il bellissimo abbraccio tra giuliano pisapia e stefano boeri

Sono nella bolgia festante e arancione dell’Elfo Puccini, mio marito sta rientrando da Roma sulla Freccia Rossa e mi manda questo sms: “Incredibile, nella carrozza ristorante del treno si sta brindando tra estranei alla sconfitta della Moratti. Un’atmosfera da liberazione. Baci“. Mio marito è un uomo di un certo rigore -pure troppo- e non si fa prendere da facili entusiasmi. “Non ti dico qui”, gli rispondo. Nel frattempo mi arrivano felicitazioni dal mondo, da Marsiglia -una che si è presa uno champagnino e brinda da sola al porto-, da Boston: Miracolo a Milano. Non dico che il mondo ci guardi, ma un’occhiatina ce la dà.

La folla del Puccini canta “Bella ciao”, e per una volta non mi pare retorico ed eccessivo -ho in orrore la retorica-. Stamattina leggo sul Corriere Piero Bassetti che richiama la liberazione dal fascismo, anche stavolta è stato un ventennio, e mi dico definitivamente che il senso  è questo, che è uno di quei momenti in cui il corso delle cose prende quella forza, quella chiarezza e quell’accelerazione che di solito chiamiamo Storia. La Storia, questa notte, erano soprattutto quegli automobilisti che passavano per corso Buenos Aires, vedevano la folla davanti al teatro e strombazzavano festanti, nei giovani baristi che uscivano dal locale per venirti a dire: “Era ora, non ne potevamo più“. Lì capivi che tutta questa gente soffriva in silenzio, irretita dalla sfiducia, piegata dalla rassegnazione, e ora stava dicendo grazie a chi aveva trovato la forza di reagire e di scuotersi, a cominciare dai generosi candidati alle primarie fino al più piccolo militante di questi mesi di supermobilitazione. Abbiamo fatto bene a darci dentro, lo abbiamo fatto anche per loro, soprattutto per loro: a certi nella vita tocca un surplus di energie e si stratta di spenderle anche per chi non ne ha. Abbiamo intercettato il desiderio di cambiare, il bisogno -in noi stessi, e in tutti gli altri- e abbiamo cercato disperatamente di rispondere.

Treni, macchine, impiegati con la ventiquattr’ore sul sedile che schiacciavano sul clacson e si allentavano il nodo della cravatta, motociclisti che sfrecciavano con il braccio teso nel saluto, e giovani baristi con i loro grembiuloni che mollavano la macchina del caffé per venire a ringraziarti: è stato soprattutto questo a commuoverci e a ripagarci di tanta fatica, di tanta tensione, dei molti momenti di conflitto e di sfiducia. Gente che non l’avresti detto mai, che tu ti dicevi “Ma com’è che sopportano tutto?”, compresa l‘arroganza di una sindaca padrona che si fa i suoi giretti sussiegosi di fine mandato nelle bocciofile e nelle periferie come una che va a fare frettolosamente visita alla cameriera. E invece erano solo ammutoliti, e avevano bisogno che tu gli dessi le parole che da soli non riuscivano a trovare. Abbiamo cercato di dargliele, queste parole, e il lavoro è appena cominciato.

Per questo stamattina non ho voglia di parlare del Terzo Polo, dei voti grillini, eccetera -datemi un paio d’ore e mi verrà- e voglio restare ancora per un attimo nell’incanto di questa gratitudine, di questa città sballata e festante come quella della mia infanzia, quando i treni facevano ancora sognare, tutto splendeva come nuovo e nessuno aveva mai voglia di andare a dormire perché c’era da “fare su” il mondo e da divertirsi insieme. L’ho rivista, non si vedeva da così tanto, sono cadute tutte le maschere che malcelavano dolore e solitudini, è la Milano autentica, vitale, generosa, democratica nel midollo, meticcia -come me- e mi fa commuove tanto.

Voglio solo dire grazie, per adesso. E basta.

fuori dal teatro puccini, ieri sera



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