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salute

bambini, Corpo-anima, Politica, salute Giugno 12, 2014

#Legge40: l’eterologa non è a rischio-zero

La neo-legittimità della fecondazione eterologa in Italia apre di sicuro problemi pratici, come notava Adriana Bazzi ieri sul Corriere della Sera. Problemi che riguardano procedure, caratteristiche dei donatori, l’eventuale costituzione di una Banca dei Gameti, e via dicendo. Ma forse non sono questi i problemi prioritari.

Sull’affermazione della Consulta che “non vi è differenza tra fecondazione eterologa e omologa” si potrebbe discutere a lungo. A quanto pare la Consulta intende suggerire che anche le famiglie che adottano non sono famiglie su base genetica (nel caso dell’eterologa sarebbero genetiche solo “a metà”). Ma il parallelo tra figli nati da fecondazione eterologa e figli adottati lascia qualche perplessità.

I figli sono sempre figli di chi li ama e li cresce, su questo nessun dubbio. Ma le traversie identitarie di un bimbo nato da fecondazione eterologa e quelle di un adottato possono essere molto diverse. Intanto il bimbo adottato è già al mondo, con tutte quante le sue ferite, ed essere accolto da una famiglia costituisce una riparazione affettiva. Il bimbo nato da eterologa invece viene chiamato consapevolmente e “problematicamente” al mondo.

Per gli adottati è ampiamente riconosciuto il tema del confronto con le proprie origini e con il fantasma dei genitori biologici. Sui bimbi nati da eterologa invece la discussione è più che aperta. Come avete letto, la presidente di Aidagg Paola Volpini è dell’opinione che “un gamete non è un genitore biologico”, che non vi sia alcun trauma di abbandono e alcun fantasma, e che “il caso del donatore di gameti invece è simile a quello del donatore di organi: conoscere chi ha donato può essere un’esperienza molto frustrante”.

Non ne sono affatto convinta. C’è un ampia letteratura –e perfino cinematografia- a dimostrare che anche un “gamete” è inteso dal figlio come propria radice, non indifferente per la definizione della propria identità, e che la sua “sparizione” può essere decodificata dal figlio come abbandono. Non è un caso infatti che la questione dell’anonimato, data da Paola Volpini e anche dalla legge come pacifica, pacifica non è affatto. Tant’è che in molti Paesi europei, come in Gran Bretagna e nel Grande Nord, il donatore NON può essere anonimo: decisione alla quale si è pervenuti dopo anni di esperienza.

Personalmente continuo a ritenere la “sparizione” del donatore come una ferita inflitta al bimbo che nasce, e sono convinta, al contrario, che tra il figlio e il “proprietario” del gamete che lo ha messo al mondo sia auspicabile il mantenimento di una relazione che può svilupparsi spontaneamente, diventando importantissima o secondaria nella vita del figlio. Quindi chi dona i propri gameti dovrebbe farlo accettando responsabilmente la relazione che nascerà, anche se non sarà formalmente responsabile della crescita e dell’educazione del bambino: penso alla relazione (a ogni relazione) come un dono, ed è solo in una logica di dono reciproco che riesco a inquadrare queste pratiche biotecnologiche.

Sono anche fermamente convinta, pur solidarizzando sinceramente con la sofferenza di chi non può avere figli,  che in questo campo gli unici diritti che contano sono quelli di chi viene messo al mondo.

Difficilmente si potranno affrontare argomenti tanto sensibili a colpi di sentenze. E anche se la Consulta precisa che non vi è alcun vuoto normativo e che la fecondazione eterologa sarà praticabile già da domani, mi pare auspicabile la riapertura di un dibattito in tutte le sedi, politiche e culturali.

 

 

bambini, Corpo-anima, salute Giugno 11, 2014

#Legge40: ti regalo il mio ovocita

Non discriminare le coppie infertili meno abbienti, che non possono permettersi di sostenere i costi del “turismo procreativo”. E riconoscere il fatto che “non c’è differenza tra fecondazione eterologa e omologa (con gameti dei due partner)”: ovvero le famiglie non si costruiscono imprescindibilmente sulla genetica, così come già riconosciuto dalle norme per l’adozione.

Sono queste le motivazioni in base alle quali Corte Costituzionale ha giudicato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa stabilito dalla legge 40.

Secondo la Consulta, inoltre, la fecondazione eterologa è praticabile da subito, senza che si renda necessario intervenire con nuove norme: dal momento della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale, prevista a giorni, le oltre 9 mila coppie in attesa potranno rivolgersi a centri pubblici o privati per intraprendere il percorso medicalmente assistito.

Pochi giorni fa è stata annunciata la nascita della prima associazione italiana di donatori di gameti a titolo altruistico e gratuito (Aidagg). L’associazione non è un centro per la procreazione medicalmente assistita né una banca di gameti, ma un’agenzia che intende rendere nota alle coppie infertili la possibilità di procreare con donazione di seme o di ovociti, oltre a vigilare contro abusi e mercificazioni.

Potranno donare i loro gameti uomini e donne di età compresa tra 25 i 35 anni, in buone condizioni di salute e in totale anonimato, come prevede la legge. Il numero di donazioni sarà limitato e da ogni donatore non potranno risultare più di sei gravidanze. Le donazioni saranno gratuite e volontarie, salvo il riconoscimento di un minimo rimborso delle spese sostenute. Le coppie non potranno scegliere il donatore e la donna ricevente non potrà avere più di 50 anni.

