Un gelido e festoso sabato sera a Napoli, il fitto passeggio di via Chiaia. Un bel giovane bruno, alto e distinto, cammina con la bionda fidanzata al fianco. Discutono, e all improvviso lui le sferra un calcio. Secco, come un cavallo imbizzarrito. Due schiaffi erano meglio , è il mio primo istintivo pensiero. Avrei immaginato che lì correva gelosia, passione, qualcosa di umano e rovente. Ma quel calcio è stato purissimo disprezzo. La ragazza continua a passeggiargli al fianco. Non se n è andata, non si è rivoltata.
Scendendo a passo svelto verso piazza dei Martiri, mi giro verso l uomo. Pianto i miei occhi nei suoi per almeno un minuto, senza distoglierli. Lui ricambia intensamente il mio sguardo. Mi preparo al peggio. Ma non c è sfida. Una torva amarezza, forse, come in un figlio che ha deluso la madre.
La ragazza non mi vede. Io sono il terzo, anzi la terza, che ha fatto irruzione nella dinamica malata. E il malato chi è? Lei, che non se ne va? O lui, con tutto il suo sprezzo? E quand è che si disprezza? Quando si vuole una cosa, mi dico, ma non si ha di che pagarla. Lui si sente povero povero d amore, di risorse interiori, povero di se stesso- e lei abbastanza ricca da poter reggere tutto questo. Sbagliano tutti e due: lui deve arricchirsi, far fruttare ciò che ha, fortificarsi, perché è assai debole. E lei deve chiedere aiuto, o il disprezzo finirà per ferirla a morte.
E capitato a Napoli, ma succede anche a Stoccolma, nel chiuso delle case. Anche lì ci sono uomini che vattono le donne. Però a Napoli si vede, capita ancora en plein air. Meglio così, tutto sommato. Perché la questione la debolezza degli uomini, il dolore delle donne- è pubblica. E in piazza va risolta. Anche con un rusticano duello di sguardi.
(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera”)

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