Il sapere delle donne sulla violenza maschile può essere d’aiuto nell’elaborazione di un pensiero sulla violenza del terrorismo jihadista? Mi affido all’esperienza trentennale di Marisa Guarneri, presidente onorario della Casa delle donne maltrattate di Milano. Le parlo dell’emozione, della sensazione di impotenza che mi travolgono quando leggo delle donne cristiane e yazide vendute al mercato di Mosul, ammazzate a centinaia perché non vogliono fare da schiave sessuali ai guerrieri di Isis, delle bambine-bomba, delle migliaia di donne e uomini sterminati da Boko Haram. Emozione che chiede con urgenza di trasformarsi in un pensiero e in una pratica politica. Lei mi dice che l’emozione intuisce in un istante quello che c’è da sapere: “Lì dentro c’è già tutto. Poi devi tirare il filo, dipanare, capire, trovare la strada, le possibili soluzioni”.
Può servire quello che abbiamo pensato sulla violenza maschile e sul femminicidio?
“Parliamo della sottomissione: una costante nelle relazioni violente. Ed è sempre il risultato di un processo. Arrivi gradualmente a sottometterti, un passo alla volta. Lui comincia con il chiederti di non lavorare, e tu rinunci. Poi si lamenta perché vai troppo spesso a trovare tua madre, e tu riduci le visite. Non gli piacciono le tue amiche, ti chiede di non vederle più, e tu tagli i ponti. Comincia a controllarti gli orari, le espressioni del viso. Via via ti pieghi. Restringi i tuoi spazi vitali. Aderisci completamente alla sua volontà. Pensi che sia una buona strategia per tenere calmo il tuo oppressore, per evitare che la violenza esploda. E invece non lo è, perché lui non si accontenta mai. La violenza esploderà perché la minestra è salata, o perché non si trova il telecomando. Lui ha necessità di essere violento perché questa violenza ce l’ha dentro e chiede di uscire. Qualunque occasione sarà buona”.
Parliamo di quelle donne, adesso.
“Ricordi “Leggere Lolita a Teheran”? Lì si vedono bene i passaggi verso la sottomissione, un po’ alla volta, fino all’oppressione totale imposta dal regime teocratico. Le ragazze che si incontrano clandestinamente con la professoressa per poter parlare di letteratura: lì con lei si possono liberare del velo, tornare soggetti. E’ lo stesso processo che descrivevamo prima: il progressivo cedimento al dominio maschile. Fino al completo isolamento, che è una tappa decisiva in queste situazioni. C’è anche il controllo totale del corpo, che non è più libero di esprimersi, di muoversi liberamente nel suo spazio vitale. Ricordo il caso di una donna che viveva con le telecamere piazzate in ogni stanza della casa: lui voleva sorvegliare ogni movimento, ogni pensiero. C’è qualche differenza con quelle donne costrette a soffocare sotto i burqa o i niqab, corpi nascosti e pensieri silenziati? Quelle donne, le iraniane, le afghane, vivevano come noi, vestivano come noi. Un passo dopo l’altro hanno ceduto alla violenza. La partenza è il foulard obbligatorio, l’arrivo sono gli stupri e le uccisioni”.
Perché se lo sono lasciato fare?
“In seguito alla sottomissione e all’isolamento subentrano tensione e paura. Non sai mai quando e perché si scatenerà la violenza. Vivi in uno stato di attesa ansiosa, dominata dal terrore. Nella nostra Casa ho visto donne ospiti saltare sulla sedia appena sentivano sbattere una porta. Ci si chiede perché le donne maltrattate non se ne vadano: perché il terrore le paralizza, le energie sono bloccate dall’ansia, la forza che servirebbe per difendersi è perduta. Il terrorismo è una moltiplicazione esponenziale di questo terrore. Quando ci furono gli stupri etnici in Bosnia gli effetti simbolici furono devastanti anche per il nostro lavoro. Lì era saltato ogni limite, il tuo buon vicino di casa era diventato il tuo stupratore. Il concetto di inviolabilità del corpo, centrale per le nostre pratiche, non aveva più alcuna efficacia. Quello che capitava lì ci faceva tornare indietro, toglieva forza anche a noi. La parola d’ordine dell’inviolabilità del corpo femminile non teneva più. Quando in una coppia saltano i limiti, quando dalla violenza psicologica si passa a quella verbale e poi quella fisica, noi parliamo di superamento della soglia: oltre quella soglia può capitare di tutto, la donna corre il massimo pericolo e va allontanata. Ecco, quello che stiamo vedendo ora, le donne uccise perché non vogliono fare da schiave sessuali, le bambine-bomba in quell’età cruciale di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, indicano precisamente questo: il superamento della soglia. D’ora in avanti non ci saranno più limiti, può capitare di tutto. La logica violenta dei terroristi di Isis che uccidono le yazide è la stessa che osserviamo nei casi di femminicidio: tu non mi riconosci, e io ti ammazzo. Identica”.
Che cosa si deve fare?
“Rompere il silenzio. Esprimere le proprie emozioni di fronte a questi crimini, e da lì tirare il filo del pensiero. Rendere visibile ciò che sta accadendo. Capire che non c’è soluzione di continuità tra la violenza dei femminicidi e quella dei terroristi. E’ la stessa violenza, è lo stesso corpo femminile. Il paradigma della violenza domestica è applicabile a quello che capita alle donne in guerra: la differenza è che nella guerra la violenza sessista è più grande, confusa, mascherata. La violenza sulle donne non è un prodotto collaterale o un incidente di percorso: è tra gli obiettivi”.
Un obiettivo perché?
“Perché un uomo assapora pienamente il potere quando sente di avere un controllo assoluto del corpo e del pensiero femminile”.
Perché ne parliamo così poco?
“Perché non c’è pensiero, non si sa bene che cosa dire. Si tratta invece di voler vedere, e per vedere devi avere una chiave che funzioni, gli occhiali giusti. La mia chiave è questa, ciò che so sulla violenza domestica. Tu mi sta costringendo a vedere: io ho questi occhiali per vedere. Dobbiamo produrre un simbolico a partire dal pensiero di cui già disponiamo”.
A volte mi pare che ci comportiamo come quei bravi cittadini tedeschi che abitavano a cento metri dai campi di Auschwitz o Dachau ma non si accorgevano di nulla.
“Viviamo a poche ore d’aereo da quelle donne, ma siamo intrappolate nella nostra afasia. E’ la stessa afasia di certe che arrivano da noi e non riescono nemmeno a dire quello che hanno subìto. E allora si esprimono disegnando, trovano un altro modo, un altro simbolico. Mi ricordo una ragazzina che davanti a sua madre ci fece capire che cosa le capitava quando lei usciva a fare la spesa. Non posso dimenticare la faccia di quella madre, quando si è resa conto”.