Milano non è la borghesia alla prima della Scala. Milano è il lavoro sui migranti, migliaia di giovani felici di viverci, una città rinata grazie al buon governo di centrosinistra. Che dovrebbe estendersi a tutto il Paese
Dicte e il racket dell’utero in affitto: nuova serie tv in onda su FoxCrime
Dicte” è una serie TV danese, liberamente ispirata al romanzo “Il danno” di Elsebeth Egholm . Protagonista una reporter che, tra le molte imprese criminali, si imbatte anche nel racket dell’utero in affitto. In onda su Fox Crime
La prima cosa da dire della neo-Miss Italia è che è veramente bellissima. La seconda: affermando che le sarebbe piaciuto vivere “nel 1942” per vedere dal vero com’era la guerra, la ragazza Alice Sabatini ha detto una grandiosa cretinata.
Del resto, la domanda (“in quali tempi vi sarebbe piaciuto vivere?”) era formidabilmente idiota, e idiozia chiama idiozia. Una non si inguaia a dire “nella Firenze Medicea”, o “durante le 5 giornate di Milano”. Era in palla per l’emozione, ormai era chiaro che la corona di Miss sarebbe stata sua. Le è venuto 1942, ha sparato una cavolata a caso, poi si è incartata con la guerra, ha 18 anni e le pigne nel cervello. Sembra una donna fatta, con quel fisico bestiale da cestista, ma è solo una ragazzina.
A 18 anni ero una ragazza studiosa ma anch’io avevo le mie pigne nel cervello. Di cretinate ne ho dette e fatte tante. Se poi si tiene conto che, con una vita media sulla quarantina, un tempo le 18enni potevano già essere madri o regine, e i 18 anni di oggi sono grossomodo i 14 della mia generazione, si capisce che il rischio-cretinate è piuttosto alto.
Tutto abbastanza nella norma.
Nella norma, purtroppo, anche il fatto che se una splendida figliola che accende il desiderio negli uomini e l’emulazione invidiosa nelle donne inciampa goffamente, offre una magnifica occasione alla misoginia. Alla ragazza è stato detto di tutto, dal semplice “oca” al solito trucido “puttana”. I social si sono riempiti di insulti. Una rabbia smodata, che si giustifica solo con un odio appena sotto traccia in cerca di pretesti per manifestarsi. Sentimento alimentato da una paura atavica: non, s’intende, della bambina scemetta, ma di quel trionfante corpo di donna e della potenza che rappresenta. Una magnifica preda sacrificale.
La ragazza Miss, che evidentemente scema non è, lo ha oscuramente intuito: “Penso che mi avrebbero insultata anche se avessi risposto diversamente”.
La misoginia è anche femminile, e sono state molte le donne che hanno partecipato al linciaggio simbolico: niente di strano anche in questo. Patricia Highsmith ci ha scritto deliziosi racconti, e c’erano tante donne nella folla che acclamava i roghi delle streghe.
Direi che questa storia pleistocenica è un’ottima occasione per interrogarsi sugli archetipi, tenendo conto del fatto che, come diceva Freud, nel nostro inconscio passeggiano i dinosauri.
Ormai posso dirlo senza spoilerare: mollando quel mostro del marito Francis giusto nel pieno della sua campagna per la rielezione alla Presidenza Usa, Claire Underwood è stata tutte noi. “Ti lascio” ( “I’m not going to New Hampshire. I’m leaving you”). Il terrore di lui: senza Claire è politicamente e umanamente dimezzato. Lo charme overcontrolled di lei che esce dalla Casa Bianca con valigia.
Il momentaccio è personale: Claire non può più nascondersi il fallimento del suo matrimonio, l’immoralità assoluta del marito, la sua sostanziale inconsistenza: “Sei tu che non sei abbastanza“. Ma soprattutto politico: accompagnando Mr President nella campagna in giro per gli States, la First Lady ha avuto modo di misurare il proprio appeal sugli elettori e il proprio potenziale. Ancora una volta, non sto spoilerando: non so niente della quarta stagione di “House of Cards”, in onda solo nel febbraio 2016. Ma le premesse per uno scambio di posizioni, Claire in prima linea e Frank “first husband” o suo addirittura suo competitor, ci sono tutte.
