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Donne e Uomini, OSPITI, Politica Aprile 2, 2009

IL CORAGGIO DI FINIRE

Per circa un anno, a Roma, un gruppo di signore (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) si sono viste ogni mercoledì per ragionare sulla crisi della sinistra. Si sono date il tempo per pensarci a fondo, prendendosi la briga di fare questo lavoro per tutte-tutti. Grazie.

Il 19 aprile, alla Casa Internazionale delle Donne, metteranno in comune le loro riflessioni. Ve ne anticipiamo alcuni stralci (il testo integrale lo trovate qui: http://www.donnealtri.it/locale-globale/373-il-coraggio-di-finire-br-riattraversare-la-fine-pu–rivelarsi-un-educazione-sentimentale.html)

Abbiamo cominciato a riunirci prima della caduta del governo Prodi, quando non era ancora del tutto implosa la politica dei partiti della sinistra. Avvertivamo tutte, al di là delle diverse esperienze e del diverso coinvolgimento in quella vicenda, il bisogno di uno scambio su quello che da tempo ci sembrava evidente: una perdita di senso e di funzione della sinistra, all’interno di una più generale crisi della politica. Una perdita forse irrimediabile. Che si manifestava nella ripetizione di tutti i vizi che l’hanno portata allo schianto elettorale, dalle pratiche asfittiche ed autoreferenziali, all’abuso di parole troppo lise per comunicare e convincere . A questa situazione abbiamo guardato con “attenzione amorevole” (…)

Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l’ invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire… anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E’ un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l’usura del corpo. Restano – non è una consolazione, ma un’eredità – le relazioni. La politica delle donne di questo parla. E’ questo il filo di continuità tra il nostro gruppo e il femminismo. E’ sulla possibilità di mettere le relazioni al centro della politica che vogliamo lavorare, creare incontri e scambi con uomini e donne (…)

Questo ha suscitato in noi un coinvolgimento vivo sulla questione politica della fine della vita. Da mesi presente nelle cronache di giornali e istituzioni sul cosidetto “caso Englaro”. Che abbiamo però sottratto alla complicata e astratta discussione bioetica, su legge o no, su chi decide, su cos’è accanimento terapeutico, cosa terapia, cosa vita, quando si è morti o no, ecc, ecc. La legge ci sembra un modo solo per coprire un vuoto di senso, e, al contempo, esorcizzare la paura della morte (…)

E’ sempre più difficile saper convivere con la morte. E saper quindi compiere quel mutamento esistenziale che ogni fine, a noi vicina, comporta. E sempre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. Di attraversare il dolore che ogni cesura, tanto più se inevitabile, comporta. La morte da esperienza individuale si trasforma così in un rimosso della coscienza collettiva. Lavorare su quel rimosso è una parte essenziale della politica, perché è essenziale per la convivenza (…)

Dal bisogno di nominare la fine dei corpi, abbiamo preso consapevolezza del bisogno, altrettanto forte, di nominare la fine nella politica. Il rinvio dal corpo alla politica, dal fine vita alla fine di forme della politica è stato repentino. Ci ha fatto capire perché giravamo a vuoto, senza afferrare il nesso tra la nostra esperienza viva di politica ed il discorso politico e sulla politica. Perché anche noi restavamo incagliate nel “discorso ” pre-costituito che è quello pubblico, dei giornali e delle sedi politiche. Un effluvio di parole che assorda senza riempire il vuoto di senso. Proprio come nel discorso della bioetica, attorno al corpo di Eluana.

La crisi della politica mima le crisi del corpo fisico. Conosce l’alternarsi di bulimia e anoressia: eccesso di parole, di concetti, di invenzioni verbali e disseccamento delle radici sociali, delle pratiche comunicative, degli scambi di senso e di riconoscimento. Cupio dissolvi e vocazione suicidaria nella riproposizione all’infinito dei modi e delle logiche che hanno portato al disastro. Accanimento terapeutico diretto a rinverdire simboli e riferimenti ormai in declino, che hanno dato un giorno forza all’impresa e che si spera possano tornare a essere quello che sono stati. Nel femminismo abbiamo tempestivamente visto e nominato i danni del prometeismo. Di quel peculiare accanimento maschile che li spinge a tenere in vita vegetativa imprese collettive. Le istituzioni, le prassi, i codici di una politica non più viva, non più feconda. Perché non nutre le esperienze, non le cambia, non offre significato.

