Vero. Facciamo pochi figli. Siamo il Paese più vecchio d’Europa, e tra i più vecchi del mondo: 1,37 figli per donna, partoriti in media a 31.4 anni. Diminuisce la fecondità anche delle migranti. Una donna su 4 giunge al termine dell’età fertile senza avere mai partorito, contro una su 10 in Francia.
La denatalità è -anche- un problema sociale e non solo dei singoli: avrà costi previdenziali, comporterà un aumento delle spese sanitarie, costerà anche dal punto di vista della capacità di innovazione della nostra società. Se nascono più bambini è meglio per tutti.

Ma la campagna ideata dalla ministra Beatrice Lorenzin per il cosiddetto Fertility Day appare insultante e in malafede, e sembra voler ricondurre la denatalità all’egoismo dei singoli, e soprattutto delle singole che non fanno figli o rinviano sine die per spassarsela il più a lungo possibile. 

Giusto voler informare le donne e gli uomini sul fatto che la fecondità ha un suo tempo e che l’infertilità si può prevenire. Ma la nostra denatalità non può essere certo ricondotta a una semplice mancanza di informazioni.

Anziché dalle statistiche parto dalla vita reale e di parlare, se così si può dire, di sterilizzazione forzata delle donne.
Perché non si generino equivoci, non si tratta affatto di dare figli alla Patria, ma di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di autodeterminarsi secondo il loro desiderio e di regolare liberamente la loro fecondità.

Il dribbling a cui siamo costrette quando vogliamo un figlio lo conosciamo tutte. Per poi magari rivolgersi in extremis alla fecondazione assistita.
Dover “congelare” la propria fecondità, consentire che venga etero-regolata è una violenza inaccettabile.
Congelare in senso proprio, non solo figurato: c’è un aumento straordinario di richieste di Social Freezing, donne che richiedono il congelamento degli ovociti per conservare la loro fertilità nel tempo.

Che cosa ostacola la libera scelta di avere figli?

La mancanza di lavoro: se le donne stanno a casa non fanno più figli, ma meno figli. E’ un doppio no. L’idea tenace nell’immaginario maschile è che il lavoro femminile sia accessorio e che donna, madre e lavoratrice siano identità non stanno insieme, quando invece tutti gli indicatori parlano di un rapporto proporzionalmente diretto tra accesso femminile al lavoro, natalità e benessere generale.
Le percentuali di natalità più basse d’Europa vanno in tandem con i tassi di inoccupazione: meno della metà delle donne italiane lavora con grosse differenze tra Nord, dove siamo nelle medie europee, e il 30 per cento del Sud, probabilmente con molto lavoro sommerso.
Tutte le ricerche mostrano che la partecipazione delle donne al lavoro produttivo genera anche lavoro riproduttivo, e che quando le donne lavorano si sperimenta un maggior benessere sociale ed economico per tutti.
Il concetto tenace di capofamiglia breadwinner è generatore di povertà e anche di denatalità.

Per le donne occupate un figlio comporta il rischio di perdere il lavoro o l’uscita dal lavoro: la quota delle donne fuori dopo la nascita di un figlio è aumentata dal 18.4 del 2005 al 22.3 del 2012.

L’83 per cento dei manager, secondo una ricerca di ManagerItalia, è convinto che la maternità di una lavoratrice sia un problema, anche se l’incidenza della maternità sui costi del personale è pari allo 0.23 per cento, quindi assolutamente irrisoria.
Non solo il non accesso al lavoro, ma anche l’instabilità del lavoro incide sulla fecondità: come spiega Chiara Saraceno, “nel 2013 aveva già un figlio il 34.1 per cento delle donne con un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23.8 per cento di chi ne aveva uno a tempo determinato”.
La condizione di precarietà comporta anche un prezzo in termini di salute e fa aumentare la spesa sociale.

C’è inoltre il tema rilevantissimo dell’organizzazione del lavoro.
Le donne sono quelle che si intendono di lavoro più di tutti, perché sono loro da sempre a erogare il maggior numero di ore lavoro nel mondo. Ma entrando nel mondo del lavoro produttivo retribuito hanno dovuto piegarsi a un’organizzazione del lavoro concepita sul corpo maschile così come è pensato dal patriarcato. Un modo di organizzare il lavoro che non soddisfa più anche un numero crescente di uomini.

E’ quindi necessaria di una dis-organizzazione del lavoro, che consenta un maggiore controllo del proprio tempo e spazio. Ovvero di una flessibilità worker-friendly: oltre che di part time, telelavoro, tempi elastici, coworking e così via.

Secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart Working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori, e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno.
Il lavoro agile avrebbe anche l’effetto virtuoso di ripopolare i quartieri dormitorio, di migliorare le relazioni sociali. Con più lavoro agile nascerebbero anche più bambini.