“Per quanto riguarda la donazione di seme è tutto piuttosto semplice” spiega Laura Volpini, presidente di Aidagg.Per la donazione di ovociti, invece, abbiamo 3 modelli diversi: ci sono coppie che hanno già ovociti congelati che possono essere donati: a Catania 11 donne hanno già dato la loro disponibilità. Vi sono poi giovani donne che si fanno prelevare e conservare ovociti in vista di un futuro progetto di maternità: anche in questo caso parte degli ovociti possono essere donati in cambio della crioconservazione gratuita. Infine esiste la donazione incrociata: voglio donare un ovocita a un’amica o a una sorella, ma la legge non lo consente perché la donazione non sarebbe anonima e/o esiste un legame di parentela. Quindi dono il mio ovocita alla banca dei gameti che “in cambio” fornirà un altro ovocita alla mia amica o sorella”.

Lei non ritiene che sia anche necessario un lavoro, sia sociale sia sanitario, per la prevenzione dell’infertilità?

“Senza dubbio. Chiediamo che il Ministero della Salute promuova una campagna in questo senso, anche nelle scuole, in cui si parli di orologio biologico, si chiariscano i rischi connessi alle malattie a trasmissione sessuale e così via. Perché si impari come avere figli, e non solo come evitare concepimenti indesiderati. Ma è necessario anche un lavoro culturale per la diffusione di un modello di famiglia plurale”.

 Siete d’accordo sull’anonimato del donatore?

“La legge stabilisce che sia garantita solo la tracciabilità dei dati. Ma quello dell’anonimato è un falso problema. Il caso dell’adozione non può essere portato a paragone: lì c’è il trauma dell’abbandono da parte del genitore biologico, per elaborare il quale può essere necessario l’incontro e la conoscenza. Il caso del donatore di gameti invece è simile a quello del donatore di organi: conoscere chi ha donato può essere un’esperienza molto frustrante”.

Non può manifestarsi, anche in questo caso, il fantasma dell’abbandono?

“Ma un gamete non è un genitore biologico! Semmai è importante che il bambino sia precocemente informato sulle modalità con cui è venuto al mondo. Per questo proponiamo un supporto psicologico alle famiglie che hanno fatto ricorso a eterologa”.

 Quali sono le motivazioni profonde che spingono una donna o un uomo a donare i propri gameti?

“Alla base c’è un’adesione altruistica. Non distruggere i propri ovociti in sovrannumero e donarli è un gesto di pura generosità. Viviamo in una società in profonda trasformazione, anche da questo punto di vista, e non possiamo ignorare le possibilità che ci sono offerte dalle biotecnologie riproduttive”.

A breve Aidagg comunicherà i suoi contatti.

p.s.: fin qui i fatti. Per le opinioni (le mie) ci risentiamo più avanti.

 

 

 

Politica, salute Aprile 30, 2014

Legge 194: decurtare lo stipendio agli obiettori

Sulla legge 194 che regola l’interruzione di gravidanza: un po’ di notizie, che ci dicono a che punto siamo. E infine una proposta.

Le notizie, in sintesi: come saprete, il Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia perché viola i diritti delle donne non applicando la legge 194. In Italia l’obiezione media supera il 70 per cento, con punte che sfiorano il 90 per cento al Sud (ma anche al Nord ci sono interi ospedali che non garantiscono il servizio). Qualche giorno fa l’ospedale milanese di Niguarda ha chiesto aiuto al reparto di ginecologia dell’ospedale Luigi Sacco perché causa obiezione non riesce a corrispondere alle richieste di IVG (si ovvierebbe con il ricorso ai cosiddetti gettonisti, a 60 euro l’ora). Intanto all’ospedale San Martino di Genova un obiettore si è rifiutato di eseguire un’ecografia a una paziente che stava espletando la procedura di interruzione con Ru486, e il Direttore Sanitario lo ha denunciato per interruzione di pubblico servizio.Tante, troppe donne si presentano in ospedale per aborto “spontaneo” (evidente un ritorno al fai-da-te), i farmaci per abortire si trovano facilmente online o in luoghi di spaccio. C’è quindi una ripresa vigorosa dell’aborto clandestino.

La legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza assicura il diritto all’obiezione di coscienza, che deve essere dichiarata al momento dell’assunzione, ma può anche essere proposta in seguito. Sempre all’articolo 9 della legge, si precisa però che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure”, ovvero a garantire comunque il servizio: l’iniziativa dell’ospedale Niguarda va letta in questa chiave.

Più volte si è discusso sull’obiezione “opportunistica”, diritto non invocato per vere ragioni di coscienza ma per ragioni di comodo e di carriera: praticare aborti non è divertente per nessuno, è tristemente routinario e non favorisce la crescita professionale. Non esiste tuttavia un esame del sangue che ci consenta di discernere tra le obiezioni per ragioni di coscienza e quelle per ragioni di carriera.

Io credo che il diritto all’obiezione vada salvaguardato. Ma è vero anche che il Servizio Sanitario Nazionale paga ospedali e cliniche convenzionate perché corrispondano a quanto disposto dalla legge 194, che è una legge dello Stato. In parole povere: il servizio di interruzione di gravidanza viene GIA’ pagato dai cittadini, e sarebbe sommamente ingiusto farglielo ripagare con extra ai gettonisti, che a quanto pare oggi sono l’unica via d’uscita per garantire il servizio.