La questione spinge fin dall’era Clinton: che Mr President fosse Mrs President era quasi luogo comune. Hillary ambiziosissima ma realista: i tempi non erano maturi per una donna alla Casa Bianca, e se non posso andarci io, vacci tu. Lesson number one per le ambiziose: assicurarsi di non andare a sbattere, mai prestarsi a fare carne da macello. Ma la quarta stagione di “House of Cards” potrebbe fare da coro-fiction alla realtà della più alta sfida mai lanciata da una donna al potere temporale: una signora nella Stanza Ovale. Più di così solo il Soglio petrino. I tempi sono maturati (sportivamente Frank Underwood si è congratulato via Twitter con Hillary, precisando tuttavia che tanto vincerà lui).
I tempi sono maturissimi, come dimostra plasticamente l’immagine qui sopra, dibattito in tv in Gran Bretagna: spaesamento assoluto del laburista Ed Milliband di fronte all’inaspettato abbraccio che lo taglia fuori tra tre donne leader dell’opposizione, Natalie Bennett dei Verdi, Nicola Sturgeon del Snp, Leanne Wood del Plaid Cymru. Stesso sguardo del presidente Underwood mentre Claire lo molla.
E ce n’è anche per noi, amiche. La battaglia per un’equa rappresentanza (ci ho scritto un libro, me ne intendo) è stata vinta con il 50/50 della giunta di Milano -quasi tutto comincia politicamente a Milano- e quindi del governo nazionale. Fase 1 completata: anche se in moltissime situazioni siamo ancora all’anno zero e non ci si deve distrarre un attimo. La fase 2 è ben altro, e comporta una battaglia dentro-e-fuori, e quell’abbraccio la illustra benissimo.
Si tratta, in poche parole, di aspirare a governare le cose del mondo non nonostante che siamo donne, ma proprio per il fatto di esserlo. Di districare questa aspirazione dalle logiche del potere maschile e dai rapporti di forza. Di stabilire nuove priorità e quindi nuove agende politiche. Di liberarsi da ogni zelo e da ogni travestitismo. Di non cancellare, ma anzi di dare visibilità alla propria differenza in qualunque posizione di responsabilità, realizzandola pienamente in quelle posizioni, quando si desidera occuparle. Di condurre fino in fondo la critica alla rappresentanza. Di sperimentare e consolidare un nuovo linguaggio politico, nuovi strumenti, nuove figure, nuove forme e nuovi paradigmi. Di pensare all’autorità femminile come pratica di governo.
Ottima lettura propedeutica: “Sovrane” di Annarosa Buttarelli (Il Saggiatore). Qui potete vedere di che cosa si tratta.
A Piazza Pulita (uno tra i migliori talk: mai urlato, condotto sobriamente da Corrado Formigli) si parla di terrorismo islamico.
Tra gli ospiti Domenico Quirico della Stampa, rapito in Siria nel 2013: “Noi solitamente ci scegliamo i nemici” dice Quirico. “Stavolta è il contrario. Loro hanno dichiarato guerra a noi, e noi cerchiamo di non farla“.
Si sta commentando la straordinaria intervista di una giornalista di Piazza Pulita al siriano “Ibrahim”, guerrigliero di Isis. L’intervista è stata realizzata a Eindhoven, Olanda, raggiunta illegalmente dall’uomo attraverso la Turchia. Vale la pena di analizzarne con attenzione i passaggi e di provare a cogliere il sotto-testo: ci dicono molto di Isis, del fondamentalismo islamista, del jihad, del momento che stiamo attraversando.
“Ibrahim” parla con calma, in una postura rilassata. Nessun segno di “esaltazione”: sta esponendo convinzioni profonde e radicate.
“In Turchia” spiega “ho comprato documenti falsi. Ci sono decine di trafficanti di passaporti falsi tra la Turchia e la Grecia. E’ una mafia. Sono assolutamente convinto che il governo turco sia consapevole di quello che succede sotto i suoi occhi”.
Se Ibrahim stesse dicendo il vero, le ipotesi sono due. La prima, gravissima: il governo turco favorirebbe deliberatamente i movimenti degli jihadisti tra la Siria e l’Europa; la seconda: il governo turco chiude un occhio su attività illegali come la produzione e lo smercio di falsi passaporti. E’ bene ricordare del resto che anche Napoli è stata indicata tra le centrali di produzione e smistamento di documenti falsi.
