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bambini, Donne e Uomini, esperienze, questione maschile Ottobre 12, 2012

Il padre di Padova e re Salomone

La storia la sapete, vero? Di quelle due donne che si presentano da re Salomone contendendosi un bambino: ognuna aveva partorito un figlio ed entrambe dormivano nella stessa casa. Uno dei due bambini muore, e sua madre prende il figlio dell’altra. Salomone ordina che il bambino venga tagliato a metà per darne una parte a ciascuna. La falsa madre accetta la soluzione -invidiosamente, mi viene da dire, pur che anche l’altra perda il figlio-. Ma la vera madre lo supplica di fermarsi e di dare il bimbo all’altra donna, pur di salvarlo. Salomone capisce che la vera madre è lei.

Salvare il bambino, metterlo davanti a tutto: è questo a fare una madre, e anche un padre. Il padre del bimbo portato via a forza dalla polizia usa proprio queste parole: “L’ho salvato”. L’ha salvato, a suo dire, da una madre che lo metteva contro di lui, e che lo stava facendo ammalare di Pas, o Sindrome di alienazione genitoriale, disturbo inventato da uno psichiatra americano, Richard Gardner, e mai riconosciuto dalla scienza.  “Ora è sereno”, aggiunge il padre. Difficile credere che possa esserlo, tolto alla madre e ospitato in comunità, e dopo quello che gli è capitato, un trauma che può fare ammalare davvero.

Può essere che quella madre abbia sbagliato, che non abbia agevolato i rapporti tra il piccolo Leonardo e suo padre, che addirittura li abbia ostacolati e impediti. Se così è stato, l’errore è grave. Severissimo, certo, è il recente disposto della Corte di Appello di Venezia, che toglie il bambino alla madre. Inaccettabile il comportamento delle Forze dell’Ordine, che ha trascinato via quel bimbo contro la sua volontà, o meglio, come se non avesse volontà, come se i suoi sentimenti, il suo divincolarsi, la sua sofferenza non avessero alcun significato e contassero molto meno di quelli della madre, del padre e della volontà dei giudici. Una sofferenza tanto grande che con la sua forza d’urto ci ha raggiunto tutti, per via mediatica.

Ma anche quel padre, di fronte alla spada che si stava abbattendo sul ragazzo, forse non avrebbe dovuto comportarsi come la finta madre, che così si rivolge al Re “Non sia né mio né tuo: dividetelo in due!”. Forse come la vera madre avrebbe dovuto sentire “le sue viscere commosse per suo figlio” e percepire l’inessenzialità del suo diritto e forse della sua volontà di vendetta di fronte alla sofferenza di colui che dovrebbe essere il suo primo oggetto d’amore. Se davvero quel padre crede che sia il bene di quel figlio essere tolto a sua madre -ed è sempre difficile crederlo- forse questo allontanamento si sarebbe dovuto realizzare con tutta la cura, la pazienza, la delicatezza necessarie, un piccolo sorso di sofferenza ogni giorno, senza ricorrere alla brutalità di una lama che recide in un solo colpo, lasciando intatta e non elaborata un’enorme mole di dolore.

 

Archivio Maggio 29, 2007

UN VECCHIO AMICO

Una notte qualcosa mi ha svegliata –un dolore al nervo sciatico, credo- e mi sono accorta che stavo pensando al mio amico Maurizio. Quando a giugno finiva la scuola avevo un motivo speciale per essere contenta, ed era lui. Un bambino robusto come un vitello, con una grande testa tonda. All’inizio dell’estate lo rapavano. Avevo il privilegio speciale di passare la mano sul suo cranio vellutato, e gli dicevo che era come un castoro. Vestiva magliette a righe e pantaloncini blu. Quando finiva di giocare a pallone guance e orecchie erano paonazze, ed emanava un buon odore acidulo, come di lievito fresco.
La nostra amicizia è durata una vita, dagli otto anni ai dodici, ed è finita di colpo. Non so cosa facessimo di preciso tutto il giorno, ma eravamo sempre insieme. Lui parlava poco e pensosamente. Una volta mi disse che suo padre era morto, e me lo disse con rabbia contenuta e senza lacrime, come chi attende virilmente un’occasione per vendicarsi.
Maurizio era un bambino povero, e dopo che morì suo padre lo fu anche di più. Viveva in due stanze di ringhiera, odorose di bucato e minestrone. Sua nonna era alta, con un gran vocione, ogni tanto lo sculacciava e lui piangeva senza un lamento. Lo lavava in un mastello di ferro, ma a questo non potei mai assistere. Sua mamma gli somigliava, ma non c’era mai. Lavorava, e nessuno a quel tempo pensava che per una donna fosse una fortuna.
La nostra fu un’edenica felicità, senza vergogna. Solo verso la fine, un giorno, sotto il tavolo della sua cucina, un tale Roberto o Alberto con pungenti occhi azzurri venne a disturbarla, insinuando un veleno che non conoscevamo. Per la prima volta Maurizio non fu dalla mia parte, e mi fece sentire il suo sprezzo misto a desiderio. Ero una femmina. Si capiva che gli dispiaceva, ma a quanto pare non c’era scelta.
Maurizio non fece mai caso alla mia sessualità. Un giorno, con brusca dolcezza, mi fornì alcuni rudimenti. Con fraterna pazienza cercò di spiegarmi che non tutti i maschi si sarebbero comportati come lui. Mi disse anche qualcosa sul profumo delle donne, non ricordo cosa, ma doveva essere un poema. Poi di colpo mi spuntò un gran seno, e lui sparì.
Mi è capitato qualche volta di incontrarlo per strada, molti anni dopo. Era diventato un omone maestoso e faceva, credo, il panettiere. Fingeva di non vedermi, e io non lo disturbavo. Non lo farei nemmeno ora, se non fosse venuto a svegliarmi. Per annunciarmi, insieme alla sciatica, che un ciclo sta per finire, così come tanto tempo fa mi annunciò il suo inizio. E che forse si può finalmente ricominciare a giocare.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)