pensare ai lavoratori come lavoratrici sarebbe il cambiamento più formidabile.

economics, esperienze, italia, lavoro, Politica Settembre 16, 2014

Tutti vogliono “il nero”

“Le serve fattura?”: la domanda ormai è di prammatica. Idraulici, falegnami, avvocati e bar che non ti danno scontrini. La cosa è fatta con la disinvoltura della normalità: se proprio proprio me la chiedi… Alla terza volta che vai da un parrucchiere magicamente lo scontrino sparisce. Lavoro? possiamo metterci d’accordo? “La mia commercialista” mi spiega una “mi dice che a questo punto è meglio non denunciare nulla” (si farà pagare per il consiglio? ed emetterà regolare fattura?).

“Nero” inteso non solo in senso strettamente fiscale, non solo come lavoro nero, ma come condizione esistenziale. Vivere in nero, tenersi fuori, lontani da uno Stato nemico da cui ci si può solo difendere, arraffando gli 80 euro e tutto ciò che può essere arraffato, cercando -chi può- di “stare liquidi”, piccola rivolta individualista senza rimettere in circolo nulla, senza scommettere su nulla, con la stessa lungimiranza di chi in tempo di guerra faceva la cambusa, cumulando zucchero e, potendo, caffé.

“Il Paese non è ripartito” ha ammesso qualche giorno fa il premier Renzi. I numeri Ocse della decrescita infelice confermano. Nessuna tensione, nessuna aspettativa, nessuna intenzione di ricostruire: una tartaruga che si ritira nel guscio, con un movimento regressivo.

Altro che autunno caldo. Un autunno freddo, raggelante, esangue. Il momento più difficile, mi pare, di questa lunghissima crisi. “Ogni idea di sollecitazione alla ripresa” scrive Giuseppe De Rita sul Corriere di oggi “viene accolta con indifferenza”. Un individualismo del tirare a campare, vai avanti tu che a me scappa da ridere.

Molto difficile capire che cosa potrebbe mobilitare le energie. E quale potrebbe essere l’obiettivo capace di avviare una rigenerazione collettiva.

Aggiornamento mercoledì 15 ottobre ore 19.15: più o meno intendevo dire questo:

DATI ISTAT. FARA, PRESIDENTE EURISPES: PEZZI ECONOMIA REAGISCONO A CRISI “IMMERGENDOSI”

“I dati Istat diffusi oggi fotografano una situazione di grande crisi e di profondo disagio delle famiglie italiane – lo dichiara il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara – L’Italia è in stagnazione e il Pil non aumenta da ormai tre anni, ovvero dal secondo trimestre del 2011. Tuttavia, i dati, di per sé oggettivi, non rappresentano la vera realtà del Paese, fatta purtroppo anche di fenomeni che non si prestano, perché nascosti, alla contabilizzazione. Secondo l’Eurispes, infatti, pezzi sempre più consistenti dell’economia hanno reagito alla crisi e alle difficoltà “immergendosi” e alimentando quel sommerso che l’Istituto valuta in circa 540 miliardi l’anno, ovvero una cifra corrispondente al 35% del Pil. Si tratta di una “immersione da sopravvivenza” – conclude Fara – dell’apnea, di una “economia anfibia”, che potrà essere recuperata solo attraverso chiari segnali sul fronte della riduzione della pressione fiscale e di profondo cambiamento delle politiche del lavoro”.