Continua Ibrahim: “All’inizio della rivoluzione per noi siriani l’esercito libero era l’unica soluzione. L’unica speranza per liberarci da Assad e ritrovare la nostra libertà. Ma l’esercito libero non è stato all’altezza del compito che aveva. Molti di noi volevano uno stato dove si applicasse la legge islamica, loro volevano uno stato secolarizzato. Ci hanno deluso e ce ne siamo andati”. La sharia imposta urbi et orbi: è questo l’obiettivo dichiarato di Isis.
“Jihad è la nostra guerra santa, contro te stesso e contro tutti quelli che offendono la legge islamica. Semplicemente, jihad significa combattere i nemici dell’Islam, tutti coloro che stanno attaccando l’Islam. L’insegnamento del profeta è: prima di tutto cerca di convincere gli altri del tuo messaggio, ma se loro rifiutano e ti attaccano, attaccali a tua volta e sii implacabile”.
Il rifiuto della fede e della legge islamica, che per Isis sono un tutt’uno, viene letto come un gesto di aggressione. Chi non si converte è necessariamente un nemico, la sua non-conversione è un atto di guerra perché significa non credere al Profeta, e quindi offendere il Profeta (non servono le vignette, per questo). Per un laico è un passaggio quasi incomprensibile. Simmetricamente, il concetto di tolleranza appare incomprensibile agli jihadisti. C’è una sola verità, una sola fede possibile. Chi non vi aderisce sta dichiarando guerra a questa verità e a questa fede, quindi è un nemico che va “implacabilmente” eliminato.
A Raqqa, capitale di Isis, “lo stato islamico si occupa di loro –dei foreign fighters e di tutti quelli che hanno voluto aderire al progetto, ndr-. Lì c’è la vera giustizia sociale, ci sono scuole, ospedali, banche, centrali elettriche, e da poco hanno una moneta. E’ un cambio epocale. La cosa che devi capire è quanto la gente viva in pace”.
Chi crede e si sottomette alla sharia trova la pace, intesa non solo come non-guerra, ma come soddisfazione all’unisono dei bisogni materiali e spirituali. Islam significa “sottomissione, abbandono, consegna totale a Dio”, e quindi sicurezza e pace (salām: l’assonanza con Islam è evidente).
“I giornalisti occidentali sono stati decapitati perché è stato provato che erano spie. Gli yazidi adorano un diavolo, quindi per la legge del profeta non possiamo accettarlo”.
La persecuzione “obbligatoria” degli Yazidi, seguaci di un culto di probabile origine gnostica, è la dimostrazione plastica del fatto che dicevamo: prima ancora che inaccettabile, per i fondamentalisti religiosi l’idea di tolleranza è incomprensibile. La differenza di credo non solo non può essere ammessa, ma va attivamente combattuta (jihad) da ogni fedele. L’inammissibilità di una fede diversa e quella di tutte le altre differenze è il fondamento di ogni totalitarismo.
“Voi pensate che sia l’Isis a reclutare i ragazzi, ma vi sbagliate. Sono loro che ci cercano per andare nello stato islamico…. Odiano l’ipocrisia e il doppio gioco dell’Europa. Se insistete a offendere la nostra religione e a uccidere la nostra gente, in ognuno di noi può nascere odio e chiunque può fare qualsiasi cosa”.
Il “doppio gioco dell’Europa” va letto probabilmente come l’adesione dell’Europa al Patto Atlantico, il fatto di avere scelto gli americani aggressori e di aver preso parte alle loro guerre: risuona qui il vagheggiamento di un’Europa antiamericana (e antisionista) e amica dell’Islam. Molto impressionante quell’odio che può nascere “in ognuno di noi”: più che di una guerra senza un fronte territoriale riconoscibile, microfisica e “molecolare”, si potrebbe parlare di una guerra che impegna ogni singolo corpo, “pronto a morire”. Ciascuno è chiamato singolarmente a essere esso stesso “guerra” contro gli infedeli, arma umana autorizzata, già innescata e autosufficiente.