Vengo allora alla proposta: che lo stipendio degli obiettori di coscienza venga decurtato della quota corrispondente -facilmente calcolabile- a quella prestazione non erogata. Se io non voglio fare una cosa, insomma, non posso pretendere che mi si paghi come se la facessi.

Io ti assumo e ti pago per fare A, B. C e D. Se per tua scelta, garantita dalla legge, D (l’IVG) non lo intendi farlo, perché mai pretendi di essere pagato anche per D? E in più mi tocca pagare un altro perché faccia D al posto tuo?

Gli obiettori opportunistici, quelli che obiettano per ragioni di carriera e di soldi, faranno i loro conti, e a occhio molti faranno marcia indietro: la 194 prevede che l’obiezione possa essere revocata in qualunque momento. Così risolveremmo molti problemi in un colpo solo: gli ospedali avrebbero personale sufficiente a garantire il servizio, i cittadini non dovrebbero pagarlo due volte, le donne sarebbero garantite nel loro diritto alla salute, gli aborti clandestini diminuirebbero, si ottempererebbe alla sentenza del Consiglio d’Europa.

Prevengo un’obiezione: così si discriminerebbero gli obiettori di coscienza.

Ebbene, le scelte di coscienza prevedono sempre questo rischio.  Le scelte di coscienza non sono mai gratis. Le scelte di coscienza si pagano -e non vengono, al contrario, retribuite-.  Talvolta si pagano perfino con la vita, ed è proprio questa disponibilità a pagare un prezzo che le nobilita.

 

bambini, Donne e Uomini, salute Aprile 10, 2014

Fecondazione eterologa: il figlio ha più diritti di tutti. E non solo “a sapere”

Capiremo presto se si dovrà riaprire il dibattito parlamentare sulla fecondazione assistita, come sostiene per esempio la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin. O se come ritengono alcuni giuristi, la sentenza della Cassazione, che dichiara lecita la fecondazione eterologa -ovvero ricorrendo a seme o ovulo donati da terzi- non  ha aperto alcun vuoto normativo che renda necessario un nuovo intervento del legislatore.

Mi pare abbia ragione la ministra quando sostiene che la liceità della fecondazione eterologa apre alcune questioni che vanno definite: e in particolare la questione dell’anonimato del donatore-trice e il diritto del figlio-a a essere informato.

In molte legislazioni internazionali si è passati dall’anonimato del genitore “terzo” alla primarietà del diritto del figlio-a a essere informato sulle sue origini biologiche.

In uno dei documenti fondamentali in materia, l’Human Fertilisation and Embriology Act, stilato nel 1990 nel Regno Unito, si legge:

In 2004, the Human Fertilisation and Embryology Authority (Disclosure of Donor Information) Regulations 2004/1511, enabled donor-conceived children to access the identity of their sperm, egg or embryo donor upon reaching the age of 18. The Regulations were implemented on 1 April 2005 and any donor who donated sperm, eggs or embryos from that date onwards is, by law, identifiable. Since that date, any person born as a result of donation is entitled to request and receive the donor’s name and last known address, once they reach the age of 18“.

Si riconosce quindi che il diritto del figlio-a sapere prevale rispetto al diritto del donatore-trice a restare anonimo-a (e della coppia a “cancellare” il donatore-trice).

La coppia che accede a fecondazione eterologa e il terzo-a che cede i suoi gameti scelgono infatti in piena consapevolezza, mentre la consapevolezza del nascituro-a va promossa e tutelata.

Il diritto a conoscere le proprie origini è un diritto fondamentale del minore sancito dall’ art. 7.1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che riconosce il “diritto […] nella misura possibile, a conoscere i suoi [del fanciullo] genitori […]”. Il termine “genitore” ricomprende tre categorie: il genitore genetico, il genitore biologico che partorisce e il genitore psicologico, ossia colui che cresce e si prende cura del minore per un periodo significativo della sua vita.

Quindi questo diritto va garantito, e la legge 40, profondamente cambiata da ben 32 sentenze in 10 anni, non consentendo fino a ieri la fecondazione eterologa non dice nulla su questo punto.

Vorrei aggiungere due punti alla discussione, questioni che non si lasciano facilmente tradurre in leggi e codici:

a) quello che fa “scandalo” e crea problema nella fecondazione eterologa è la “sparizione” del genitore-trice biologico-a o della madre surrogata. Per ricorrere a un esempio antico, la balia che dava il suo latte al posto della mamma instaurava una relazione tenera e affettuosa con il piccolo che attaccava al seno. Ho il ricordo personale di mio padre -sua madre, lavorando, non poteva allattare- che aveva mantenuto un rapporto tenero anche con i figli della sua balia, “fratelli di latte”. La nostra esistenza si dipana in una rete di relazioni. La “sparizione” del donatore-trice crea inevitabilmente un buco in questa rete. Non è, cioè, solo questione di anonimato e di diritto a sapere. E’ questione della mancanza di relazione -per sentimento di possesso da parte dei genitori, o per il fatto che il donatore-trice mette a disposizione i suoi gameti in cambio di denaro, o semplicemente non intende avere un posto nella vita del nascituro- che può creare un problema al figlio-a. Io credo invece che ci sia anche un diritto del figlio alla relazione. Che nelle relazioni vive tutto possa essere ricomposto: si dovrebbe trovare un nome e una parte nella vita del bambino-a per chi contribuisce alla sua venuta al mondo. Forse ci dovrebbe essere o dovrebbe essere costruita una relazione tra la coppia e il donatore-trice e/o la madre surrogata: un amico che dona il suo seme, o una sorella che “presta” il suo utero è cosa ben diversa da uno studente che offre i suoi gameti in cambio di soldi e poi sparisce, o da una donna indiana che offre il suo grembo per fame.

