Un anno fa ho passato una settimana su nave San Giorgio, missione Mare Nostrum. Ho partecipato al recupero di un gran numero di migranti dal Corno d’Africa, i più poveri di tutti. Erano cristiani, e la mattina di Pasqua hanno pregato sul ponte della nave. C’erano anche musulmani che sorbivano tè caldo avvolti nelle metalline fornite dalla Marina Militare, ma miseria e speranza non facevano differenze religiose.
In un solo anno sono cambiate molte cose. Che 12 cristiani siano stati buttati a mare da loro compagni di sventura musulmani è stata una frustata nel mio cuore. Erano musulmani in cerca di approdo e accoglienza sulle rive di un Paese cristiano, in cui la Chiesa ha la sua sede. Questo non ha impedito loro di esercitare l’intolleranza al livello più barbaro e atroce. Se i fatti saranno accertati, quei 12 cristiani annegati segnano un punto di non ritorno.
Nell’anno intercorso tra la mia esperienza e l’uccisione di quei fratelli si è verificata l’escalation dello stato islamico. L’uccisione di 12 disperati di fede cristiana per me non è meno grave dell’eccidio a Charlie Hebdo. Un atto di jihad in mezzo al nostro mare. Non voler vedere quello che è capitato significa perseverare in un’ignavia di comodo.
Quello che è capitato è che l’odio si è radicato anche nel cuore dei più deboli, di chi è costretto a rischiare la pelle traversando molte miglia di mare per conquistare una vita degna. Quei musulmani assassini non erano jihadisti o foreign fighters, ma poveracci senza speranza. Ma per loro quei cristiani non erano più fratelli, ma infedeli da convertire o da ammazzare, tertium non datur. E con la certezza di non correre rischi, perché i “crociati” smidollati sono incapaci di reazione. E anzi, stanno lì sulla riva nord, pronti ad accogliere, nutrire e curare (e anche a fare business sulla carne migrante, e questo è un altro fatto).
Fa male la Presidente della Camera Laura Boldrini a dire che in questo eccidio la questione religiosa è stata irrilevante: il suo intento è certamente buono, ma la strategia è sbagliata.
Numeri alla mano, la comunità cristiana è da tempo la più perseguitata nel mondo: notizia che mi ha colto di sorpresa.
Direi che c’è molta materia su cui riflettere.
Questo scrivo oggi nella mia rubrica su Io donna
Dopo l’orrenda strage degli studenti in Kenya qualcuno sui social network si è irritato per il fatto che si parlasse di “vittime cristiane”. L’argomento è che i morti sono morti, a prescindere dalla religione di appartenenza, e che sono i musulmani le prime vittime del naziterrorismo islamista.
Vero. Ma nessuno avrebbe obiettato se si fosse parlato di vittime ebree, nel caso in cui il commando avesse attaccato una sinagoga o una scuola ebraica. Specificare invece che si è trattato di cristiani martirizzati in quanto tali è ritenuta da molti un’informazione superflua e in qualche modo scorretta. E suona quasi una provocazione che qualcuno sottolinei, come il sociologo Massimo Introvigne, che quella cristiana è la comunità religiosa oggetto del maggior numero di violenze e discriminazioni nel mondo.
Il motto crociano, “non possiamo non dirci cristiani”, si è pervertito in un “non è il caso di dirci cristiani”, a meno di non essere dei torvi conservatori. Perché dirsi cristiani comporterebbe in automatico (di default, come si dice oggi) l’abdicazione a ogni laicità, la rinuncia a perseguire il progresso, l’assunzione bellicosa delle insegne crociate. Il plauso unanime va a Francesco quando sferza l’avidità umana, e non quando, in una logica giudicata “di parte”, stigmatizza come complice il nostro silenzio di fronte al martirio dei cristiani.
JesuisCharlie, Jesuisjuif, ma Jesuischrétien resta inaudito.
Non c’è niente di male a dirsi cristiani: mi accontenterei di questa rivisitazione di Croce. Non c’è niente di male nel dichiarare la propria fede in un Dio tanto amoroso da farsi uomo e morire per noi. Resta questo, lo scandalo più grande.