“E’ una crociata contro di noi, e noi dobbiamo difenderci…”: la guerra dunque è partita dagli infedeli, ed è in corso da molto tempo. E “finché il Vaticano non prende una posizione contro questa guerra, vuole dire che è complice”.
Qui si coglie un’ambiguità: la massima autorità cristiana viene in qualche modo riconosciuta, alle sue posizioni viene attribuito un valore. Forse, ancora, il vagheggiamento di un possibile dialogo con i cristiani. Confermato dal lungo silenzio di Ibrahim, quando la giornalista gli chiede se è possibile che l’Isis arrivi a Roma. L’uomo medita, come se non intendesse chiudere del tutto la porta. Non sceglie la minaccia definitiva di Abu Bakr al-Baghdadi, califfo dello Stato Islamico: “Se Iddio vorrà, conquisteremo Roma e il mondo intero“.
Cerca rifugia nel Corano: “Il profeta ha detto: arriveremo”.
Mi imbatto per caso dopo molto tempo nella domenica pomeriggio di Rai Uno (dovevo stirare: sottofondo perfetto). Un onesto Massimo Giletti con la sua Arena, quindi il solito gran circo con Paola Perego nel ruolo della dominatrix.
Ora: vero che il target della domenica pomeriggio è anziano, casalingo e di bocca assai buona. Ma è giusto, mi chiedo, che questa brava gente debba accontentarsi di così poco? Show sciatto, tutti seduti in cerchio, ogni tanto qualcuno si alza e fa una cantata. Facce a cui non sapresti dare un nome ma che da almeno una trentina d’anni non si schiodano di lì, più qualche new entry che per essere inquadrata un secondo in più ammazzerebbe il nonno. Paolo Limiti con la sua tinta arancio porta al solito una ricca aneddotica sullo showbitz, da Marilyn Monroe all’Eiar (quanto meno è un professionista robusto, sa rianimare la conversazione, è consapevole di stare in tv). Paola Perego non è certo una deb, ha i suoi anni anagrafici e di carriera, ma sembra scaraventata lì last minute a sostituire qualcun altro. Una mesta camiciola, nessuna energia, forse le piacerebbe condurre qualcosa di meno cheap, o magari non ha digerito, la voce è lagnosa, i tempi antitelevisivi, un’antipatica naturale, una palla mortale. Un astrologo triste e ignoto minaccia -leggendo i gobbi- i segni zodiacali a cui nel 2015 toccherà vedersela con Saturno (domanda: ma dove li vanno a prendere tutti quanti? risposta: non intendo essere querelata). A un certo punto ci cucchiamo pure la Cuccarini (no, svegliatemi da questo incubo) con un parruccone nero da Rapunzel.
Grazie al cielo anche l’ultima federa è stirata, stacco in simultanea ferro e Rai Uno.
Quando il premier Renzi parla di una tv pubblica che sappia svolgere una funzione educativa non avrà certo in mente il maestro Alberto Manzi (che Dio l’abbia in gloria) o A come agricoltura (anche). Educativo è, per cominciare, fare bene quello che sei chiamato a fare in cambio di cachet sicuramente non male -preparandoti, studiando, sentendo tutta la responsabilità di parlare a milioni di persone, tenendogli adeguatamente compagnia con una conversazione gradevole e intelligente su qualsivoglia contenuto, erogando energia- e se proprio non ti viene o non ne sei capace, se non riesci nemmeno a recitare garbatamente quello che ti scrivono gli autori, magari mollare il colpo, perché no? Saper stare in tv non è roba da tutti.
La parola rottamazione non mi è mai piaciuta, ma è piuttosto evidente che mentre tutti quanti noi navighiamo a vista in mari procellosi, ci sono baluardi che resistono, gente asserragliata, privilegi che non decadono.
Almeno poi nessuno si chieda come mai i cittadini non hanno voglia di pagare il canone.
p.s: precisazione doverosa: io adoro il pop. Io voglio il pop! Non pretendo dibattiti su Elias Canetti e interviste ad Hans Magnus Enzesberger. Ma c’è pop e pop! Che pensa il pop come brutto-libero è un nemico del pop.