b) il ricorso alla fecondazione assistita, in particolare all’eterologa, dovrebbe essere intesa come extrema ratio, perché non è mai un’operazione a costo zero (costi psicologici, intendo). Questo significa concentrare i nostri sforzi nella prevenzione dell’infertilità, sulla quale non si fa quasi nulla. Il lavoro che va fatto su questo terreno è un lavoro scientifico -individuare le cause principali dell’infertilità e offrire soluzioni mediche- ma anche politico: creare le condizioni socio-economiche che permettano a una coppia di non rimandare sine die il concepimento. Oggi una donna di a 40 anni potrà anche dimostrarne 30 o ancora meno, ma il suo orologio biologico resta quello di una quarantenne. E concepire a quarant’anni resta molto più difficile che a 2o. Ci sono casi, come il rischio di trasmettere malattie genetiche, che non lasciano molta scelta: a meno di non scegliere di correre il rischio, la fecondazione assistita resta l’unica strada. Ma molti casi di infertilità possono essere prevenuti, e non solo con cure mediche. Una legge come quella che vieta le dimissioni in bianco o una politica che favorisce l’occupazione femminile (le donne mettono al mondo più bambini quando lavorano) possono fare moltissimo.

 

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, Politica, salute Gennaio 8, 2014

Martina, la “bambina” che non trova un letto in ospedale

Questa che vedete si chiama Martina Ciaccio. Sembra una bambina, ma ha vent’anni, e pesa 22 chili. Sua madre Donatella scrive su Facebook che è la sua “birbantella, il mio orgoglio“. Martina soffre di una rara malattia genetica, la sindrome di Cornelia De Lange. “Qualcosa di simile alla trisomia 21?” le chiedo.”Magari!” dice lei. “Ci metterei la firma”.

Da 24 ore Martina, che vive a Sciacca, Sicilia, attende con il bacino fratturato di trovare un ospedale che la ricoveri. Dal”Cervello” di Palermo è stata respinta: “In pediatria non la vogliono perché ha superato i 16 anni. Ma per il suo corpo serve l’attrezzatura che si usa per i bambini“. Non le trovano un posto nemmeno tra gli adulti. La mamma pubblica un appello disperato su Facebook:

“Questo è lo stato italiano…mia figlia per la sua grave disabilità si e rotta il bacino e non riesco a trovare un ospedale pediatrico che possa accoglierla per essere operata, questo perché lo STATO ITALIANO guarda l’età anagrafica ma la mia bimba anche se 20 enne pesa 22 kg come una bimba di 3!!allora ditemi..il reparto di adulti non può operare perché,occorrono strumenti pediatrici e i pediatri non possono intervenire perché burocraticamente è adulta!!! Che possibilità ci rimane se non quella di far conoscere la mia storia in modo che qualche politico ben pensante e sempre attivo sul social mi sia una mano per scavalcare questa legge che porta a tanta sofferenza?”.

Martina non parla, passa le sue giornate in una culletta o in passeggino, è molto affettuosa. La mamma la assiste da sola: con i soldi della pensione di invalidità e dell’accompagnamento paga a malapena gli omogeneizzati. Il papà fa la guardia giurata, e ci sono altri due figli. Donatella dice che alla sindrome si associano numerose patologie, dal reflusso gastroesofageo alla poliposi a una grande fragilità ossea.

Stamattina è entrata nella sua camera, ma diversamente dal solito Martina non le ha fatto feste ed è rimasta coricata. Donatella ha subito capito che qualcosa non andava: tre anni fa si era rotta anche e femori. “Ho visto che c’era un problema. Chi soffre di questa malattia ha una soglia del dolore molto alta. Quando chiunque di noi urlerebbe, loro si lamentano flebilmente“. Ha chiamato il 118, e all’ospedale hanno confermato: la frattura al bacino si è riaperta, i ferri sono tutti fuori posto.

Donatella chiede il trasferimento al “Cervello” di Palermo: tre anni fa era stata operata lì. “Anche allora c’erano stati problemi per il ricovero, perché dai 16 anni non sei più un soggetto pediatrico. Con un escamotage avevamo aggirato l’ostacolo. Martina non può essere gestita in un reparto per adulti, anche se ha vent’anni: tutto, dalle mascherine, ai tubi, ai ferri, è troppo grande per lei“. Ma stavolta in pediatria non la prendono: Questione di budget, hanno detto. Non otterrebbero il rimborso dalla Regione. Allora ho chiesto un ricovero tra gli adulti: niente da fare. L’hanno reinviata a Sciacca. Ma quello di Sciacca è un piccolo ospedale di paese, non sono attrezzati per gestire un caso come il suo“.

Due anni fa Donatella aveva minacciato di incatenarsi davanti alla sede della Regione Sicilia se l’assessore alla Sanità Piscitello non l’avesse ricevuta. “Alla fine mi ha incontrata. Gli ho chiesto un lasciapassare, per evitare ogni volta questo rimpallo tra pediatria e i reparti per adulti. Ogni volta perché sono tante volte: Martina si ammala di continuo. Lui mi ha garantito che me l’avrebbe fatto avere. Non ho mai visto nulla“.

