Browsing Tag

l’amica geniale

esperienze Novembre 14, 2014

Storia della bambina perduta: si conclude la saga di Elena Ferrante, biografia di una generazione

Quel momento lancinante della “Storia della bambina perduta”, quarto e ultimo volume di “L’Amica Geniale”, saga firmata da Elena Ferrante. Una domenica mattina al rione, bancarelle e odore di mandorle tostate, i camion che anche il giorno di festa sferragliano oscenamente sullo stradone. E’ lì che capita il fatto, lo spavento definitivo attorno a cui tutto comincia a vorticare, e per Lila e Lenù ogni cosa sembra perduta. Fatto che ho bene in mente come se fosse un ricordo straziante, confuso con i fatti della mia vita insieme a molti altri del racconto fluviale, migliaia di pagine divorate con urgenza: l’estate a Ischia, la rissa in piazza dei Martiri, il sesso tra Elena e Antonio, i nuovi libri di scuola, il marasma degli anni Settanta.

E’ questo che capita, leggendo Ferrante: di smarrire i confini tra sé, chi narra e chi è narrata per dissolversi in un indistinto femminile. L’identità che si smargina, direbbe Lila nella sua lingua così prossima alla materia, ferita dalle coltellate del dialetto: “Una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee… aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così”. La tua esperienza si impasta a quella delle due amiche, partecipando a quel rapporto fusionale, alla “sarabanda infernale” che è il legame tra loro.

Avrei detto che si doveva conoscere, amare e odiare Napoli, “città senza amore”, luogo dove “s’è costruito di tutto e s’è scassato di tutto”, dove “ogni volta… il trucco della rinascenza accendeva speranze e poi si spaccava, diventava crosta sopra croste antiche”. Ero convinta che ci si dovesse essere accostati al suo mistero e alla sua irredimibilità, lontani da ogni rappresentazione oleografica, per partecipare a questo mezzo secolo di vita doppia femminile: il rione, Lila e Lenù, una con l’altra, una nell’altra. Perciò mi ha colto di sorpresa il trionfo americano di Ferrante (New York Times: “Nulla di ciò che leggiamo a proposito dell’opera di Elena Ferrante ci prepara alla ferocia dei suoi romanzi”. E The New Yorker: “Non vorrei smettere mai. Mi irritano gli ostacoli –il mio lavoro, gli incontri in metropolitana- che rischiano di tenermi lontana dai suoi libri”).

#Ferrantefever in una libreria di New York

Immaginabili, dopo questo trionfo, gli sconquassi nell’invidioso mondo letterario italiano: rabbia e sconcerto espressi in giudizi ringhiosi e sprezzantemente misogini, come il paragone tra la saga e “una soap tipo “Un posto al sole””. Sono peraltro certa che Ferrante, chiunque essa sia, non se ne sia poi avuta a male, avendo lei stessa dichiarato di essersi nutrita anche di certi “fondali bassi” come i fotoromanzi (Bolero, Grand Hotel, Sogno: quando era ragazzina, e anche quando lo ero io, le soap non esistevano).Come mi spiegò in un’intervista, in quella sottocultura aveva incontrato “il gusto di avvincere i lettori. Il fotoromanzo è stato uno dei miei primi piaceri di lettrice in erba. Temo che l’ossessione di ottenere un racconto tesissimo, anche quando narro una storia piccola, mi venga da lì. Non provo alcun piacere a scrivere se non sento che la pagina è emozionante. Una volta avevo grandissime ambizioni letterarie e mi vergognavo di questa spinta verso tecniche da romanzo popolare. Oggi mi fa piacere se qualcuno mi dice che ho scritto un racconto avvincente, per esempio come quelli di Delly”.

La grandiosa “soap” “L’Amica Geniale”, biografia di una generazione, racconta sessant’anni di vita italiana, dagli anni Cinquanta al ’68, il femminismo, le bombe, il terrorismo, il terremoto, il berlusconismo. Ma si tratta di una Storia che è subito carne, come tutti ne facciamo esperienza, e mai di un universale astratto e superiore.

La maternità insofferente di Lenù che piazza le figlie da nonni e amici, dimenticando felicemente i pianti delle bambine tra le braccia dell’amante, o inseguendo i propri successi: “A Montpellier mi sembrò evidente quanto potesse risultare angusto, a trentadue anni, essere moglie e madre… per tutti quei giorni densi d’amore mi sentita per la prima volta liberata dai vincoli che avevo sommato negli anni”. Una rappresentazione fedele di quel primo femminismo rivoltoso che sentiva l’essere madre come il principale ostacolo alla realizzazione del sé femminile, venuto al mondo all’improvviso con la forza di una rivelazione. Quante tra noi sanno il senso di quella colpa, e lo stanno ancora smaltendo.

Le stanze fumose, l’andirivieni caotico e distruttivo, nelle vite e nelle case, la macellazione dei sentimenti sacrificati all’ideologia, la furia dionisiaca malcelata nell’“impegno”: ecco gli anni Settanta in Italia come mai la letteratura né il cinema li avevano saputi rappresentare. La Storia vista dagli occhi di una donna, e perciò obbligata all’autenticità del “privato”.

Spesso la sparizione è un passaggio obbligato per non dover più vivere come morte: Amalia che scompare in “L’amore molesto”, romanzo che ha rivelato Ferrante. E qui Lila, fin dal principio della lunga storia, forse per poter  vivere “in vecchiaia, secondo una nuova verità, la vita che in gioventù le avevano vietato e si era vietata”. E altre ancora che si sottraggono allo sguardo insieme all’autrice: l’assenza come precondizione per un esserci autentico, oggi che la malattia della visibilità ci rende tutti miserabili.In Italia il gioco “Ferrante chi è?” continua a occupare il più del dibattito –un uomo? una donna? un team? un algoritmo?-, mentre per lettrici, lettori e critica americani, forse per l’abitudine a Salinger e a Pynchon, la questione appare decisamente marginale. Questo grande romanzo di formazione femminile, larger than life, apre ben altre domande.