Questa dis-organizzazione del lavoro non è un bisogno esclusivo delle donne, ma è condiviso da un numero crescente di uomini.
Si valuta che lo smart working potrebbe essere applicato a circa il 40 per cento di tutte le mansioni, mentre oggi siamo all’1 per cento. L’ostacolo è prevalentemente culturale: l’incapacità di rinunciare a un’organizzazione militare e gerarchica delle aziende, per necessità psicologiche dei vertici che pesano più di ogni razionalità anche produttiva.
Sempre sul lavoro: le donne hanno reagito a un mercato sfavorevole mettendo al mondo imprese autonome. Ne sono nate 10 mila in un solo anno: insieme ai giovani e ai migranti sono i soggetti più vitali sul fronte imprenditoriale.
Imprese che vanno sostenute e valorizzate, anche con migliori meccanismi di accesso al credito. Benché le donne siano ottime pagatrici, c’è una questione maschile anche nelle banche, ci si fida poco di loro. Quindi, oltre a incubatori e accompagnatori d’impresa, nella fase di start up e follow up, servono fondi di garanzia, contributi di abbattimento degli interessi e stipula di convenzioni, come per esempio propone il recente progetto di legge di parità dell’Emilia.

Un altro importante fattore che sfavorisce la natalità è la mancanza welfare: le donne nel nostro Paese sono welfare vivente, ammortizzatori sociali. Il comparto sociale del welfare assorbe nel nostro Paese una quota di spesa inferiore alla media europea. Le donne sono chiamate a supplire la differenza.
Molti dei problemi del nostro Paese derivano infatti dal fatto di continuare a tenere ai margini dello spazio pubblico la relazione di cura, confinandole nel cosiddetto privato.

Oggi la necessità di cura è cresciuta in modo esponenziale, è a pieno titolo un problema economico e politico centrale.
Si tratta di una domanda destinata a crescere ancora in relazione all’allungamento della vita media, alla diminuzione delle nascite e all’invecchiamento della popolazione, all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro produttivo. Ma il rischio è che cresca in nero, nel sommerso.
Nel cosiddetto modello mediterraneo (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia), gli stati delegano moltissimo alle donne. In questi Paesi l’occupazione femminile non cresce e la natalità nemmeno. Si crea cioè una paralisi di sistema. Si dovrebbe ragionare su quanto questi modelli di welfare contribuiscono al rischio default in questi Paesi.
L’allungamento della vita media, con relativo aumento di malattie degenerative e della non autosufficienza, comporta che al carico si aggiunga sempre più la gestione degli anziani, che peraltro restituiscono finché sono validi: in Italia i nonni coinvolti nella cura dei nipoti sono il 54 per cento, in Francia il 4 per cento.
Ma da soli in famiglia non ce la si fa. E infatti due milioni e 600 mila famiglie devono ricorrere a un aiuto domestico o di cura, per almeno la metà in nero, e con una spesa che incide in media per il 30 per cento sul reddito familiare: c’è gente che si indebita per sostenerla.
In un work-paper di qualche anno fa la Banca d’Italia ha definito il nostro sistema del colf-badantato come iniquo e insostenibile.

Vediamo come vanno le cose altrove.
In Germania gli investimenti sul welfare sono cospicui e destinati alla famiglia, eppure paradossalmente la natalità non cresce.
Nel modello francese, che persegue invece il benessere della persona, la natalità ha fatto un balzo.
Di più: in Germania siamo addirittura all’esportazione disumana degli anziani poveri e alla delocalizzazione della cura verso Paesi, come la Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca, in cui la loro gestione costa meno. Quindi destinare gli investimenti alla famiglia non fa il bene delle famiglie.

La verità è che quando si investe sulla famiglia, la donna non viene liberata dal più del lavoro di cura, e quindi non lavora fuori casa, e quindi non fa più figli, mentre l’investimento sulla persona dà ben altri frutti.

E infatti il modello francese dei servizi alla persona ha prodotto un aumento di natalità fino al 2 per cento, ed è stato definito dall’UE il modello d’eccellenza a cui fare riferimento.
Si tratta di una vera e propria riconcettualizzazione della questione, che ha permesso di convertire in vantaggio economico il costo a carico dello Stato.
Il lavoro di cura diventa cioè un bene economico e non un peso economico.

La competenza in Francia è affidata allo Stato centrale: quindi sono stati unificati in un unico ente i centri di spesa per i servizi sociali, con miglioramento organizzativo e riduzione dei costi oltre il 50 per cento.
Da noi invece la competenza è di INPS, Regioni e Comuni: il titolo V ha poi fortemente frammentato la realtà italiana creando grandi disuguaglianze tra le regioni e anche infra-regionali.
Inoltre in Francia la gestione di sanità e servizi sociali è stata scorporata.