Alle 17 di oggi Donatella ha chiesto l’intervento dei Carabinieri:Dopo un’intera giornata nell’ospedale di Sciacca, mentre io mi disperavo alla ricerca di una soluzione, a Martina non era stato fatto nemmeno un esame del sangue, non le era stato neanche cambiato il pannolino. Con una frattura del genere si corrono molti rischi: un’embolia, il coma diabetico -l’altra volta ci siamo andati vicini-, un’emorragia, problemi cardiaci…“.

Parte il tam-tam sui social network, che raggiunge tra gli altri anche l’ex deputato Antonino Mangiacavallo, commissario all’ospedale San Raffaele di Cefalù: lì si trova finalmente un posto per Martina, che sarà ricoverata domattina.

Donatella dice che fa il possibile per tenere allegra la sua famiglia, per non far pesare la situazione più del necessario. “Ma ci sono momenti in cui lo sconforto è troppo grande” dice. “Mi pare che Martina abbia già pagato abbastanza. Non ha bisogno di altre punizioni“.

Aggiornamento di domenica ore 13: Martina, ricoverata a Cefalù, è stata operata, e tutto sembra andare bene. La mamma fa sapere questo: “Volevo comunicare a tutte le persone che mi sono state vicine che mattina dopo 4 ore d’intervento chirurgico e qualche vite in più. (sembra robocop) tra qualche mese tornerà a camminare con le sue gambette grazie alla generosità, umanità e professionalità di tutti i sanitari del san Raffaele di Cefalù, struttura che non ha a euguali in Sicilia…grazie di cuore“.

Corpo-anima, femminicidio, salute Novembre 23, 2013

Violenza è anche non applicare la 194

 

Un’amica anestesista mi racconta che è vicina al burn out: non ce la fa più, come tutti quei pochi medici non-obiettori che continuano a garantire l’applicazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza a prezzo di salute psichica e carriera. Fossi in loro incrocerei le braccia.

A 35 anni dall’entrata in vigore della legge sarà fastidioso dover ancora parlare di aborto -figuriamoci praticarli in catena di montaggio-. Ma il problema c’è e non può non essere visto.

70 per cento in media di obiezione, con punte che superano l’80 al Sud (dati probabilmente sottostimati) e ospedali, anche in Lombardia, che rifiutano di erogare il servizio tout court. Turismo abortivo –dover andare in un’altra regione per interrompere la gravidanza- e ritorno alla clandestinità, le ragazzine che comprano porcherie velenose dagli spacciatori davanti alle stazioni.

Qui non è questione di bilanci, ma di una legge più volte e invano attaccata dall’esterno che di fatto è stata abrogata dall’interno. Tra l’altro è in corso una raccolta di firme da parte di varie organizzazioni no-choice per un nuovo referendum abrogativo.

Le strade sono due: garantire l’applicazione della legge con l’assunzione di una quota di personale che assicuri, almeno per un periodo stabilito, di non obiettare; oppure cancellare del tutto la legge, senza ipocrisie, e tornare all’ipotesi della depenalizzazione (ognuna interrompa la gravidanza in sicurezza dove ritiene, senza incorrere in un reato: oggi l’aborto è legale solo nelle strutture ospedaliere).

Prima di istituire i cimiteri dei feti, come di recente nella Firenze di Renzi, si faccia in modo che al cimitero non tornino a finirci le donne. Perché è femminicidio anche questo.

 

 

AMARE GLI ALTRI, bambini, salute Luglio 4, 2013

Divieto di morbillo per i piccoli immigrati

Dunque: a Milano un bambino di 5 anni, figlio di immigrati irregolari (ovvero senza permesso di soggiorno), è febbricitante e pieno di bollicine. Verosimilmente una malattia esantematica. In genere è un pediatra a fare diagnosi e indicare una terapia. Ma il nostro piccoletto un pediatra non ce l’ha: per i figli di irregolari il servizio pediatrico è garantito solo fino ai 6 mesi. Dopo i 6 mesi in caso di malattia c’è solo il pronto soccorso, che oltre a non garantire la continuità di cure, necessaria in particolare per la salute di una creatura in crescita, comporta per la nostra sanità un esborso assai maggiore. Quindi anche dal punto di vista della spesa pubblica si tratta di una scelta fallimentare. La salute è un bene collettivo, e non tutelarlo costa.

Un pediatra volontario visita il piccolo, e diagnostica una varicella. La diagnosi rapida e certa di una malattia infettiva, com’è il caso delle malattie esantematiche, è il solo efficace presidio contro la diffusione dell’epidemia, che oltre ai molti disagi comporta, anch’essa, un aumento della spesa pubblica. Ma se non fosse stato per il buon cuore di quel pediatra, per il bimbo non ci sarebbe stato che il pronto soccorso.

A raccontarmi la storia esemplare è Lucia Castellano, capogruppo in Regione Lombardia per Patto Civico Ambrosoli, poche ore dopo che la Regione ha ribadito l’intenzione di non garantire cure pediatriche oltre i 6 mesi per i bimbi figli di irregolari.

C’è un accordo Stato-Regioni per garantire a tutti i bambini, compresi i figli di irregolari, continuità di cure. Ma a differenza di altre regioni, la Lombardia dell’eccellenza sanitaria non lo ha recepito.

Insieme al Pd, il Patto Civico per Ambrosoli ha presentato una mozione per aderire all’accordo, ma l’ipotesi è stata respinta all’unanimità da i rappresentanti del Pdl, della Lega, dei Fratelli d’Italia e della Lista Maroni. Tra gli argomenti, il fatto che garantire cure pediatriche ai figli di irregolari costituirebbe una “breccia” strumentale per superare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione; che in caso di malattia, come già detto, ci sono eventualmente i Pronti Soccorsi; e che anzi i pediatri, in quanto pubblici ufficiali, sarebbero tenuti a denunciare i “clandestini” grandi e piccoli.

