Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è stato ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni. Dal mio cuore sgorga un inconsulto sentimento di compassione per quel giovane diavolo assassino. Non so se è bene che io l’abbandoni in fretta o se devo seguire il suo filo
I giornali e i social network sono pieni del “coraggio di Angela”, di omaggi e di chapeau.
Di Angela Merkel ammiro soprattutto la velocità con cui ha deciso, quasi all’improvviso, di cambiare rotta sul tema dei migranti. Anche il rosso-verde Joshka Fischer dice oggi al Corriere di essere rimasto sorpreso. Sostiene che probabilmente la svolta è arrivata dopo l’attacco dell’estrema destra a una struttura per rifugiati a Eledenau, Sassonia. E aggiunge: “A differenza dell’Italia che vive ogni giorno la realtà drammatica dei profughi, dei morti nel Mediterraneo, la Germania sembrava lontana dall’emergenza. E improvvisamente sono lì, hanno percorso migliaia di chilometri, anche a piedi, per venire da noi. Impressionante”.
Non sono tra i dietrologi che sostengono che Merkel si stia semplicemente procurando mano d’opera a basso costo, o che abbia detto sì ai siriani, meno poveri e più scolarizzati, per poter dire no ai poverissimi del Corno d’Africa: sento dire questo. Penso che di fronte a certe immagini (fra cui quella del piccolo Aylan, ma anche quelle del Tir stipato di corpi morti nei pressi di Vienna, che ricordava l’orribile passato tedesco degli ammassi di cadaveri ad Auschwitz) la signora Merkel abbia compreso che la questione ormai l’aveva in casa, che non era più un problema confinato nel bel mare azzurro dove ogni anno viene a passare un paio di settimane in vacanza, e che la società tedesca chiedeva una presa di posizione rapida.
Perciò bene, la scelta di Angela, che sembra aver finalmente destato una coscienza europea. Ma a Joshka Fischer, e a tutti quelli che si levano il cappello davanti ad Angela, e dicono “hai visto la Germania? E invece l’Italia…”, ricordo che sono anni che noi sappiamo che quella gente percorre a piedi migliaia di chilometri, patendo l’inferno della detenzione in Libia e spesso affogando in mare. Sono anni che i marinai delle nostre navi militari (io ci sono stata) raccattano esseri viventi e recuperano corpi. E dico che io spero che nei libri di storia, al netto delle ributtanti imprese di Buzzi, Carminati & c, il nostro Paese sarà raccontato come il più ricco in Europa della risorsa dell’accoglienza.
Vedo i tedeschi che nel settembre 2015 cantano An Die Freude accogliendo i siriani, mi commuovo, e penso agli anni e anni d’amore dei Lampedusani che hanno perfino ceduto le loro tombe per quei poveri morti.
E voglio nominare il coraggio di Giusi (Nicolini), sindaca dell’isola, piccola e sola, che avrebbe dovuto essere candidata come capolista alle europee, ma poi il Pd, chissà perché, ha deciso diversamente. Peccato, perché forse avrebbe saputo risvegliare prima l’anima addormentata del Continente.
SAREBBE BELLO CHE ALLE MARCE DELLE DONNE E DEGLI UOMINI SCALZI, l’11 SETTEMBRE, PORTASSIMO LA SUA FOTO, PER GRATITUDINE.