 

economics, lavoro, Politica Luglio 25, 2014

Alta velocità per il Senato, treni a vapore per l’economia

Io sono una, come tante e tanti, che sta aspettando di vedere:

1. se suo figlio riuscirà a trovare lavoro

2. che cosa ne sarà del suo proprio lavoro

3. che cosa ne sarà del lavoro di suo marito

4. come si evolveranno le situazioni economiche difficoltose di molti parenti e amici

Niente di eccezionale, beninteso. Sto raccontando una situazione assolutamente normale, anzi meglio del normale, e al momento non drammatica. Navighiamo tutti quanti a vista, correggendo la rotta ogni mezza giornata, impossibilitati alla lunga e alla media scadenza. E poi apprendi che il nostro Pil non crescerà nemmeno di quello striminzito 0.8 per cento previsto dal Def, che se nel 2014 registreremo un +0.3 sarà tanto, che in Europa cresciamo meno di tutti, che gli 80 euro in busta paga non hanno affatto dato una sferzata ai consumi ma sono serviti giusto a tappare un po’ di debiti personali o sono stati infilati nel salvadanaio perché non si sa mai.

E finché non c’è la guerra, come dice mia mamma, va tutto bene. Guardi gli orrori di Gaza, e capisci la fortuna che hai avuto a nascere 1500 km più a nord.

Questo mi consente, nonostante il mio engagement politico, di non sconnettermi dalla realtà-reale, e di sentirmi ben rappresentata da chi, come Piero Ignazi ieri su La Repubblica, osserva che “in assenza di indicatori positivi, di fatti reali… il governo indirizza la sua energia su altri fronti per evitare che l’insoddisfazione si impenni“. E ancora: “l’enfasi che il governo pone sulle riforme istituzionali è inversamente proporzionale sia all’interesse dell’opinione pubblica che agli effetti immediati sulla vita delle istituzioni e dei privati cittadini”.

La giornata campale di ieri, con la rivolta delle opposizioni alla “tagliola” imposta sul dibattito per la riforma del Senato, dice almeno un paio di cose:

1. che i tempi delle riforme costituzionali non possono essere dettati dall’urgenza di dimostrare che il governo “fa” anche se il Pil non si muove. Una riforma costituzionale non è un decreto omnibus né un treno ad alta velocità. La Carta va maneggiata con cautela, con tutto il tempo necessario a costruire il consenso più ampio. La riforma del bicameralismo perfetto piace a tutti, ma non ha affatto quelle caratteristiche di urgenza che le si vogliono attribuire. Quanto poi all’Italicum, perfino il renziano Giachetti conviene che, nel caso, si può anche tornare al voto con il Mattarellum

2. che le urgenze sono ben altre: la crescita, quella vera; i provvedimenti economici, quelli veri; la riforma del welfare: secondo l’Ue il settore dei servizi ha un potenziale di 7 milioni e mezzo di posti di lavoro, in Italia ancora tutto da esplorare; un piano per il risanamento del territorio: anche qui, un grande potenziale occupazionale. Ma mentre sulle riforme costituzionali si accelera, qui si decelera insensatamente, invertendo le priorità

3. che la stragrande maggioranza della popolazione guarda con speranza al punto 2, e comincia a mostrare insofferenza per il punto 1, e anche se la riforma del Senato si realizzasse entro l’8 agosto, se questa virile prova di forza andasse a buon fine, Matteo Renzi ne esagera il potenziale salvifico per il suo governo.

Si tratta di scambiare i binari: corriamo sulle riforme strutturali, rallentiamo su quelle istituzionali.

bambini, Donne e Uomini, italia, lavoro Maggio 5, 2014

Il Paese più vecchio del mondo (+precari = -bambini)

In mezzo ai tanti commenti su Genny ‘a Carogna e la débâcle dello stato democratico a cui abbiamo assistito sabato all’Olimpico, leggo sul Corriere, a firma Margherita De Bac, un’altra notizia molto sconfortante sul nostro Paese : i nostri tassi di natalità, già tra i più bassi del mondo, si stanno ulteriormente  riducendo a causa della grande crisi: -7.4 per cento tra il 2008 e il 2012, a cui si aggiungerebbe, secondo i primi dati provvisori, un altro calo pari al -4.3 nel 2013.

In parole povere, una catastrofe demografica. Siamo già il Paese più vecchio d’Europa, diventeremo un Paese vecchissimo. A ciò si aggiunga l’anzianità delle primipare italiane- record europeo pure questo: 4 su 10 mettono al mondo il primo figlio dopo i 35, con il bio-orologio già in fase di declino.