Gli uomini fanno fatica a prendere le distanze dalle organizzazioni – partiti, gruppi, associazioni- che hanno costruito. Non riescono a separarsene. L’ansia per il declino di un partito si traduce nell’invocare un leader, così come la leadership dovrebbe supplire alla crisi dell’ autorità patriarcale. Nella realtà i gruppi dirigenti maschili, a sinistra soprattutto, non solo non hanno autorità, ma sono un ostacolo per affrontarla: occupano quella funzione, ma non la incarnano. Nell’infinita transizione italiana è tutto un fare e disfare partiti, coalizioni, sistemi elettorali. Un chiudere ed aprire fasi e cicli senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto, dentro questo inesausto adoperarsi per dar vita al nuovo. Ed è malamente morto, senza ottenere degna sepoltura, anche a causa di questo accanimento (…)

Si può accettare il vuoto e l’impotenza. Fa soffrire. Ma questo può essere, una condizione attiva, non solo passiva. Patire è radice di passione. Attiva desiderio. Muove dall’impotenza che avvertiamo verso… un bisogno di dare senso a quel patire, prima ancora che verso qualcosa che lo risolve. Ma non bisogna avere fretta di colmare il vuoto, di azzerare la sofferenza con la rimozione. Ignorare la fine ci fa perdere l’opportunità di portare con noi ciò che è importante di questa fine e che probabilmente ci sarebbe utile per ricominciare.

Democrazia è una parola a rischio. Per la sua intrinseca ambivalenza. Come sistema politico ha fatto spazio alle differenze, alla pluralità delle esperienze e dei punti di vista. Come forma del potere politico si è costituita come luogo terzo rispetto alle differenti posizioni, ai partiti, ai conflitti, alle soggettività (…) Anche per i governati, noi singoli e singole, la democrazia è parola ambivalente. A rischio. Per un verso abbiamo potere su noi stessi, è la libertà individuale, garantita come diritti. Per altro verso ognuno deve vedersela da sé, sta per conto suo, ha i fatti suoi. La democrazia insomma, come luogo terzo rende più difficile mettere al centro della politica e della vita le relazioni. Questo produce un ricorso ossessivo alla legge. Ci si appella alla legge per paura delle relazioni, come se la legge potesse colmare il vuoto di legami, l’assenza di una dimensione condivisa nell’ esistenza e nel pensiero.

Vorremmo ripensare la democrazia, non come luogo terzo, non come potere neutro del decisore, ma come convivenza tra differenti, spazio di relazioni e mediazioni, del loro intrecciarsi con l’agire collettivo(…)

Non vi è consapevolezza che anche le istituzioni umane, tutto ciò che è costruito è contingente, finito. La sinistra ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento. Attaccamento come ripetizione, inconsapevole per lo più, del passato, rappresentazione mitica di ciò che è stato, suo ritorno parodistico, diffuso affidarsi ai meccanismi e ai dispositivi sperimentati. Soprattutto c’è stato un uso del sentimento affettivo diffuso, del senso comune e della tradizione. Rimozione come rito dell’innovazione, ricorso al lifting piuttosto che costruzione di un altro ordine di senso e di esperienza.

Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire. Di nuovo c’è un nesso con la questione del fine vita. Con il modo in cui è stata malamente rappresentata nella vicenda Englaro. In questi anni le donne hanno chiuso diverse esperienze, diversi gruppi, associazioni. Gli uomini invece se chiudono un esperienza, fanno finire un partito o un gruppo e per rifarlo. Magari per moltiplicarlo, dividendosi in due o tre sotto-gruppi. Forse perché il significato della parola “fine” si intreccia troppo con quello di “fallimento”. Forse perché hanno paura di invecchiare – anche noi, ma diversamente da loro – e provano a mantenersi giovani, ripetendo il rito del nuovo inizio. Come nella vita, cambiano partner. Noi vorremo comunicare con loro, su cosa vuol dire avere coraggio di finire. Mantenendo vive, ed allargando, le relazioni che abbiamo.

Archivio Luglio 18, 2008

ELUANA DEVE MORIRE!

Sì, è vero, c’era un po’ di rabbia, che non è mai una buona compagna di viaggio, e che mi ha indotto, più che alla sintesi, alla sincope.

Si tratta di questo: troppa gente, sul caso di Eluana, la fa molto facile, non ha dubbi, parteggia rumorosamente, ha fretta di vedere le spine staccate.  Al silenzio di quella giovane donna corrisponde il fragore dei nostri argomenti, strillati sulle spiagge e nei bar. Io non sento di potermi esprimere con tanta disinvolta certezza, né a voce tanto alta.

La sola cosa che mi sento di dire è che, in materia di inizio e fine della vita, cioè quando si tratta di questioni di biopolitica, è meglio chiamare a esprimersi i legislatori, nostri rappresentanti eletti, che affidarsi ai giudici e alle sentenze. Noto inoltre che non sapendo più bene che vosa voglia dire essere laici, si pensa che basti gridare il proprio anticlericalismo e muovere guerra a chi chiede che non si stacchi la spina: “Eluana deve morire!”. Come se la sua morte aiutasse i laici a capire meglio che cosa sono.