E meno male, dico, che per un inconveniente tecnico il post su Laura, la ventiquattrenne belga che ha chiesto e ottenuto di morire con suicidio assistito, non ha potuto ricevere commenti. Ho avuto un fronte in meno su cui combattere. Per due giorni il bombardamento sui social network è stato feroce: sono stata accusata di ignorare la sofferenza della depressione, di sperare che la ragazza si togliesse la vita da sola e dolorosamente, di ergermi a giudice della sua scelta, di non farmi i fatti miei, di non essere politicamente corretta. Qualcuno (anzi, qualcuna) ha affermato che in una formazione progressista NON (ripeto: NON) ci dovrebbe essere libertà di coscienza sui temi eticamente sensibili: insomma, quello che capita normalmente in un regime. Qualcun’altra ha ridacchiato compiaciuta (“eh eh eh”) di fronte al mio sgomento per questi attacchi, come se in tutta questa vicenda ci fosse qualcosa da ridere. Mi è stato detto di non piagnucolare e di non fare la vittima. Tanti si sono scandalizzati per la colorita espressione “merda” (e non per il fatto che una ragazza di 24 anni sta per essere accompagnata a morire da uno Stato): il mondo alla rovescia. Altri hanno inteso che io dessi della merda alla ragazza. E poi molti, davvero molti, hanno condiviso la mia pena e il mio senso di rivolta per questa vicenda.
Anche il tema dell’eutanasia per i malati psichici -questione universalmente dibattuta e controversa: chi soffre psichicamente è dotato della lucidità necessaria a decidere di essere accompagnato a morire?- per tanti non può essere nemmeno posto in discussione (e invece perfino Gramellini osa discuterne).
Mi spaventa molto il non poter dire quello di cui si è intimamente convinti secondo coscienza, anche correndo il rischio di sbagliare: questo rischio c’è sempre e bisogna correrlo sempre per amore del mondo. La muraglia del pensiero unico non è mai stata tanto alta e insormontabile.
Sotto sotto la questione è una sola: quella dei diritti individuali. “Ognuno sta solo sul cuor della terra”, con il suo bravo armamentario di diritti. L’un contro l’altro armato di diritti anche astrusi: ne inventiamo di nuovi ogni giorno. L’individuo e i suoi diritti come atomo irriducibile. Parlando con alcune amiche, ieri notavamo che perfino Judith Butler, madre dellle gender theory e dell’individuo-a che fa di se stesso-a ciò che vuole, costruendosi a prescindere dalla sua realtà biologica, a un certo punto si è arresa arrivando a dichiarare “il corpo è mio e non è mio”. Ma qui, come ho già scritto qualche giorno fa, non l’ha ascoltata più nessuno. Butler intendeva dire che quell’uno armato di diritti è solo un’astrazione. Che fin da quando veniamo al mondo siamo in due: è il due della relazione, l’atomo irriducibile. Che qualunque cosa decidiamo di noi stessi riguarda sempre anche qualcun altro. E’ uno dei postulati fondamentali del femminismo, la centralità della relazione: questo almeno si può dire?
C’è poi uno svarione storico, sul quale è bene fare chiarezza: quella dell’individuo armato di diritti è un principio del liberalismo, non del pensiero “di sinistra”. La sinistra ha sempre cercato altre soluzioni. Oggi si tende invece a porre la lotta in difesa dei diritti dell’individuo al centro dell’appartenenza a sinistra, oltre a confondere laicità e laicismo (per quanto mi concerne, se interessa, io sono laica e non laicista).
Sarebbe bene pensarci un po’ su. Se è permesso.
Aggiornamento 13 luglio: qui un interessante punto di vista psichiatrico.
a tutti suggerisco la lettura di questa allarmante inchiesta del New Yorker sull’eutanasia in Belgio : se poi ci fosse un santo che ha voglia di tradurre per chi non sa l’inglese
In Belgio una ragazza depressa di 24 anni ha chiesto e ottenuto di essere sottoposta a eutanasia –forse sarebbe più corretto parlare di suicidio assistito-, pratica che dovrebbe essere messa in atto entro l’estate. La legge belga, insieme a quella olandese, ammette l’eutanasia: ogni giorno vengono accompagnate alla morte 5 persone ammalate fisicamente o psichicamente, e le richieste sono in costante aumento, di quasi un terzo nell’ultimo anno. Cresce anche il numero di accessi consentiti a persone non terminali e senza patologie fisiche. Recentemente è stata sottoposta ad eutanasia una transessuale che non accettava l’esito degli interventi a cui si era sottoposta e si sentiva “un mostro”. In febbraio la possibilità di accedere a eutanasia è stata estesa ai bambini malati terminali.