La natalità italiana tendente a zero va posta in correlazione diretta con la scarsa occupazione femminile –ancora non si è capito, o si finge di non capire, che le donne fanno tanti più figli quanto più lavorano- oltre che con la mancanza di servizi alle famiglie.

Osserva la sociologa Chiara Saraceno che “anche il tipo di contratto di lavoro conta ai fini delle scelte di fecondità… Nel 2013 aveva già un figlio il 34.1 per cento delle donne con un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23.8 per cento di chi ne aveva uno a tempo determinato”.

Il precariato, correlato a una bassa protezione sociale, aumenta la denatalità. Se a questo si aggiungono i servizi che mancano, i conti sono presto fatti.

Non la metterei sul piano dei numeri, delle statistiche e della demografia. Preferisco dirla così: tra i compiti del governo di un Paese c’è anche quello di non impedire alle cittadine quel “doppio sì” (sì al lavoro, sì alla maternità) che per moltissime –la gran parte?- qualifica il senso dell’essere donna. Direi di più: mettere al centro delle politiche questo “doppio sì” farebbe il bene di tutti.

Purtroppo la mancanza di misure davvero efficaci a favore dell’occupazione femminile, il consolidamento del precariato e l’assenza di vere politiche sulla famiglia vanno in tutt’altra direzione.

 

lavoro, Politica, Senza categoria Marzo 26, 2014

No del M5S alla legge anti-dimissioni in bianco. Nessuno capisce perché

La principale preoccupazione del M5S -lo chiedo, perché non lo capisco- è fare buone leggi a favore delle cittadine e dei cittadini, migliorando la loro vita? o invece contrapporsi per principio a ogni proposta venga dal centrosinistra, inteso come il principale competitor politico? e specialmente ora, in vista delle elezioni europee?

Perché solo in questa seconda ipotesi si riesce a comprendere il voto contrario del M5S alla proposta di legge contro le dimissioni in bianco passata -per fortuna- ieri alla Camera: 300 sì (Pd, FI e Sel), 101 no (Ncd, M5S e Scelta Civica) e 21 astenuti (Lega).

Secondo gli ultimi dati disponibili, solo tra il 2009 e il 2010 37 mila donne sono state costrette a lasciare il loro posto di lavoro per aver deciso di diventare madri. Ma il problema riguarda anche gli uomini in caso di infortuni o malattia o più semplicemente per attività sindacale.

Il datore di lavoro costringe ricattatoriamente le-i dipendenti a firmare una lettera di dimissioni in bianco al momento dell’assunzione, da utilizzarsi al momento opportuno. Il fenomeno rappresenta oltre il 10 per cento di tutte le controversie di lavoro dei patronati Acli e il 5 per cento di quelle degli uffici vertenze della CISL.

Nel 2007 la legge 188 aveva imposto che le dimissioni fossero presentate su moduli identificati da codici numerici progressivi e validi non oltre quindici giorni dalla data emissione, per evitare la data « in bianco ». La legge fu abrogata pochi mesi dopo dal governo Berlusconi. Nel 2012 l’appello «188 donne per la legge 188» (fra cui io) riaccendeva l’attenzione sulla pratica delle dimissioni in bianco, con successivo intervento della ministra Fornero che introduceva un meccanismo complicatissimo e, come si è visto, insoddisfacente e sostanzialmente inefficace.

Secondo la proposta approvata ieri alla Camera (ora dovrà passare al Senato) la lettera di dimissioni volontarie deve essere sottoscritta dal lavoratore, pena la nullità, su appositi moduli disponibili presso le direzioni territoriali del lavoro, gli uffici comunali e i centri per l’impiego. Sarà possibile scaricare i moduli -sempre numerati e identificabili, dal sito web del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, o reperirli presso le sedi dei sindacati.

