1975, manifestazione per la depenalizzazione dell’aborto

Il Comitato Nazionale per la Bioetica sta per rendere pubblico un documento sul tema dell’obiezione di coscienza in tutte le pratiche biomediche “sensibili”, dall’aborto alla fecondazione assistita alla vivisezione (nonché, in prospettiva, per questioni come eutanasia, testamento biologico e via dicendo).

Il documento, che è stato votato a maggioranza (un astenuto) afferma in sintesi che “l’obiezione di coscienza in bioetica è un diritto costituzionalmente fondato (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo), costituisce un’istituzione democratica, in quanto preserva il carattere problematico delle questioni inerenti alla tutela dei diritti fondamentali senza vincolarle in modo assoluto al potere delle maggioranze, e va esercitata in modo sostenibile”. Ovvero, fatto salvo il diritto di obiettare, lo Stato ha il dovere di mantenere “l’erogazione dei servizi, con attenzione a non discriminare né gli obiettori né i non obiettori”.

Ma nel caso della legge 194 sull’aborto, i due diritti –quello a obiettare e quello di vedere applicata la legge- sono entrati da tempo in rotta di collisione.

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2009 il 70,7 per cento dei ginecologi è obiettore e in costante aumento (nel 2005 era il 58,7 per cento). In crescita anche il numero degli anestesisti obiettori (51,7 per cento) e del personale non medico (44,4 per cento). Al Sud la quasi totalità dei ginecologi è obiettore, con punte del 85,2 per cento in Basilicata, e in alcune realtà l’interruzione di gravidanza non è praticata tout court.

Anche a me pare che esista un diritto all’obiezione e che vada salvaguardato, tenendo tuttavia presente che in quota significativa si obietta non per ragioni di coscienza ma di carriera. L’obiezione è un semplice atto amministrativo. Dovendo garantire il servizio, gli ospedali forse dovrebbero tenere conto, al momento dell’assunzione di personale medico e paramedico, di una dichiarata disponibilità a praticare interruzioni di gravidanza, stabilendo una quota minima di non obiettori. Ma un* può sempre cambiare idea e obiettare “in corso d’opera”.

Suggerisce Giorgio Gottardi, ginecologo milanese, attivo sul fronte della 194 fin dagli anni Settanta: “Se si stabilisse un meccanismo incentivante e premiale per quei pochi che, devo dire, con un certo eroismo continuano a garantire l’applicazione della 194 –un vantaggio economico, o di carriera– gli obiettori per opportunismo diminuirebbero significativamente”.

Ma forse la soluzione vera, conviene anche Gottardi, consisterebbe nella depenalizzazione dell’aborto. Nel lungo percorso che portò all’approvazione della legge 194 nel 1978 si contrapposero due posizioni: aborto “gratuito e assistito” e (minoritaria, sostenuta soprattutto dai Radicali) depenalizzazione del reato di aborto, ovvero la possibilità di abortire –e di praticare aborti- senza essere perseguiti legalmente. Passò la prima ipotesi, e oggi l’aborto è ancora reato se praticato fuori dalla struttura pubblica.

Si potrebbe congegnare un meccanismo che, fatta salva la possibilità di abortire in ospedale, consenta alla donna di scegliere anche la strada “privata” (con tutte le garanzie a tutela della sua salute). Non più un aut-aut, insomma, ma un et-et. Soluzione che alleggerirebbe enormemente l’impegno della sanità pubblica, e soprattutto sanerebbe la piaga dell’aborto clandestino, a cui oggi, con una legge sostanzialmente disapplicata, sempre più spesso le donne sono costrette a ricorrere.

Il dibattito potrebbe essere riaperto con una class action contro le unità sanitarie che attentano alla salute delle donne non erogando un servizio previsto dalla legge e costringendole alla clandestinità, con tutti i rischi connessi.

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