Laura, chiamiamola così, non è una paziente terminale, né soffre di alcuna patologia fisica. Il suo problema è una forte depressione con pensieri suicidari. In un intervista al quotidiano De Morgen, Laura dice che “la vita non fa per me” e racconta di essere stata ossessionata dal pensiero della morte fino dalla prima infanzia. Spiega di non essere stata desiderata dai genitori e di aver avuto un padre alcolista. Dice che i suoi nonni le hanno dato una famiglia stabile e affettuosa, ma questo non è bastato. Dice che è convinta che avrebbe avuto questo desiderio di morte anche se le cose con i suoi genitori fossero andate diversamente. “La morte” spiega “non la vedo come una scelta. Se avessi la possibilità di scegliere opterei per una vita decente, ma ci ho provato in tutti modi e senza successo. Ho commesso vari tentativi di suicidio, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di me e io non volevo fare del male a nessuno. E’ questo che mi ha fermato”.
In ospedale psichiatrico Laura ha conosciuto una ragazza che è stata sottoposta ad eutanasia per problemi simili ai suoi, e da allora ha cominciato a concepire questa soluzione. Il Daily Mail riferisce che uno dei maggiori sostenitori dell’eutanasia in Belgio, il dottor Wim Distelmans, è stato al centro di grandi polemiche e condanne per aver organizzato un simposio ad Auschwitz. Il medico ha spiegato che “Auschwitz è il luogo più adatto per organizzare un seminario e riflettere su queste pratiche”. Un report pubblicato dal Journal of Medical Ethics ha concluso che almeno un paziente su 60 sottoposti a eutanasia non l’ha mai richiesto: in particolare si tratta di anziani ottantenni e ultraottantenni ricoverati in ospedale senza patologie terminali, in stato di coma o affetti da demenza. I cosiddetti lungodegenti, che costano molto alla sanità pubblica . Spesso la decisione viene assunta dai medici senza nemmeno consultare i familiari. L’autore del report, il Professor Raphael Cohen-Almagor della Hull University, dice che “la decisione su quale sia definibile vita e quale no non è nelle mani dei pazienti, ma in quelle dei medici. E’ una pratica che sta prendendo sempre più piede in Belgio”.
Il caso di Laura sta dividendo il Paese. Si tratta di un caso limite: una ragazza fisicamente sana, con una lunghissima aspettativa di vita, e una ragionevole speranza di poterla cambiare (essere adeguatamente e amorosamente curata, magari aiutata a trasferirsi altrove, lontano dal teatro di una vita insopportabile, poter sperare in un amore, in una rete di relazioni affettive, in qualcosa di bello che può capitarti). Forse appena un barlume, che tuttavia resta acceso. E’, in quanto gravemente depressa, abbastanza lucida per chiedere la soluzione definitiva della morte? E’ abbastanza adulta da essere immune da comuni fantasie adolescenziali sulla morte?
I tentativi non riusciti di suicidio messi in atto da Laura lo dimostrano indirettamente: in genere i TS sono grida d’allarme, estreme richieste di attenzione. Chi vuole davvero morire, la gran parte di noi lo sa avendo avuto la dolorosa esperienza di amici o congiunti suicidi, sa farlo a colpo sicuro.
Certo: l’eutanasia di Laura costerebbe pochissimo al servizio sanitario nazionale belga, molto più che prendersi cura di lei. Ma costerebbe moltissimo all’identità di quel Paese.
L’augurio è che i cittadini belgi inorriditi da questa storia sappiano fare sentire alta la propria voce: Not in My Name.
Il tempo è davvero poco. Io non posso che ripetere qui quello che ho scritto ieri sui social network, dopo aver appreso della vicenda: questa storia è merda.