La nuova normativa si riferisce a qualsiasi contratto: dai rapporti di lavoro subordinato a quelli di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, ai contratti di collaborazione di natura occasionale, alle associazioni in partecipazione, ed al contratto di lavoro instaurato dalle cooperative con i propri soci.

Non è escluso che si potesse fare di meglio, ma la proposta di legge -che potete leggere in coda al post- costituisce certamente un passo avanti.

Speciose, a mio parere, e incomprensibili anche agli iscritti e agli elettori le obiezioni del M5S, che ha parlato di “un’altra bugia di Renzi” e, come dicevamo, ha votato contro.

Potrebbe trattarsi dell’ennesimo autogoal.

 

PROPOSTA DI LEGGE

ART. 1.

1. Fatto salvo quanto stabilito dall’articolo

2118 del codice civile, la lettera di

dimissioni volontarie, volta a dichiarare

l’intenzione di recedere dal contratto di

lavoro, è presentata dalla lavoratrice, dal

lavoratore, nonché dal prestatore d’opera

e dalla prestatrice d’opera, pena la sua

nullità, su appositi moduli predisposti e

resi disponibili gratuitamente, oltre che

con le modalità di cui al comma 5, dalle

direzioni provinciali del lavoro e dagli

uffici comunali, nonché dai centri per

l’impiego.

2. Per contratto di lavoro, ai fini del

comma 1, si intendono tutti i contratti

inerenti ai rapporti di lavoro subordinato

di cui all’articolo 2094 del codice civile,

indipendentemente dalle caratteristiche e

dalla durata, nonché i contratti di collaborazione

coordinata e continuativa,

anche a progetto, i contratti di collaborazione

di natura occasionale, i contratti

di associazione in partecipazione di cui

all’articolo 2549 del codice civile per cui

l’associato fornisca prestazioni lavorative

e in cui i redditi derivanti dalla partecipazione

agli utili siano qualificati come

redditi di lavoro autonomo, nonché i

contratti di lavoro instaurati dalle cooperative

con i propri soci.

3. I moduli di cui al comma 1, realizzati

secondo direttive definite con decreto

del Ministro del lavoro e delle

politiche sociali, di concerto con il Ministro

per la pubblica amministrazione e

la semplificazione, da emanare entro tre

mesi dalla data di entrata in vigore della

presente legge, riportano un codice alfanumerico

progressivo di identificazione,

la data di emissione, nonché spazi, da

compilare a cura del firmatario, destinati

all’identificazione della lavoratrice o del

lavoratore, ovvero del prestatore d’opera

Atti Parlamentari — 5 — Camera dei Deputati — 254

XVII LEGISLATURA — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI — DOCUMENTI

o della prestatrice d’opera, del datore di

lavoro, della tipologia di contratto da cui

si intende recedere, della data della sua

stipulazione e di ogni altro elemento

utile. I moduli hanno validità di quindici

giorni dalla data di emissione.

4. Con il decreto di cui al comma 3

sono altresì definite le modalità per evitare

eventuali contraffazioni o falsificazioni.

5. I moduli di cui al presente articolo

sono resi disponibili anche attraverso il

sito internet del Ministero del lavoro e

delle politiche sociali, secondo modalità

definite con il decreto di cui al comma 3,

che garantiscano al contempo la certezza

dell’identità del richiedente, la riservatezza

dei dati personali nonché l’individuazione

della data di rilascio, ai fini della verifica

del rispetto del termine di validità di cui

al secondo periodo del comma 3.

6. Con apposite convenzioni a titolo

gratuito stipulate nelle forme definite con

decreto del Ministro del lavoro e delle

politiche sociali, da emanare entro sei

mesi dalla data di entrata in vigore della

presente legge, sono disciplinate le modalità

attraverso le quali è reso possibile alla

lavoratrice, al lavoratore, nonché al prestatore

d’opera e alla prestatrice d’opera,

acquisire gratuitamente i moduli di cui al

presente articolo, anche tramite le organizzazioni

sindacali dei lavoratori e i patronati.