La scena che vedete qui (poco dopo il minuto 4.30) sarebbe impensabile in Svezia, in Norvegia, in Gran Bretagna, in Australia, in Germania, e anche nella sorella Spagna. Anzi, sarebbe diventata un caso politico.
Un energumeno di Italia 1 (suppongo si tratti della trasmissione “Le Iene”) insegue per strada con la sua troupe la neoministra Maria Elena Boschi: a giudicare dall’abito di lei, quel supercommentato tailleur blu elettrico, deve trattarsi proprio del giorno della nomina.
Riporto fedelmente il dialogo:
Iena: “A Maria E’, sei una figa strepitosa!“.
Ministra: “Oggi… dai. Oggi lasciami…”.
I. “Ma perché ti hanno messa proprio ai rapporti con il Parlamento?“.
M. “Buongiorno…”.
I. “… ai rapporti con i membri del Parlamento? Come pensi di cavartela?”.
M. (gentilmente): “Adesso basta…”.
I. “Ci hai ragione! Oggi è una cosa…”.
M. “… sei esagerato”.
I. (guardandole i fianchi) “… una cosa esagerata! La sua forza attrattiva… Però te posso fa’ i miei complimenti?”
M. “Grazie”.
I. “Sei una stra-fi-ga!”.
Anche se siamo un Paese ad alto tasso di misoginia, inchiodato dalla questione maschile, la legge italiana definisce con chiarezza questi comportamenti come molestie sessuali: Maria Elena Boschi viene intimidita, ricondotta alla sua funzione di oggetto sessuale e quindi indebolita nella sua soggettività proprio nel giorno in cui è chiamata a giurare per un alto incarico istituzionale.
Questo comportamento meriterebbe una sanzione: per Maria Elena e per il bene di tutte.
Io credo che la neoministra avrebbe dovuto reagire, quanto meno minacciando la troupe tv di fare intervenire le forze dell’ordine. Avrebbe dovuto farlo per se stessa e anche per tutte le altre donne di questo Paese: se anche a una ministra della Repubblica tocca subire quello che abbiamo visto, che cosa può capitare a una ragazza qualunque? Che effetto può fare vederlo in tv? E in una trasmissione destinata a un target giovanile?
Capisco del resto che Maria Elena, per quanto chiaramente infastidita e turbata, non si sia sentita di farlo: tutte sappiamo come ci si sente, in circostanze come queste. Come se si avesse colpa della propria bellezza, e si meritasse di pagarla in qualche modo. Forse, semplicemente, Maria Elena Boschi non aveva voglia di fare un caso, in una giornata tanto importante per lei.
Ci sarebbe poi anche il rispetto che si deve ai rappresentanti delle istituzioni, volendo.
Altrove, come dicevamo, i casi scoppiano per molto meno. Qui la prima ministra australiana Julia Gillard -che a quanto pare ama il blu elettrico come la ministra Boschi- accusa di misoginia e sessismo il leader dell’opposizione Tony Abbott. Lo fa in Parlamento e davanti al Paese, con una scenata memorabile, in un crescendo entusiasmante, annientando il maschilista.
Dopo aver visto il filmato delle Iene, vi consiglio questo. Molto empowering.
Primo Pippo Civati in tutti i sondaggi (Corriere, La Repubblica, La Stampa, il Messaggero etc.) realizzati in diretta durante il confronto di Sky Tg24 tra i candidati alla segreteria Pd. Potete rivedervi tutto qui. Professorale Gianni Cuperlo (pesa soprattutto lo scarso entusiasmo, mi pare, un “si deve fare” che non aiuta), sottotono Matteo Renzi (anche i fenomeni accusano stanchezza), carico Civati che, patito un metodico oscuramento, attendeva da mesi un’occasione ad alta visibilità per raccontare il suo Pd e la sua idea di Paese (dettagliati peraltro in 70 sostanziose pagine di un programma che perfino Massimo D’Alema ha giudicato il più innovativo).
Non è un caso che nel suo Pantheon, insieme alla ex-sindaca eroina di Monasterace Maria Carmela Lanzetta che Civati vorrebbe in direzione nazionale, il candidato “terzo” abbia indicato Bill “Giant” De Blasio, nuovo sindaco di New York, simbolo di una sinistra che vince restando a sinistra, con posizioni chiare e nette ispirate a una maggiore giustizia sociale, alla battaglia sui diritti, alla salvaguardia delle differenze. Una sinistra resettata, in cui accanto al tema decisivo del lavoro c’è posto anche per i diritti degli animali, con l’ambiente al centro.
