La storia si potrebbe scrivere in automatico: lui gentile, perbene, per i vicini delle villette accanto niente da dire, per i colleghi tutto ok, per sua madre “si volevano bene”. Così educato da scusarsi con gli amici per essersi autoinvitato a vedere la partita, un minuto dopo aver sgozzato tutti quanti. Nessun segno di squilibrio. Sulla sua pagina Fb la torta “per la mia piccola stellina che compie 4 anni”.

Un‘infelicità sorda e muta. Dover vivere una vita che non era la sua. A quanto pare ci aveva provato a una settimana dalla data delle nozze: non se la sentiva più di infilarsi in quella che nella confessione agli inquirenti ha definito “una gabbia”. Aveva tentato di scendere in corsa, alla fine non ce l’aveva fatta. Normale anche questo, il panico pre-nuziale, capita a tanti. Poi le cose si sistemano.

Sembrava che si fossero sistemate, almeno. Finchè l’invaghimento per una collega, film tutto e solo suo, non aveva fatto saltare il tappo. La collega che non ci pensava proprio, ma la cosa tutto sommato era irrilevante. Lui aveva risentito l’odore della vita “vera”, l’infelicità si era rifatta violenta e insostenibile, il desiderio di fuga incontenibile, la moglie come una carceriera, i figli come le catene di cui lei si serviva.

Normale, normalissimo a un certo punto della vita: di solito gli uomini se la cavano con un giro extra, o anche un paio. Poi in genere si fanno riacchiappare per la collottola e rientrano nei ranghi. O qualche volta chiudono con la vita di prima e ne cominciano un’altra. Ma a dire “basta” di solito sono le donne, non loro.

Un uomo troppo educato e represso, che si sposa controvoglia, fa il padre controvoglia, vive una vita controvoglia. Che riesce a restare in surplace finché il vento violentissimo di una nuova passione non lo fa vacillare. Un uomo eterodiretto, che non sa fare i conti con i propri desideri, che non sa gestirli trovando le mediazioni.

“Non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie si separarci”, ha detto agli inquirenti. E poi “con il divorzio i figli restano”.

Infantilmente, o niente di niente, o tutto. E il tutto richiede di fare tabula rasa, il reset completo, l’annientamento, l’annichilimento di ogni sentire: la pietà, almeno quella, per la moglie; la tenerezza, almeno quella, per i propri figli; l’orrore, almeno quello, per quanto si è fatto, mentre si esulta per il gol del Balo.

Carlo Lissi, osserva lo psichiatra Vittorino Andreoli, non è un pazzo. Quasi mai lo sono, anche se tutti, e in particolare tutte, vorremmo che quanto meno lo fossero. Vorremmo quanto meno ragioni lampanti, scenari solenni, radici profonde per il male. Ma il male, come sempre, è tanto banale.

Come quasi tutti quelli che ammazzano le mogli e spesso anche i figli, Lissi è un uomo incapace di gestire i suoi sentimenti, di darsi una misura, la parte razionale totalmente sconnessa da quella emotiva.

Carlo Lissi è il terzo figlio, l’unico rimasto al mondo. Come quasi tutti gli uomini che ammazzano le loro compagne, è come un neonato di 80 kg, travolto dalla “sarabanda infernale”: così lo psicoanalista Donald Winnicott definì il corpo-a-corpo tra la madre onnipotente e il piccolo inerme tra le sue braccia. Quei piccoli incapaci di tutto che la madre la ucciderebbero, quando se ne sentono minacciati.

Uomini che da questa scena madre non escono mai: i neonati impazziti di paura non chiedono il divorzio.

E’ lì, su questa scena madre che dobbiamo puntare lo sguardo per capirci qualcosa.

 

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