7. Il comma 4 dell’articolo 55 del testo

unico di cui al decreto legislativo 26 marzo

2001, n. 151, e successive modificazioni, e

i commi da 17 a 23 dell’articolo 4 della

legge 28 giugno 2012, n. 92, sono abrogati.

8. All’attuazione della presente legge si

provvede nell’ambito delle risorse finanziarie

già previste a legislazione vigente e

comunque senza nuovi o maggiori oneri

per il bilancio dello Stato.

 

 

economics, italia, lavoro Marzo 24, 2014

Start up innovative: finalmente una buona notizia

Qualcosa si muove sul fronte “start up innovative”: ce lo spiega Rita Castellani di Newnomics

Grazie ad un provvedimento del Governo Monti (l.221/2012), integrato da uno successivo del Governo Letta (d.l. 76/2013), che ha definito per la prima volta nell’ordinamento giuridico il concetto di “start up innovativa” e introdotto un regime fiscale di favore, come esistente in numerosi paesi europei, qualcosa si sta muovendo.

La normativa, entrata in vigore lo scorso ottobre dopo le verifiche europee di conformità, comincia a dare i suoi frutti. Nell’apposito Registro speciale creato un anno fa presso le Camere di Commercio sono già 1800 le nuove iscrizioni. E grazie ad uno speciale visto per l’ingresso di investitori stranieri (start up visa), che prevede una procedura particolarmente veloce, che sarà operativo a breve, ci si aspetta anche l’ingresso di capitali dall’estero: per investire greenfield, cioè su nuove attività, e questa sarebbe davvero una bella novità.

Il regime fiscale è particolarmente favorevole, in particolare per l’assunzione di alte professionalità e per la remunerazione di dipendenti e fornitori di servizi con stock options (credito d’imposta del 35 per cento). E la Regione Campania sta pensando anche ad una integrazione con la sospensione dell’Irap.

Non sono previsti, invece, contratti di lavoro “punitivi”. Perché gli imprenditori che mirano ad alta produttività sanno bene che non si concilia con condizioni di lavoro mortificanti.

Speriamo che questo supporto alla creazione d’impresa non venga meno nel prossimo Dpef e che, anzi, venga potenziato. Perché questa è davvero una misura che può cambiare il passo del paese, invertendo il flusso in uscita di giovani competenze che ne sta rapidamente impoverendo la linfa vitale.

economics, lavoro, Politica, WOMENOMICS Marzo 22, 2014

Il Popolo e gli Dei: come si riparte dopo la Grande Crisi

Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani”.

Secco e apocalittico, il titolo del nuovo saggio (Laterza) di Giuseppe De Rita, presidente del Censis, acuto e appassionato osservatore delle trasformazioni della società italiana, e Antonio Galdo, giornalista, scrittore e direttore del sito web Nonsprecare.it, sembra ipostatizzare una lontananza irriducibile tra i gironi infernali dei sudditi e un’élite quasi divina, le cui ragioni coincidono in larga parte con le cieche leggi dei mercati finanziari.

In realtà la riflessione non si ferma alla diagnosi –perché “resistere non basta, e certamente non rende felici”-, ma sulla scorta di un cauto ottimismo va in cerca di quegli indizi, di quei desideri e di quei flebili segnali che indicano uno sviluppo possibile e delineano i contorni di “un nuovo sogno collettivo”. Anche in politica.

Cominciamo proprio di qui: se è vero che la “plutonomia” e gli algoritmi della finanza possono più dei parlamenti e dei governi nazionali, se J.P. Morgan, come gli autori raccontano, vede le Costituzioni democratiche come un ostacolo da rimuovere, vale ancora la pena di battersi per una buona politica?

L’antipolitica non ha ragione?