Oggi sui quotidiani e ovunque nel web trovate ampli resoconti del confronto di ieri, pagelle, pagelline e molti “the best of”: ce n’è per tutti i gusti. Queste poche righe solo per ribadire che non è affatto detto che la sinistra vinca solo se va a destra, anzi -in verità il Pd ha perso pezzi su questa strada fino al “tradimento” delle larghe intese- e il vecchio Bill sta lì a dimostrarlo. Che si tratta casomai di reincardinare la sinistra su nuovi assi -ambiente, sviluppo compatibile, convivenza delle differenze, femminilizzazione, rete- per delineare un nuovo paradigma. E se non lo fa la “sinistra” o chiamiamola come vogliamo, chi lo fa? Insomma, se si vuole indicare un trend, è questo.
Ieri alla splendida XFactor Arena tra i venti-trenta-quarantenni della squadra di Civati, galvanizzati dall’ottima performance, molti compagni di strada renziani un po’ delusi, che ammettevano: “Speriamo Pippo arrivi secondo”. I sondaggi mediatici non hanno base di scientificità -anche se quelli cosiddetti scientifici prendono spesso enormi tranvate: chi si dimentica, tanto per dire, Letizia Moratti data fino all’ultimo 7 punti sopra Giuliano Pisapia?-. Un conto è votare online dalla poltrona e gratis, un altro essere così motivati da infilarsi il cappotto, raggiungere il seggio, versare 2 euro e mezzo e votare (metodi pleistocenici, ma tant’è…). L’affluenza alle primarie è la vera incognita, soprattutto per Renzi e per Civati. In particolare per quest’ultimo, ieri sera epic-winner a sorpresa, che nei prossimi sette giorni dovrà riuscire a tradurre questa ampia adesione ideale nella sostanza di un sostegno alle urne. Ma questo è anche tempo di eventi miracolosi.
Intanto in bocca al lupo a tutti. Il confronto tv di ieri sera -con qualche colpo, ma nessuno basso- alimenta la fiducia.
Tutti uomini, già. Peccato. L’unico a notarlo è stato Civati.
Ora aspettiamo di vedere i sondaggi: ma ieri sera mi pareva che 1 punticino, anche 2, il Cavaliere se li era portati a casa (ne trovo conferma nell’ottima analisi di un’addetta ai lavori, l’amica Giovanna Cosenza). E li ha presi in un colpo solo. Proprio in quell’arena, Servizio Pubblico, che avrebbe dovuto vederlo sulla graticola.
Michele Santoro sembra pensare più allo share che all’editto bulgaro, alla sinistra e a tutto il resto. Si lascia -volentieri?- trascinare nell’atmosfera da avanspettacolo, con tanto di tormentone (le scuole serali): ma sul palcoscenico da rivista il mattatore è B., gli altri possono fare solo da spalla. Marco Travaglio è preciso, ma sembra intimidito. Berlusconi riesce a imporre il ritmo comico e politico. Anche le brave interlocutrici, Costamagna e Innocenzi, sembrano convitate pietrificate. Lo show è molto godibile, con rari momenti di noia.
Dal punto di vista degli antagonisti politici di B., una vera dèbacle.
Ho incontrato Silvio Berlusconi qualche sera fa in un’emittente locale. Ho constatato su me stessa l’effetto che fa. Tolta la sordità, l’uomo, 76 anni, appare invincibile. Una forza psichica formidabile, che percepisci subito: di gente, con il mestiere che faccio, ne ho incontrata e intervistata tanta, ma raramente mi è capitato uno così. Il Cavaliere è sorridente, sicuro di sé ma senza apparente strafottenza, non ne senti l’aggressività, il che smorza anche la tua. E’ simpatico, in un duplice senso: è capace di farti sorridere e di stabilire un contatto immediato con te. E’ un seduttore -che non rinuncia all’ardimentoso progetto di sedurre perfino Santoro: vedi la postura nella foto sopra-. Nelle pause pubblicitarie ti impartisce la sua lesson number one, che è la seguente: se tutti votassero per lui, finalmente lui sarebbe in grado di cambiare l’Italia, il problema consiste nell’esistenza di un’opposizione. E se tu, con uguale cortesia, gli opponi che quella sarebbe una dittatura, lui sorride “ma va là! dittatore io?”. Solo di rado, in un lampo, in un’istantanea scopertura dei denti, intravedi il grande potenziale aggressivo, tenuto perfettamente sotto controllo.
