Con un nodo alla gola leggo oggi sul Corriere (e su 27 ora) il racconto che alcuni uomini violenti fanno su se stessi. Mi era già capitato di ascoltare narrazioni di violenti e sex-offender, sono anni e anni che mi interrogo su queste cose. Ma fa un altro effetto leggerle sul giornale che ti entra in casa da quando eri bambina. Vuole dire che qualcosa sta capitando.

Si vede che un passaggio di autocoscienza è avvenuto. Quegli uomini riconoscono come violenti i loro gesti, non si consentono scusanti tipo: io non sono violento, ma “lei mi esaspera”, “mi fa andare fuori di testa”. Vanno alla ricerca di spiegazioni su di sé per uscire di lì, per imparare a gestire l’inevitabile conflittualità  della relazione. Non considerano più un fatto naturale i loro schiaffi, i loro strattonamenti, le loro minacce, il loro stalking.

La gran parte degli uomini violenti è ferma su questa soglia. Molti, probabilmente, percepiscono che il gesto violento è sempre uno scacco nella relazione, una manifestazione di impotenza, e sanno che la loro storia prima o poi finirà a causa di questo. Anche in extremis: oggi ci sono anche tante ultrasettantenni che decidono di sottrarsi al loro compagno-aguzzino.

Ma mettono la testa nella sabbia e tirano avanti un altro po’: almeno finché lei saprà sopportare, finché non avrà accumulato energia sufficiente a sottrarsi al gioco malato. Alternano gesti violenti a clamorose galanterie riparatrici: è la cosiddetta “luna di miele”. Un ciclo che per le nostre madri e le nostre nonne era infinito, e per noi invece a un certo punto si interrompe.

Molti probabilmente sarebbero finalmente disponibili a scartare, a non ripetere gli stop-and-go di sempre, a raccontarsi in un altro modo quella storia che si ripete sempre uguale -la narrazione è un momento imprescindibile-. A dirsi: quell’uomo violento di cui sto leggendo sul Corriere di oggi sono IO. Mi riconosco. Ma se volessero fare qualcosa, come potrebbero? Da soli non si può. Dove andare? con chi parlare? Difficilissimo trovare gli interlocutori. Non c’è solo la grande resistenza maschile a “patologizzarsi” e “medicalizzarsi” (quasi tutti vedono in questo modo il ricorso alle terapie della parola). C’è anche l’indisponibilità a mostrarsi all’altro nella propria debolezza e vulnerabilità, dopo avere capito che si picchia per impotenza e per paura. Ma soprattutto mancano gli interlocutori.

L’ho già detto qui, e insisto: sarebbe necessario moltiplicare sul territorio e capillarizzare le possibilità di accoglienza, di contatto e di scambio. Forse la rete dei medici di famiglia potrebbe essere sensibilizzata e formata per una primissima risposta di orientamento. Ma non credo che basti. Non sono un uomo, ma mi pare che la possibilità vera stia soprattutto nella relazione, in un fra-uomini a cui si devono dare occasioni. In una relazione non istituzionalizzata, quindi già definita nella sua disparità, ma in una relazione vera, in cui ciascuno rischia e si mette in gioco.

La cosa più vicina che mi viene in mente è la verità del rapporto tra il balbuziente Giorgio V e il suo “logopedista” (“Il discorso del re”): un non-re e un non-medico che “guariscono” insieme dai loro mali, dalle loro paure e dai loro scacchi, giocandosi interamente nella relazione che li lega.

Ci vorrebbe forse una cosa così?