L’altro passo è stata la definizione i diritti universali della persona e l’uguaglianza di servizi. Si è provveduto alla loro copertura economica con misure fiscali da cui traggono beneficio tutti gli attori in campo, in una logica win-win.

Si produce infatti un beneficio per lo Stato che con l’emersione del 70 per cento del nero gode di maggiori introiti fiscali e previdenziali;
c’è un beneficio per il mercato, con la creazione di occupazione, +500 mila posti di lavoro e 2 mila nuove imprese di servizi in 3 anni;
c’è un beneficio per i lavoratori che hanno maggiori tutele;
c’è un beneficio per i cittadini perché hanno la garanzia di servizi essenziali.

Nel modello francese i progetti a sostegno della persona sono individuali ed erogati sulle sue effettive necessità e non “a pioggia”, il che porta a un’ulteriore riduzione dei costi.
Anche le donne che non lavorano fuori casa hanno tutele e contributi a sostegno della maternità, intesa come valore sociale e non lusso privato.

Per le famiglie esiste un credito d’imposta, cioè una riduzione delle imposte nei limiti di un plafond annuale di 12.000 euro per la coppia (13.500 per famiglie con un minore a carico, 15.000 con più minori, 20.000 per persone non autosufficienti).
Sotto di una soglia di reddito fisso (€ 670 mensili circa), i destinatari non contribuiscono al finanziamento del pacchetto di cure. Per tutti gli altri è stato introdotto un “ticket modérateur”, calcolato sulla base del reddito del beneficiario + quello del coniuge o convivente. Se il reddito mensile è compreso tra € 670 e € 2.750 la partecipazione alla spesa è calcolata in una forma progressiva. Quando il reddito mensile è superiore a 2.750€ si deve versare un contributo pari al 90%.
Per le imprese che offrono benefits ai dipendenti c’è un credito d’imposta sugli utili pari al 25% degli aiuti versati (entro un limite annuale di 500.000 euro).
Il modello francese andrebbe ovviamente rimodulato sulla peculiarità della nostra struttura produttiva che vede una prevalenza delle pmi.

Lo strumento più significativo di questo sistema è il cheque emploi service universel (CESU), assegni nominali che i cittadini ritirano presso istituti di credito autorizzati.
Il Cesu è finanziato da una pluralità di attori (imprese, casse mutue o previdenziali, organismi sociali, collettività territoriali).
Il sistema è premiante a crescere, con benefici che aumentano progressivamente.
Un’altra caratteristica del sistema francese è quella di garantire la massima libertà di scelta delle persone nell’ambito di una pluralità di servizi offerti dal mercato.
Questo è molto importante anche per noi, perché il lavoro flessibile e intermittente rende molto flessibile e variegata anche la richiesta di servizi.

I cittadini francesi come spendono il loro cheque?
O assumendo direttamente il lavoratore, o ricorrendo a un’agenzia accreditata che svolgerà la funzione di datore di lavoro, o rivolgendosi a strutture d’intermediazione che si occupano della selezione e della gestione amministrativa del lavoratore.

I servizi alla persona, con più di 2 milioni di addetti, costituiscono il settore dell’economia francese che ha conosciuto la crescita maggiore negli ultimi 15 anni.
L’Ue europea ha valutato che la riorganizzazione e la valorizzazione del settore dei servizi alla persona potrebbero creare 7 milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro.

Anche da noi questo settore è in fortissima crescita, ma l’aumento della domanda e la maggiore difficoltà delle famiglie stanno comportando un aumento del lavoro nero, nonostante le pesanti sanzioni previste dalla legge.

Oggi all’interno delle famiglie italiane vengono erogate prevalentemente dalle donne 3 miliardi di ore annue di lavoro di cura gratuito.
Metterne una parte sul mercato risulterebbe un vantaggio economico e sociale per tutti.

Emersione dal nero significa anche maggiori garanzie sulla qualità dei servizi.

I servizi alla persona calibrati sulle necessità terrebbero conto anche di una vocazione molto italiana a non ricoverare i propri familiari bisognosi di cure, caratteristica di cui si deve tenere conto:
solo il 7 per cento degli italiani ricovererebbe il proprio anziano genitore, i più auspicano un’assistenza domiciliare adeguata.
Un’offerta flessibile e personalizzata verrebbe incontro a questi desideri.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma fermiamoci qui.

La campagna lanciata dalla ministra Lorenzin è profondamente sbagliata. La denatalità è una faccenda seria, e va affrontata con argomenti seri.

 

 

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