Solo l’altra sera, in questo incontro ravvicinato, ho capito -io, che berlusconiana non sono mai stata nemmeno di striscio- come mai tanta gente, un grandissimo numero di italiani, e anche persone che conosco e che stimo sono state sedotte dall’ipotesi B. Opportunismi a parte, che pure costituiscono una quota rilevante dei suoi consensi: basta un suo sguardo, un suo sorriso a cambiarti la vita. A quel magnetismo naturale aggiungi il potere dei soldi, e il gioco è fatto.
Diversamente dai suoi competitor, che rischiano ogni volta che appaiono, B. guadagna consensi a ogni ospitata tv, che sia in un salotto amico o nemico.
Vado a rileggermi quello che Giorgio Bocca diceva di lui, e ve lo ripropongo qui:
“… Ho provato il fascino di questa onnipotenza quando lavoravo a Canale 5, nel suo regno. Ci arrivavo in auto attraversando la Milano puzzolente e rumorosa dei poveri, e varcati i cancelli di Milano 2, con i custodi in divisa, entravo nel mondo ordinato, lustro e fiorito sotto le grandi torri delle televisioni, simbolo di potere e ricchezza come le torri medioevali. E standoci sentivo, quasi fisicamente, la presenza dominante del padrone, la sua provvidenzialità. La segretaria di redazione teneva nel cassetto delle cravatte, nel caso uno di noi si presentasse al lavoro senza, perché tutti vestivano come lui voleva, bandito come blasfemo l’odore di aglio. Nessuno avrebbe recato danno alla sua immagine, riso delle sue debolezze. Come tutti gli imprenditori di questo mondo attorno a lui c’erano reti di protezione, di segretarie devote. E in più Berlusconi non è un tiranno feroce, ma un uomo, quando vuole, cortese, affabile, e per certi aspetti ammirabile; come dice il suo amico Fedele Confalonieri: “Lui è come Anteo, se lo butti a terra moltiplichi le sue forze”, e finché il miracolo funziona la gente applaude…. Un altro fascino di Berlusconi è il rischio calcolato, affronta i nuovi pascoli della ricchezza, prima i quartieri residenziali, poi la televisione, passando sopra, se occorre, alle regole e ai divieti, ma fermandosi sempre nei limiti della borghesia mercadora dei Buddenbrook, che in prigione non ci va mai, potendo assumere i migliori avvocati”.
E qui, in un’intervista rilasciata da Bocca poco tempo prima di andarsene:
“Io sono stato con Berlusconi per anni, ho lavorato insieme con lui a Canale 5 e lo trovo anche molto simpatico, divertente. La sera suonava il campanello, si autoinvitava e veniva a mangiare a casa nostra. Se uno era ammalato lo aiutava… non sa nulla di che cos’è la democrazia, si comporta come un piccolo ras… Alle cene raccontava le sue barzellette idiote. Una volta avevo scritto un articolo in cui dicevo che era un piccolo borghese con complessi di inferiorità. Lui si presentò sull’uscio di casa e disse: «Sono qui in punta di piedi per vincere i miei complessi di inferiorità». È autoironico, un cialtrone, simpatico come sono anche i malviventi. È gentile e spiritoso, finchè conviene alla sua figura di personaggio pubblico. Se poi qualcuno si mette di traverso al suo potere lo liquida senza pietà. Dietro Berlusconi c’è una profonda illiberalità”.
Ho acceso solo a un certo punto, i primi venti minuti me li sono persi. Di solito i contenitori della domenica pomeriggio non li guardo, ma stava montando una certa agitazione online.