De Rita Più che buona politica serve politica. Punto. Una politica che sappia interpretare la società con i suoi bisogni e con le sue aspettative. Fatta di autorevolezza, competenza, professionalità, di regole e trasparenza nell’uso delle risorse.

Galdo Di fronte ai politici che fanno la fila per una comparsata in tv, mi domando: ma dove trovano il tempo per pensare, per capire quello che devono fare e per dare una risposta ai loro elettori?

 

Ma come si fa a riprendersi quella sovranità usurpata dal mercato finanziario?

D.R. Il potere cieco dei mercati ha creato più ingiustizie, separando il popolo e gli dei. Gli italiani in particolare sono vittime di un furto di sovranità. E questo genera invidia, rabbia sociale, malcontento: una miscela esplosiva per il Paese.

G. Servirà tempo per tornare a essere cittadini e non più sudditi, ma è una scommessa appassionante, specie per le nuove generazioni. Tocca ai giovani produrre una scossa. E per farlo qualcuno dovrà stare in campo, e non solo alla finestra o all’estero per fuggire dall’Italia senza futuro. Il destino di questi ragazzi è veramente singolare: hanno lasciato l’Italia in massa, spesso seguendo i consigli dei loro genitori che prima hanno impoverito il Paese e poi hanno suggerito ai figli di andarsene, mentre loro ci continuano a viverci bene.

 

Perché la conflittualità sociale non sa più esprimersi nelle forme che abbiamo conosciuto?

D.R. Abbiamo ridotto i partiti a tribù ad personam, senz’anima, senza identità, senza energia vitale. La rappresentanza sociale, dal sindacato alle associazioni degli industriali, si è staccata dalla realtà, magari per rincorrere qualche ambizione di carriera politica. Tornare sulle cose, sui problemi e sui luoghi del vissuto quotidiano è il primo modo per ricostruire le connessioni tra il popolo e gli dei, tra la società e la sua classe dirigente.

G. Lo sforzo collettivo per superare la Grande Crisi può favorire la riconciliazione tra gli italiani e le classi dirigenti. Siamo entrati in una fase nuova, molto interessante. C’è un ricambio generazionale, con la spericolata vittoria di Matteo Renzi. Le incognite sono tante, ma una cosa è certa: nulla sarà più come prima. E anche Renzi, insieme al suo futuro rivale del centro-destra, magari un suo coetaneo, capirà quello che diceva Aristotele: “Non c’è nuovo senza vecchio e non c’è vecchio senza nuovo”.

 

Solo il 41 per cento degli italiani crede che l’UE sia un bene: come convincere gli elettori a partecipare al prossimo voto europeo? Esistono le condizioni perché l’Europa cambi rotta sulle politiche di austerità?

D.R. Io credo nell’Europa dagli anni Cinquanta, e non sono mai stato un euroscettico. Oggi serve realismo e non utopia a buon mercato, che genererebbe solo ulteriore frustrazione. Agli elettori proverei semplicemente a dire la verità: abbiamo fatto molti errori nel processo di costruzione dell’Unione. Partiamo dai problemi che sono sul tavolo, dall’unione bancaria al coordinamento delle politiche economiche, e fissiamo traguardi possibili. Poi potremo parlare di piena integrazione e di Stati Uniti d’Europa.

G. Viva l’Europa possibile, con aspettative ragionevoli e con la necessità di un grande sforzo politico per l’Italia: essere un Paese credibile per costruire le alleanze necessarie e contenere l’egemonia tedesca. L’Europa che serve è quella che ridimensiona i dogmi dell’austerità e attiva le leve per lo sviluppo e la crescita economica.

 

Ritiene auspicabile e praticabile l’istituzione di un reddito di cittadinanza o di esistenza?

D.R. Se ne parla da troppo tempo per poterla considerarla una proposta praticabile. Mi sembra più uno slogan da campagna elettorale.

