La ragazza è tondetta, in slip e reggiseno, e si guarda il sedere allo specchio, sovrapponendovi l’immagine di due glutei più piccoli e più sodi, con culotte di pizzo come si deve. Claim: “Pretendi di più”. E’ il manifesto pubblicitario della palestra GetFit. Sul corpo delle donne si è visto ben di peggio. Ma stavolta scatta qualcosa.
Qualcuno disegna un fumetto: “Voglio fare la velina”, e poi, sul seno della ragazza: “Grazie Presidente”. Un’altra mano scrive: “Sì, pretendiamo di più. Di riprenderci il nostro corpo: femminile, maschile, ma non commerciale. Che la “creatività” dei pubblicitari abbandoni queste banalità. Che nessuno si lamenti se imbratto con il pennarello qualcosa che imbratta la nostra dignità”. Seguono spontanee decine di firme: Tiziana, Beatrice, Claudia, Elena, Alice; ma anche, novità assoluta, Marco, Davide, Matteo.
Parte anche un dibattito online: complesse analisi del messaggio pubblicitario, ma anche proteste schiette: “Fa schifo. Ma proprio schifo, dico”. “Il vero messaggio è questo: tu grassa non meriti niente di più che una pubblicità demenziale”. “Se le mettevano un burqa in testa e nello specchio si vedeva la faccia pigliavano due piccioni con una fava”. “E’ troppo offensivo, perché la ragazza è pietosa, mostra una scena che non auguro a nessuno di vivere ma tante vivono”.
Di colpo, la misura è colma. Ragazze e ragazzi che passano di lì, e dicono con semplicità che il corpo è loro. Sembra nulla, ma si tratta di biopolitica. In Italia le ultime proteste contro l’abuso dell’immagine del corpo femminile risalgono a metà anni Settanta. Ma lì era contro la pornografia. Qui è diverso. Qui non è in questione la nudità della ragazza, ma la dittatura della forma fisica. E’ la ribellione contro l’immagine al centro dell’identità. Contro gli scheletri che si continuano a vedere in passerella. E’ un sussulto di dignità contro le indegnità e i mercimoni che hanno infangato la politica nel nostro paese. E accanto alle ragazze, per la prima volta, ci sono anche i ragazzi: ci vorrebbe la penna di Michel Foucault, per raccontare questa storia.
Qui c’è una generazione che smette di essere acquiescente e fa sentire la sua voce. Ricominciando dal corpo. E spesso quello che conta ricomincia di lì. Roba da far tremare i polsi a tutti i nostri vecchioni, e alle loro compiacenti Susanne.
(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 17 ottobre 2009)