L’altra notte scrivo all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino, in prima linea sulla questione migranti: “Magari quel cubo di plexiglas in stazione dove sono temporaneamente ospitati potrebbe essere oscurato con un po’ di carta da pacchi“. Così, per troncare sul nascere le polemiche sui “migranti in vetrina”, e per garantire a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini un minimo di privacy. In effetti la mattina dopo il cubo è stato oscurato.
Mi vengono dei dubbi: i migranti sugli scogli di Ventimiglia non vogliono essere nascosti. Vogliono stare lì, avvolti nelle metalline, perché il mondo li possa vedere. Oggi papa Francesco chiede “perdono per chi chiude la porta ai rifugiati”. E’ giusto che restino dove intendiamo tenerli, sulla porta, a bussare, fintanto che intenderemo tenerceli.
Ogni volta che passavo dalla stazione e vedevo quelle famiglie sistemate nel mezzanino, donne uomini e bambini, e i volontari che scodellavano pasta e distribuivano biscotti, e i milanesi che arrivavano a frotte con i loro borsoni di viveri, indumenti e giocattoli, era come passare davanti alla grotta di Nazareth, con il Figlio dell’Uomo, i Magi e i pastori. Un punto di santità, un tempio che mi commuoveva nel profondo.
Giusto che profughi e migranti vengano accolti degnamente, quanto meno una brandina al coperto e un bagno dove lavarsi. E giusto che si trovi un modo umano per regolare i flussi, per ridurre al minimo i problemi e i disagi per tutti. Ma la logica non può essere quella del nascondere, del non vedere. Vedere è la prima cosa, per trovare soluzioni efficaci e degne.
Parlo da figlia di figli di migranti (e dalla mia pelle si vede!).
La sicurezza è destinata a diventare un tema cardine in tutte le prossime scadenze elettorali. Nessuna forza politica potrà eludere la questione, che si tratti di fare fronte a un rischio realmente aumentato (in verità nel 2014 l’indice di delittuosità in Italia è diminuito del 14 per cento) o percepito come tale a causa una più generale insicurezza sociale, ovvero dalla mancanza di lavoro, dai tagli ai servizi, dal senso di abbandono, dalle difficoltà che si generano nella convivenza con lo “straniero” e così via.
Con il suo securitarismo storico la destra si presenta una narrazione già ben consolidata, proponendo soluzioni drastiche e spesso semplificatorie che danno tuttavia l’idea di prendere il toro per le corna, senza sfumature “buonistiche”. Più complessa la questione a sinistra: nei suoi programmi il tema della sicurezza compare normalmente a latere, come non qualificante, e la propensione a problematizzare evitando scorciatoie populistiche rischia di essere letta come disattenzione, lassismo, sottovalutazione o indifferenza ai “problemi della gente”. A ciò si aggiunga la scelta di accoglienza nei confronti dei migranti, visti come “invasori” nonostante i numeri raccontino una realtà molto diversa: colpisce molto che perfino il democratico Felice Casson, in questi giorni al ballottaggio come candidato sindaco a Venezia, debba concedere agli umori popolari assicurando che la città non accoglierà altri profughi.
Gli enormi buchi di bilancio negli enti locali, causati da una gestione dissennata quando non truffaldina, si sono spesso tradotti in abbandono delle periferie: sporcizia, trascuratezza, le famose buche nell’asfalto, la latitanza delle forze dell’ordine, il fatto di dover reggere in esclusiva il peso innegabile dell’accoglienza e della convivenza con i poveri del mondo, quasi sempre concentrati nelle aree periferiche.
Trovare la strada è molto difficile. Potrebbe essere interessante valutare le esperienze di “controllo di vicinato” già attive in svariati comuni italiani e mutuate dal modello anglosassone del neighborhood watch: qui sono le stesse comunità a farsi carico della prevenzione e, più in generale, della qualità di vita nei propri quartieri, vigilando sia sui problemi ambientali, sia sui rischi per la sicurezza. Ben lontano dalla logica forcaiola delle “ronde” e del farsi giustizia da sé, il controllo di vicinato opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: non si insegue né si arresta il ladro, ma si vigila con molti occhi sui movimenti sospetti che vengono prontamente segnalati alle forze dell’ordine. Periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei molti temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Più femminile, meno maschile.