Anche i ciellini e tutti i cattolici di Lega e Pdl hanno votato contro.

Lucia mi prega di mettervi al corrente di questa vicenda, e io lo faccio volentieri.

 

Qui il testo della mozione, primo firmatario Umberto Ambrosoli:

 

IL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LOMBARDIA

PREMESSO CHE
secondo i dati fomiti dall’ORIM (Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità) il numero dei cittadini stranieri extracomunitari che risiedono in
Lombardia è aumentato sensibilmente negli ultimi anni;
che i figli di stranieri senza permesso di soggiorno possono accedere alle strutture
sanitarie solo per prestazioni urgenti ed essenziali, come le vaccinazioni o per
patologie che, se non curate, provocano danni permanenti;
che i figli di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno hanno diritto
all’assistenza del pediatra di famiglia solo fino ai 6 mesi di vita, il che significa che
manca la continuità delle cure e la prevenzione, determinando evidenti rischi anche
per la salute pubblica;
CONSTATATO CHE
il DPR n. 394/99, ha delegato alle regioni italiane l’organizzazione dei servizi
sanitari, ovvero la definizione dei destinatari e dei luoghi dove fornire l’assistenza
sanitaria:
“le regioni individuano le modalità più opportune per garantire le cure essenziali e
continuative, che possono essere erogate nell’ambito delle strutture della medicina
del territorio o nei presidi sanitari accreditati, strutture in forma poliambulatoriale od
ospedaliera, eventualmente in collaborazione con organismi di volontariato aventi
esperienza specifica;
CONSTATATO INOLTRE CHE
le regioni come Friuli Venezia Giulia, Umbria, Toscana, e P.A. di Trento prevedono
l’accesso dei minori irregolari anche all’assistenza pediatrica fornita dai PLS;
CONSIDERATO CHE
i figli degli stranieri senza permesso di soggiorno non hanno diritto al pediatra di
famiglia cioè alla continuità delle cure e che questo determina una limitazione del
diritto alla salute del minore che si trova chiaramente in contrasto con la
Convenzione sui diritti del fanciullo, che stabilisce che tutti i minori, senza
discriminazioni, devono avere accesso ali’ assistenza sanitaria;
CONSIDERATO INOLTRE CHE
– il Parlamento Europeo ha invitato gli Stati membri, con la Risoluzione A7-0032/2011
dell’S febbraio 2011, “ad assicurare che i gruppi più vulnerabili, compresi i migranti
sprovvisti di documenti, abbiano diritto e possano di fatto beneficiare della parità di
accesso al sistema sanitario” e “a garantire che tutte le donne in gravidanza e i
bambini, indipendentemente dal loro status, abbiano diritto alla protezione sociale
quale definita nella loro legislazione nazionale, e di fatto la ricevano”;
– che molti medici in diverse strutture, ottemperando al giuramento di Ippocrate,
prestano comunque l’assistenza in una condizione di indeterminatezza che rischia di
risultare in contrasto con le normative;
VISTO CHE
gli artt. 2 comma 2 e il 24 della Convenzione di New Y ork disciplinano la tutela del
diritto alla salute di tutti i minori non solo di quelli che hanno la cittadinanza;
l’art. 32 comma 2 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure
gratuite agli indigenti”;
INVITA IL PRESIDENTE E LA GIUNTA REGIONALE:
a riconoscere l’assistenza sanitaria di base anche per i minori non regolari tramite
l’attribuzione del Pediatra di libera scelta e l’erogazione di determinate prestazioni
sanitarie per i figli di immigrati extracomunitari senza permesso di soggiorno.

Umberto Ambrosoli

Lucia Castellano
Fabio Pizzul
Laura Barzaghi
Roberto Bruni
Carlo Borghetti
Michele Busi
Marco Carra
Paolo Micheli

Gianantonio Girelli

Sara Valmaggi

esperienze, salute Luglio 2, 2013

Un aborto terapeutico

Mi scrive “Mamma di briciolina”, e qui pubblico il racconto della complessa e dolorosa esperienza di una donna, che prova il desiderio di condividerla. 

Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai.

Quattro mesi fa ho subito un aborto terapeutico alla 19a settimana. Il mio bambino aveva una gravissima malformazione cardiaca incompatibile con la vita.
Non voglio raccontarvi lo strazio dei mesi precedenti, l’immenso dolore dei momenti precedenti e di quelli successivi. Vi vorrei raccontare del meraviglioso supporto offerto dai medici che lungo la strada abbiamo incontrato e che ci hanno aiutato a vivere senza ulteriori ostacoli le ultime settimane con nostro figlio. All’ospedale Sacco, al Buzzi, alla Mangiagalli e al policlinico di San Donato abbiamo trovato medici con alti livelli di specializzazione che hanno saputo fare con attenzione tutte le valutazioni di un caso estremamente complesso come il nostro, ma soprattutto hanno seguito con cura e premura ogni nostra visita e la crescita della creatura che avevo in grembo. Io ringrazio il cielo per tutto il personale ospedaliero che abbiamo incontrato:  i dottori, le infermiere e soprattutto l’ostetrica del Sacco che ha accolto mio figlio tra le sue mani e gli ha dato l’ultimo saluto.