La mia sarebbe questa, e sento che ha a che vedere con me stessa: delle due, Lila e Lenù, l’“amica geniale”, chi è? Chi fugge, o chi è rimasta? Forse la risposta la dà Lenù: per tutta la vita “Lila aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza”. Forse nessuna delle due, senza l’altra -e nessuna di noi, senza la sua Altra- potrebbe pensare di esistere.

 

*I quattro volumi della saga di Elena Ferrante, “L’Amica Geniale”, “Storia del secondo cognome”, “Storia di chi fugge e di chi resta”, “Storia della bambina perduta” e tutte le sue altre opere sono pubblicati da Edizioni e/o)

Aggiornamento 18 novembre 2014: Elena Ferrante inserita tra i 100 Global Thinkers

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

esperienze, Libri Gennaio 14, 2012

La scrittrice geniale

Oggi vorrei darvi un consiglio di lettura (se anche voi ne avete, postate: è sabato, si può andare in libreria).

Il libro è l’ultimo di Elena Ferrante, “L’amica geniale”  (E/O). Ne ho scritto per il prossimo numero di Via Dogana. Anticipo qui (ma Via Dogana, in uscita a marzo, compratelo: sarà pieno di cose interessanti!).

“Elena Ferrante la leggo sempre con cautela, all’erta, inseguendo ansiosamente le tracce disturbanti che dissemina nei suoi testi. So che prima o poi mi imbatterò in qualcosa che ho dimenticato di me. Qualcosa di essenziale, lancinante, e anche ripugnante, che attende nel buio per rifarsi vivo: l’odore di certi scantinati dell’infanzia, la muta terribile della pubertà, l’insopportabilità dell’addio al corpo dell’amica da cui un uomo ti separa per sempre, “la sua bellezza di sedicenne poche ora prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola”. Identificazione aiutata anche dal fatto che Ferrante nasconde il suo volto: lo scambio tra lei che scrive senza mostrarsi e te che leggi è quasi alla pari, la storia non è di nessuna e perciò è di tutte, la narrazione ha la forza di un mito.

In “L’amica geniale” l’occasione del racconto è ancora una volta la scomparsa di una donna alle soglie della vecchiaia, com’era stato in “L’amore molesto”, romanzo d’esordio. Una donna che sparisce per risignificarsi in extremis. Fermare la tua esistenza prima che finisca definitivamente incagliata nella menzogna, per darti l’occasione, o darla all’altra che ti ha amato, di rileggerla e di redimerla ricominciando daccapo, seguendo il filo di un senso segreto e calpestato.

Qui è Lila a scomparire, e Lenù, la sua amica di sempre, che va in cerca di lei, spalancando la memoria: “Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente”. La “nostra storia”, quella delle bambine Lenù e Lila (Raffaella o Lina per gli altri, Lila solo tra loro), è una storia di emulazione, di sfide, di amore, di lotta. E di libri, di studio. Non ci sono altre zattere per salvarsi dal “rione”, che le minaccia come un destino violento e già compiuto.

Lila e Lenù il mare non l’hanno mai visto. Il mare non bagna quella Napoli di periferia anni Cinquanta, putrida e brulicante come un verminaio. “Una città senza amore”. Nella Napoli di Ferrante non c’è mai bellezza che ti salvi. Il presepe del quartiere –lo scarparo, il salumiere, la pazza, l’orco- è tenuto insieme solo dall’odio e dalla rassegnazione. Un mondo «pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione», ora minacciato anche dal diavolo del boom economico. Tanto diverse tra loro, Lila e Lenù si fanno luce, sono un corpo solo, la bellezza e il genio passano dall’una all’altra che se ne riempiono e svuotano come vasi comunicanti.

Di questo testo insolitamente fluviale per Ferrante –è l’inizio di una saga che si svilupperà in più volumi-, testo che va letto e riletto (ma per farlo ancora più tuo lo si dovrebbe copiare e ricopiare), mi restano alcune scene di una vivezza crudele. L’uscita delle ragazze e di loro amici “tàmmari” a via Chiaia: “Fu come passare un confine. Mi ricordo un fitto passeggio e una sorta di umiliante diversità. Non guardavo i ragazzi, ma le ragazze, le signore: erano assolutamente diverse da noi”. La rissa che segue con i giovani borghesi di piazza dei Martiri.

La gara di botti sul terrazzo la notte del Capodanno 1959. E’ qui che Lila fa per la prima volta esperienza di ciò a cui dà il nome di “smarginatura”: «Fu come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata».

La crosta della realtà che di colpo si crepa, come una terra vulcanica. Il solido che si disfa, si sfalda, si svela nella sua minacciosa incoerenza ma anche in tutto il suo possibile. L’urto violento di una nausea improvvisa che deforma la percezione ma la fa anche più nitida e precisa. L’insensato è un luogo abituale di Ferrante: Olga che va in pezzi in “I giorni dell’abbandono”, il verme nel ventre della bambola di Leda in “La figlia oscura”.

La scrittrice cerca nella sua “frantumaglia” come chi frughi furiosamente in un immondezzaio, senza pietà per se stessa, alla ricerca di qualcosa di purissimo. “Quando scrivo”, ha detto a Luisa Muraro e a me in un’intervista, “è come se macellassi anguille”. Un’esperienza perturbante anche per chi legge, come un setting analitico infernale. Ma la speranza della verità che guarisce resta, fortissima.