Uno spirito edificante che fa la differenza. Pensiamoci.
p.s: mi fanno giustamente notare che il concetto di “controllo” è bruttino, che si dovrebbe parlare di condivisione e mutuo aiuto. Giusto. Pensiamo pure a questo.
Il prossimo 3 luglio saranno 20 anni che Alexander Langer ci ha lasciati: ecco le sue parole sulla convivenza inter-etnica. Sembrano scritte oggi.
“La convivenza pluri-etnica sempre più apparterrà alla normalità. Ciò non vuol dire che sia facile o scontata. Non bastano retorica e volontarismo: occorre sviluppare una complessa arte della convivenza. La convivenza pluri-etnica può essere vissuta come arricchimento e opportunità piuttosto che come condanna: non servono prediche contro razzismo e intolleranza, ma esperienze e progetti positivi.
Più chiaramente ci separeremo, meglio ci capiremo: non hanno dato buona prova né le politiche di inclusione forzata, né di esclusione forzata. Bisogna offrire momenti di “intimità” etnica come di incontro e cooperazione inter-etnica. La convivenza offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca… anche semplici inviti a pranzo o cena, forse momenti di preghiera o di meditazione comune. Dovremo accettare partiti etnici, associazioni etniche, club etnici, ma si dovranno valorizzare tutte le altre dimensioni della vita che non sono a carattere etnico. Permettere una certa osmosi tra comunità diverse e un riferimento plurimo da parte di soggetti “di confine” favorisce l’esistenza di “zone grigie”, a bassa definizione e disciplina etnica e quindi di più libero scambio. Servono mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera, “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”. Le piante pioniere della cultura della convivenza sono i gruppi misti inter-etnici”.
Qui il testo integrale del “Tentativo di decalogo per convivenza inter-etnica”.
Quello che ha detto Matteo Salvini -radere al suolo i campi rom- è semplicemente spregevole, e ricorda le soluzioni finali. Spregevole, soprattutto, è il modo in cui il segretario della Lega cavalca la questione per raccattare voti, spargendo benzina sul fuoco del disagio.
Ma la risposta alla spregiudicata campagna di Salvini non può essere la santificazione dei Rom: chi vive accanto a uno di quei campi vedrà negata la propria esperienza quotidiana, fatta di difficoltà, disagi e paura, e si sentirà a maggior ragione rappresentato da chi la sta significando, anche se pro domo sua. Si sentirà abbandonato, e la sua esasperazione crescerà.
La risposta a chi dice “i rom sono tutti ladri” non può essere che “tra i rom non ci sono ladri”: ho esperienza personale di quelle ruberie, come molti di noi. Ho il ricordo atroce di uno zingarello caduto da un tetto su cui si era arrampicato per raggiungere le abitazioni. Ho strappato la mia borsa dalle mani di una rom. Ho memoria di un tratto di strada chiuso per anni al pubblico passaggio da insediamenti rom, e difeso con i cani.
Ci sono ladri in tutte le etnie, rom compresi. E il disagio della vicinanza a quei campi, normalmente situati nelle periferie urbane già provate dall’abbandono e dalla carenza di servizi, non può essere sprezzantemente bollato come razzismo da chi, trincerato nel centro storico, canta le meraviglie della cultura nomade.
Ci vuole pazienza, attenzione politica, pratica di relazione, vicinanza, e severità, quando è necessaria. Serve un forte impegno contro il disagio, quello dei rom che vivono nel fango così come quello dei loro vicini di casa.
L’ideologia è pericolosa tanto quanto l’irresponsabilità politica di Matteo Salvini.