Abbiamo scoperto che nostro figlio aveva una “complessa malformazione cardiaca” molto presto, alla 15 settimana. Sono stati i medici del Sacco a fare la prima valutazione. Ci hanno ricordato che la legge ci consentiva “di fare le nostre scelte secondo coscienza”. Abbiamo aspettato alcune settimane, per valutare la gravità della malformazione. In tanta tristezza nasceva in me una forza incredibile. Una forza di difendere questa vita con i denti stretti, a tutti i costi. Non mi importava se nostro figlio non sarebbe mai stato un campione olimpico, se non avrebbe mai potuto fare i viaggi con lo zaino in spalla e tante cose. Io volevo difendere questa vita a tutti i costi. Volevo dargli una vita. Non mi interessava la mia qualità di  vita, non mi importava di soffrire. Volevo lui vivesse. Nell’attesa ho incominciato a sentirlo muoversi. Mi sembrava un segno. Mi sembrava che fosse forte. Ma rimasi da sola a pensarla così. Nessuno ci credeva più. Anche il suo papà aveva cominciato a  gettare la spugna. E io invece ballavo di nascosto con lui, prendevo la Folina, mi alimentavo bene, mi accarezzavo la pancia, gli parlavo, lo proteggevo.
Abbiamo fatto l’amniocentesi al Sacco perché i medici temevano ci fosse un’alterazione cromosomica. Ma con il tempo, man mano che il cuore del nostro bambino diventava più grande e le ecografie più nette, la situazione si complicava. La speranza  cominciava a svanire. Siamo stati al Buzzi, e poi al policlinico di San Donato. Ringrazio tutti i medici che mi hanno visitata. Quei  medici che ci hanno accompagnato, che ci hanno accolto e che hanno risposto a tutte le nostre domande. Ci hanno chiamati per nome, e ci hanno aiutato a fare la scelta che a noi sembrava più giusta. Ci hanno informato senza nasconderci nulla, ma hanno messo cuore in ogni parola che ci hanno consegnato.
Abbiamo fatto tutte le visite necessarie, gratuitamente, attraverso il servizio sanitario, senza aspettare più di 48 ore. Dentro e fuori dagli ospedali di Milano.
Alla 18 settimana un’ecografia più nitida squarciò quella parvenza di felicità:  non solo la parte destra del cuore non era cresciuta, ma anche la parte sinistra aveva un difetto e l’arco aortico era interrotto. Malformazione incompatibile con la vita. “Ineluttabile” è stato l’ultimo aggettivo che ho memorizzato prima di scegliere. E poi sono arrivati giorni di febbre altissima e digiuno. Giorni bui, giorni di assenza. Fino al ricovero in ospedale. Mi hanno indotto un parto. Un parto vero. Chiesi di essere stordita. Mi diedero la morfina. Ma non fu abbastanza. Non abbastanza per non essere lucida. A un’ostetrica devo molto, la ringrazierò per sempre per avere atteso che calmassi il mio pianto prima di farmi spingere. Per avermi aiutata, per avermi protetta, per avermi detto quando chiudere gli occhi. Come volevo io.

Il giorno più brutto è stato il primo risveglio a casa, senza pancia, e senza di lui. Tutte quelle attenzioni alimentari e nel muovermi erano inutili. Ero magrissima, uno scheletro, senza forza di camminare. Partorire un figlio alla 19 settimana di gravidanza è una cosa mostruosa.
Sono passati quattro mesi. Nostro figlio ci manca. Ma è una presenza più dolce. Ho capito che il mio amore son sarebbe stato sufficiente a far battere quel cuore fuori di me. Fuori da me non avrebbe respirato. Mi sono attaccata al suo papà come fosse il mio respiratore.
Ora ci segue una genetista della Mangiagalli. Ci ha aiutato a capire, ci ha informato sul nostro futuro, con un amore e un attenzione che a volte non si trovano nemmeno in un amico.
Non sono arrabbiata con nessuno. Nessun discorso sull’ingiustizia: implicherebbe una colpa, un giudice e un condannato. Non è così.  La gravidanza non è meritocratica.

Mio figlio per me è una presenza costante. Una cicatrice sulla pelle. Sarebbero mancate poche settimane e l’avrei conosciuto. L’ avrei stretto tra le mie braccia, l’avrei posato sul mio petto, avrei chiuso il mio dito tra le sue mani. Lo immagino con gli occhi azzurri del suo papà. E a volte, quando lo guardo, mi sembra di guardare lui. E’ nei miei pensieri. Ogni giorno, ogni momento. Occupa tutta la mia testa, i miei pensieri, i miei sogni, così come prima occupava il mio corpo.

Sembrerà assurdo, ma ci sono giorni in cui sono felice. Felice di quello che ho provato, felice di quello che ho ricevuto dalla vita. Dell’amore che ho respirato. Per aver ballato, camminato, preso il treno, fatto yoga con lui.  Mi sento ancora fortunata per essere stata ed essere ancora mamma. Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai. Ho ancora il suo papà al mio fianco. La radice della vita insieme a me. Guardo i bimbi, le pance delle amiche che crescono e penso “che bella la vita, che bello essere generatrici di vita”.
La natura ci chiede di aspettare, e non credo sia a torto. Il mio corpo sanguina ancora. E i miei occhi sono ancora pieni di lacrime”.