Barbara D’Urso strizzata in un little black dress, maschera fissa, compresa, finto-neutra. Silvio Berlusconi nel suo solito doppio petto, rigido e un po’ gonfio, la faccia sfigurata e inespressiva a seguito di un numero impressionante di interventi, versione “sono un padre di famiglia, come voi” e “lo faccio per il Paese, contro il rischio comunismo“, se almeno avesse vinto Renzi, ma c’è Bersani.
D’Urso si comporta come una spalla attiva. Non intervista, dà la battuta. Il copione appare concordato fin nei dettagli (“Poi mi domandi…” si sente dire lui, mentre lo studio stacca per la pubblicità). L’esito è una cosa cinese, albanese, rumena (altro che comunismo). Lei mostra di permettersi un piccolo “scarto”, dicendogli che “le donne si sono arrabbiate con lui”. Gli dà l’occasione di scusarsi con i suoi elettori, di dire che “in quel periodo -quello del Bunga-Bunga, ndr- ero molto solo: avevo divorziato, era morta mia madre, poi mia sorella…”. Gli permette di attaccare frontalmente la magistratura milanese, senza nemmeno provare a prendere le distanze. Gli lascia dire che “Ruby io l’ho salvata dalla prostituzione” (D’Urso tra l’altro è testimone a quel processo). Garantisce che con lei Lui è stato sempre corretto, insomma, eroicamente non ci ha mai provato. Parla di Marina e Piersilvio come di “persone straordinarie”. “Mi si è fidanzato?” gli domanda, ostentando una notevole intimità. Lui ammette ufficialmente (che scoop!) e si intenerisce. Lei ci dà dentro: “Che carino!” (sic).
Non una sola domanda sulle leggi ad personam, sull’inefficienza del governo, sulla deflagrazione del Pdl, sulla corruzione e sugli scandali che l’hanno travolto, sulla negazione della crisi fino all’ultimo, sul conflitto di interessi, sulle promesse disattese, sul “contratto con gli italiani”, sul milione di posti di lavoro che non sono mai arrivati, sulle tasse che non sono mai state ridotte, sulle favorite nei listini elettorali, sul Porcellum, sulla devastazione dell’immagine internazionale, sull’Europa che stigmatizza la sua ridiscesa in campo. Una cornice zuccherosa e natalizia (mancava solo il sottofondo di “Jingle bells”) a quell’attesissimo “Abolirò l’Imu”, copia scolorità dell’ “abolirò l’Ici” del 2006, ma pur sempre appealing, con la gente che alla prima settimana del mese comincia già a fare i conti. Con gran botto finale: il filmato di quel discorso del 2007, in un inglese scolastico, al Congresso Usa. Che, come sottolinea lui, gli guadagnò ben 7 standing ovation.
Di standing ovation nello studio di Domenica Live non se ne vedono. Gli addetti ai lavori fanno partire l’applauso, i figuranti in platea seguono stancamente. Non è che hanno tanta voglia di acclamare, anche se a pagamento.
Barbara D’Urso ha offerto una performance inquietante. Dovrebbe chiedersi come mai non si è sentita di porre nemmeno una domanda scomoda, o almeno non del tutto compiacente. Perché ha ostentato i suoi legami con l’intervistato. Perché ha esaltato le qualità umane dei suoi congiunti. Perché ha evitato ogni contraddittorio, accettando risposte che lo richiedevano. Perché tra tutti i filmati trasmissibili ha scelto il più celebrativo. Perché, se proprio non se la sentiva, visto che quel signore le dà un cospicuo stipendio e la cosa l’avrebbe messa in difficoltà, non ha lasciato che fosse un/a giornalista a intervistarlo, dato che lei non lo è. Vorrei chiederle se si rende conto della delicatezza della questione, che non riguarda lei e il suo datore del lavoro, ma i destini di questo Paese, quelli dei nostri figli, anche dei suoi. Che non è uno show della domenica, ma che richiede coraggio e senso di responsabilità.
Questa è l’intervista che vorrei fare a Barbara D’Urso.
P.S. (ma non è affatto un p.s., semmai sarebbe un a.s.): non essendo stata mai approvata la legge sul conflitto di interessi, si dovrà congegnare un sistema per garantire un’effettiva par condicio tra competitor politici, uno dei quali possiede direttamente o influenza cospicua parte di tv e carta stampata, e si appresta a corazzarsi anche in rete.