Ieri sera mi sono ricordata di un professionista tedesco, signore alto e distinto, che ogni sera si piazzava in mutande nel carrugio del “mio” paesello ligure, non più di 2 metri di larghezza, a grigliare salsiccie e bistecche, impestando aria e panni stesi. Di sera il grill a carbonella, di giorno uno stendino pieno di costumi e asciugamani a ostruire il passaggio. Prova a farlo a Frankfurt o a Dusseldorf, mi veniva da dirgli. Ci ho pensato vedendo in azione a Roma gli orrendi barbari olandesi, la spazzatura nella Barcaccia del Bernini, in una delle piazze più belle del mondo. Mi sono venuti in mente tutti quei nordici che perdono il loro overcontrol dopo N birre, quel ragazzo corazziere di Hitler pieno di vino italiano che voleva stuprare mia mamma bambina -se lo ricorda ancora con terrore-, ci vollero molti uomini per blandire e tenere a bada quei due metri di bionditudine fuori controllo.
Il nordico in Italia, titillato da dolcezza, sensualità e bellezza: non solo Goethe. Quella certa tendenza a sentirsi über -e tu unter– che si sfrena improvvisamente, con il rumore di qualcosa di rigido e anelastico che si spezza di colpo, senza mediazioni. Una brutalità invidiosa, che sfascia, sporca, disprezza, stupra: siamo in Italia, qui possiamo tutto. E non è solo roba da hooligan.
Non per fare tutto un fascio di tedeschi, olandesi, danesi. O per divertirsi con un razzismo al contrario, che viaggia insolitamente da Sud a Nord (di norma si va da Nord a Sud). Solo per dire che ce n’è per tutti, a ogni latitudine. E che la perfezione umana può realizzarsi solo nel pacifico dialogo tra differenze.
E anche per dire che noi italiani, campioni di autocritica, non siamo sempre i peggiori del mondo. E alle nostre Barcacce, e a tutto il resto dello splendore che ci è dato e che ci siamo dati -il qualis contro il quantum- dobbiamo volere un gran bene.
p.s: c’è anche forse il fatto che di (altri) barbari in arrivo a Roma di questi tempi abbiamo sentito più volte parlare. E quella di ieri è sembrata un’esercitazione sul campo.
Difficile da credere: ma il traffico di carne migrante è il più colossale business d’Occidente. E se non credete a me credete a Buzzi e a Carminati, che di soldi ce ne hanno fatti parecchi. Leggete il libro di Andrea Di Nicola e Giampaolo Musumeci “Confessioni di un trafficante di uomini” (Chiarelettere). Stroncare il business, che nutre la criminalità organizzata di entrambe le rive del Mediterraneo, e salvare vite umane sono un tutt’uno. Per questo la proposta scandalosa della sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini (andiamo a prenderli là, istituiamo campi profughi e corridoi umanitari con una governance internazionale tanto, come lei dice, “comunque loro arriveranno, vivi, morti, annegati, morti di freddo, morti di fame, loro vengono”) è l’unica proposta sensata.
Almeno 330 i morti di oggi, siamo tornati esattamente al punto di prima, quando dopo la strage del 3 ottobre 2013, 366 migranti morti, le banchine dell’isola ricoperte di salme, si decise di istituire la missione Mare Nostrum. Se il oggi il Mediterraneo non è una fossa comune –ma siamo sempre in tempo perché lo diventi- è solo grazie alla missione della nostra Marina Militare.
Oggi si replica quel terribile giorno di ottobre, centinaia di corpi allineati sul molo e a cui trovare sepoltura, tutti i lampedusani mobilitati per questo strazio. La scelta di chiudere Mare Nostrum e di arretrare la linea di intervento con Triton è fallimentare. A meno che non si consideri un successo che migliaia e migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame crepino in mare, così risolviamo tutti i problemi. A meno che non si ritenga preferibile questa “soluzione finale” (Endlösung), l’acqua invece che i forni, che ricorda quelle perseguite in altri momenti storici.
#notinmyname