La madre di mia madre era nata a Pittsburgh. “Pittsburgh, PA”, precisava con pignoleria amministrativa. Di quella prima infanzia americana le restavano vaghi ricordi, qualche parola misteriosa e un fratello battezzato Joseph, per noi zio Giosi. Da lì ogni Natale, in buste affrancate con strambi francobolli, le arrivavano foto in posa di famiglie sconosciute nel portico di certe casette bianche o intorno a maestosi abeti decorati, gli auguri per questo e per quello in una grafia tremula di nostalgia.

L’America per me è sempre stata anche un pezzetto di passato oltre a essere l’idea stessa di futuro, il posto da cui insieme alle perturbazioni atlantiche arriva il vento del nuovo e la segnaletica di ogni mainstream. Non sarei capace di pensarmi fuori da queste coordinate spazio-temporali. Non ho più tempo per resettarmi. Sono troppo vecchia per guardare a Est, ai nuovi padroni del mondo che, guarda caso, la prima cosa che si comprano con il loro cash è un’american way of life.

Ecco perché non posso non dirmi americana. Per sempre, comunque vada a finire la Storia. Anche se il decennio infausto aperto dalle Due Torri si chiude con l’uppercut delle Tre A.

Consisterà in questo l’Apocalisse in programma per il 2012? Nella fine di un mondo, nel collasso del paradigma economico e dei modelli di crescita illimitata di cui gli Stati Uniti sono sempre stati il faro? E come saranno il nuovo mondo, i nuovi modelli, il nuovo progresso?

Guardo all’America per capirlo. Ostinatamente. Per sapere ancora una volta di lì come vivremo, e dove andremo.