Donne e Uomini, Politica, salute Luglio 31, 2012

Proposte sull’aborto: depenalizzazione e class action

1975, manifestazione per la depenalizzazione dell’aborto

Il Comitato Nazionale per la Bioetica sta per rendere pubblico un documento sul tema dell’obiezione di coscienza in tutte le pratiche biomediche “sensibili”, dall’aborto alla fecondazione assistita alla vivisezione (nonché, in prospettiva, per questioni come eutanasia, testamento biologico e via dicendo).

Il documento, che è stato votato a maggioranza (un astenuto) afferma in sintesi che “l’obiezione di coscienza in bioetica è un diritto costituzionalmente fondato (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo), costituisce un’istituzione democratica, in quanto preserva il carattere problematico delle questioni inerenti alla tutela dei diritti fondamentali senza vincolarle in modo assoluto al potere delle maggioranze, e va esercitata in modo sostenibile”. Ovvero, fatto salvo il diritto di obiettare, lo Stato ha il dovere di mantenere “l’erogazione dei servizi, con attenzione a non discriminare né gli obiettori né i non obiettori”.

Ma nel caso della legge 194 sull’aborto, i due diritti –quello a obiettare e quello di vedere applicata la legge- sono entrati da tempo in rotta di collisione.

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2009 il 70,7 per cento dei ginecologi è obiettore e in costante aumento (nel 2005 era il 58,7 per cento). In crescita anche il numero degli anestesisti obiettori (51,7 per cento) e del personale non medico (44,4 per cento). Al Sud la quasi totalità dei ginecologi è obiettore, con punte del 85,2 per cento in Basilicata, e in alcune realtà l’interruzione di gravidanza non è praticata tout court.

Anche a me pare che esista un diritto all’obiezione e che vada salvaguardato, tenendo tuttavia presente che in quota significativa si obietta non per ragioni di coscienza ma di carriera. L’obiezione è un semplice atto amministrativo. Dovendo garantire il servizio, gli ospedali forse dovrebbero tenere conto, al momento dell’assunzione di personale medico e paramedico, di una dichiarata disponibilità a praticare interruzioni di gravidanza, stabilendo una quota minima di non obiettori. Ma un* può sempre cambiare idea e obiettare “in corso d’opera”.

Suggerisce Giorgio Gottardi, ginecologo milanese, attivo sul fronte della 194 fin dagli anni Settanta: “Se si stabilisse un meccanismo incentivante e premiale per quei pochi che, devo dire, con un certo eroismo continuano a garantire l’applicazione della 194 –un vantaggio economico, o di carriera– gli obiettori per opportunismo diminuirebbero significativamente”.

Ma forse la soluzione vera, conviene anche Gottardi, consisterebbe nella depenalizzazione dell’aborto. Nel lungo percorso che portò all’approvazione della legge 194 nel 1978 si contrapposero due posizioni: aborto “gratuito e assistito” e (minoritaria, sostenuta soprattutto dai Radicali) depenalizzazione del reato di aborto, ovvero la possibilità di abortire –e di praticare aborti- senza essere perseguiti legalmente. Passò la prima ipotesi, e oggi l’aborto è ancora reato se praticato fuori dalla struttura pubblica.

Si potrebbe congegnare un meccanismo che, fatta salva la possibilità di abortire in ospedale, consenta alla donna di scegliere anche la strada “privata” (con tutte le garanzie a tutela della sua salute). Non più un aut-aut, insomma, ma un et-et. Soluzione che alleggerirebbe enormemente l’impegno della sanità pubblica, e soprattutto sanerebbe la piaga dell’aborto clandestino, a cui oggi, con una legge sostanzialmente disapplicata, sempre più spesso le donne sono costrette a ricorrere.

Il dibattito potrebbe essere riaperto con una class action contro le unità sanitarie che attentano alla salute delle donne non erogando un servizio previsto dalla legge e costringendole alla clandestinità, con tutti i rischi connessi.

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, salute Luglio 5, 2012

Spending Review: quanto costa a noi donne

La chiusura di quasi 150 piccoli ospedali, da Conegliano a Iglesias, e la diminuzione dei posti letto, misure contenute nella spending review del governo Monti, tra le molte conseguenze avranno questa, come sempre sottostimata, anzi totalmente ignorata dagli analisti e dai media: che noi donne dovremo lavorare di più. Se le possibilità di ricovero si ridurranno, toccherà essenzialmente a noi farci carico della quota supplementare di lavoro di cura che si rende necessaria quando c’è un malato in casa.

Questo significa che avremo ancora meno tempo per tutto il resto. Che aumenterà il numero di quelle che il lavoro non lo cercano più. Che di conseguenza la natalità non crescerà: il tasso di nascite ha una correlazione positiva con il tasso di occupazione. Che non crescendo l’occupazione femminile, non crescerà corrispettivamente nemmeno il Pil. Che occuparsi di cose come la politica, figuriamoci! con sofferenza per il Paese, costantemente privato di metà del doppio sguardo. Che si cronicizzerà la nostra condizione di welfare vivente. Che a nostra volta ci ammaleremo di più, sotto un peso sempre più mostruoso e sempre meno condiviso: non esistono più le grandi famiglie, non c’è la possibilità di distribuire il carico, compreso quello psicologico, sempre più spesso sei da sola. Con conseguente possibile aggravio della spesa sanitaria.

Questo per dire che in un Paese come il nostro i provvedimenti del governo non pesano allo stesso modo sui due sessi, e quando si varano occorre valutarne attentamente l’impatto anche dal punto di vista del genere.

Sarebbe compito della ministra per le Pari Opportunità Elsa Fornero.