G. La modernizzazione dell’Italia passa anche per un welfare più equilibrato, dove sia cancellato il principio del “tutto a tutti” e dove le risorse siano destinate agli esclusi e non solo agli inclusi.

 

Nel saggio si sottolineano la vitalità della piccola media impresa, il ruolo preziosissimo della famiglia, il forte legame con il territorio: ma con l’abolizione delle province, l’indebolimento delle regioni, il depauperamento dei comuni la politica sembra andare in direzione di un neo-centralismo.

D.R. Il federalismo finora è stato un fallimento, con un aumento delle tasse e della corruzione e una caduta della qualità dei servizi. Ma si deve evitare l’errore di desertificare il territorio, con l’idea che l’Italia possa essere un paese governato solo da Roma.

G. Quanto alla famiglia, è in corso una vera rivoluzione negli stili di vita, a guida femminile. Vero che la crisi spinge a ridurre i consumi, ma anche che 3 famiglie italiane su 4 hanno ridotto gli sprechi nella spesa, dall’alimentare all’abbigliamento. Tutto sta cambiando velocemente: pensiamo alla nuova mobilità, e alla consapevolezza che la riqualificazione del territorio e del patrimonio culturale possono generare lavoro, benessere e nuovo sviluppo.

 

Quali sono le riforme che vanno messe prioritariamente in campo e che rimetterebbero subito in circolo fiducia, con effetti virtuosi?

 D.R. Sono molto perplesso di fronte al coro “servono le riforme”:  sempre le stesse parole, spesso prive di reali contenuti. Quali riforme? Se pensiamo a scuola e università, per esempio, ne abbiamo fatte anche troppe. Semmai servono semplificazione, una buona manutenzione della macchina pubblica, il ridimensionamento della burocrazia. Un lavoro quotidiano, anche minuto, ma faticoso e costante.

G. Apriamo le porte dei ministeri a una nuova generazione di dirigenti, capaci e con una sana ambizione di vita pubblica. Facciamolo subito, con un pacchetto di assunzioni trasparenti e veloci. In Italia la burocrazia è in mano a un gruppo di persone che blinda i ministeri, dove nessuno decide e nessuno agisce. Salvo il burocrate che vuole tagliare la gambe a qualcuno o aiutare l’amico.

 

Le donne sono uno tra i principali soggetti della ripresa possibile: 10 mila nuove imprese a guida femminile in un anno. Che cosa si può fare per sostenere questo desiderio e questo slancio?

 D.R. La nuova imprenditoria femminile è uno dei segnali più promettenti, parte di un nuovo ciclo di sviluppo che va sostenuto, per esempio con incentivi e finanziamenti per chi guarda ai mercati internazionali. I settori più vitali della nuova imprenditoria femminile vanno dal turismo di qualità all’enogastronomia, dall’industria del benessere all’agricoltura biologica, e poi l’artigianato, dal tradizionale al digitale: ambiti per i quali c’è domanda, in Italia e all’estero, e che creano lavoro. Le donne dimostrano di avere lo sguardo giusto.

G.  Le donne marcheranno il cambiamento dell’Italia, e non solo in economia. Anche questo è un segnale di cauto ma significativo ottimismo. In America sono ormai molte le donne ai livelli più alti: Mary T. Barra, ceo di Gm, Janet Yellen, numero uno della Federal Reserve. E forse, tra non molto, la signora Hillary Clinton alla Casa Bianca. Un vento che non può non spirare anche in Italia.

 

Infine, la formazione: quali canali si potrebbero attivare tra le nostre eccellenze e i giovani, per un passaggio efficace di esperienza e competenza?

 G. Basterebbe copiare un sistema che funziona, come quello tedesco: in Germania il tasso di disoccupazione è al 7 per cento contro il nostro 40. La metà dei ragazzi frequenta un corso di formazione professionale, e in maggioranza trovano un lavoro nel giro di 3 mesi. Ben altra cosa rispetto agli sprechi e all’inefficienza della formazione nelle nostre regioni.