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bambini, cronaca, Femminismo Dicembre 12, 2014

Alle mie amiche ricordo che la vittima è il piccolo Loris. Non sua madre

Un bambino barbaramente ucciso. E sua madre, una ragazza -per cui vale, come per tutti, la presunzione di innocenza- indicata dagli inquirenti come la sua assassina. Ma circola un femminismo giustificazionista che rischia di fare il paio con il colpevolismo mediatico. E’ per questo che scrivo questo post, rompendo un istintivo riserbo su questo dramma.

No al colpevolismo mediatico. No all’innocentismo ideologico.

Fin dal principio della storia ho temuto che le cose potessero essere andate nel modo in cui gli inquirenti ritengono che siano andate: che una madre poteva avere ucciso il suo bambino. E’ già capitato e capiterà ancora. Così come capiterà ancora che, per un misterioso meccanismo di denegazione, la donna finita nel gorgo orrendo del figlicidio neghi fino alla fine di averlo commesso -davvero convinta di non averlo commesso- perfino dopo essere stata condannata, perfino dopo aver scontato la condanna.

Nella “sarabanda infernale” (Winnicott) che è il rapporto madre-figlio è contemplata anche la possibilità che lei uccida la creatura, e che la creatura uccida lei.

Vero che tanti uomini uccidono i loro figli, e molto più spesso delle madri (quasi il 90 per cento di tutti gli omicidi sono commessi da uomini): ma per quanto sia orribile, è un orrore che non sembra non arrivare a uguagliare quello di una madre figlicida. Quando una madre uccide siamo scossi fino alle fondamenta, perché mater semper certa est, il suo amore non meno certo, gratuito e scontato, una madre deve sempre essere assolutamente buona.

Si possono dire tante cose. Si può scandagliare fino agli abissi. Ma non si può trarne, come mi pare di infraleggere in alcuni commenti, una richiesta di impunità. Se la ragazza Veronica ha ucciso il suo bambino, anche tenendo conto di un’eventuale instabilità mentale, è necessario che paghi il suo delitto.

Il rischio di una generosità che si spinge solidalmente a cercare nella vita di lei ogni possibile chiave per giustificare -traumi, disagi, solitudine, una madre “cattiva”: perché poi, paradossalmente, per la madre della madre non ci sono attenuanti, lei è assolutamente cattiva- è quello di inchiodare le donne a una sorta di cittadinanza minore, che le dispensa da un’assunzione piena delle proprie soggettive e oggettive responsabilità. Quest’operazione giustificazionista ha altissimi costi, ed è profondamente ingiusta.

Se Veronica ha davvero ucciso Loris, il più dei sentimenti di pietà di cui sono capace è per il bambino. Senza tentennamenti.

Tutti possiamo essere vittime di qualcosa o di qualcuno. Anche Veronica, certo, e anche la sua mamma che non esitiamo a pensare come “cattiva”. Ma in questa catena di dolore e di colpe è il più debole e indifeso ad avere pagato.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile, Senza categoria Dicembre 3, 2014

Noi e loro: le donne dell’Islam, Isis, Allah. Conversazione con Luisa Muraro

Aïcha El Hajjami

Il numero di dicembre del periodico Via Dogana (l’ultimo, almeno per ora), edito dalla Libreria delle Donne di Milano, pubblicherà un articolo dal titolo “A proposito del sedicente Stato islamico (o Isis)” a firma di Aïcha El Hajjami.

Marocchina, Aïcha El Hajjami ha insegnato giurisprudenza a Fès e Marrakech, è ricercatrice e studiosa dell’Islam e si occupa in particolare dello studio e dell’applicazione del nuovo diritto di famiglia e della posizione giuridica e politica delle donne nell’Islam. È anche consulente per vari organismi nazionali e internazionali. È nota per aver tenuto una lezione al re del Marocco Mohamed VI durante il Ramadan del 2004 (vedi VD 75, Il re e la maestra).

L’intervento di Aïcha mi offre lo spunto per una (lunga) conversazione con la filosofa Luisa Muraro, che con lei è in relazione politica da anni, sui temi affrontati nell’articolo: Isis, Occidente, condizione delle donne. Partiamo dall’inumanità e dalla ferocia dei jihadisti, che secondo Aïcha sono “il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni… conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabomusulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali;del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.

La chiave, dunque, per Aïcha è l’umiliazione. Analisi sulla quale si può facilmente concordare. Ma la diagnosi non costituisce una terapia: che cosa si deve fare per fermare Isis e le sofferenze che provoca?

“Il lavoro di Aïcha è provare a contenere e impedire il contagio del fanatismo tra i giovani maschi del mondo arabo musulmano, sia tra quelli che vivono in quei paesi sia tra i figli di immigrati nei nostri paesi. Lei lotta insieme a molte altre donne e uomini perché valga un’interpretazione più giusta dell’Islam e delle parole del profeta Maometto, contro la lettura  fanatica e la rabbia vendicativa, peraltro già esplicitamente condannate da svariate autorità religiose”.

E con quali mezzi fa questo lavoro? Ci sono altre donne impegnate a farlo?

“Il 12-14 novembre ho preso parte a un convegno internazionale a Rabat al quale state erano invitate donne delle tre grandi religioni monoteiste, e anche, come nel mio caso, donne che portavano un contributo filosofico. L’Islam è l’ultima delle tre grandi religioni, e ha raccolto molto del messaggio sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento. Per fare un esempio: riconosce Maria di Nazareth come profeta. Maometto non è che l’ultimo di una serie di profeti che comincia con Mosè, e in questa serie c’è anche Maria”.

Che per noi non è una profeta…

“Nella Chiesa delle origini la figura di Maria era tenuta in grande conto. C’è lei a pregare con gli apostoli, quando arriva lo Spirito Santo. E’ lei a capo di questa assemblea di uomini spaventati”.

Che cosa hai visto a Rabat a testimonianza dell’impegno antifondamentalista?

“Ho visto molte donne ben presenti nel vivo delle società di religione islamica: maestre, professoresse, teologhe, consigliere di entità politiche e religiose. Sono anche predicatrici: Aïcha, che è sunnita, è titolata a predicare nelle moschee, in più c’è il suo lavoro di consigliera. Altre invece sono teoriche pure, impegnate a dimostrare come lo spirito dell’Islam sia gravemente tradito dai guerrieri jihadisti. Secondo loro è un lavoro efficace, sia nei loro sia nei nostri paesi. D’altro canto le minoranze musulmane d’Occidente si sono spesso pronunciate contro Isis, benché anche da noi vi siano giovani malconsigliati che si uniscono al jihad”.

Colpisce che sia il medesimo libro, il Corano, a fondare sia il femminismo islamico che le atrocità di Isis. Si parte dalla stessa fonte, con esiti tanto diversi.

E’ successo anche da noi. Nella civiltà europea premoderna, imbevuta di fervore cristiano, la fede è stata fonte di atti eroici, di grande devozione, della cura degli infermi in nome di Gesù… Ma nello stesso nome di Gesù altri andavano in giro a sgozzare il prossimo. Ho letto la bellissima lettera degli Ulema Sauditi al “califfo” Al-Baghdadi: gli dicono che sta sbagliando, e testo alla mano gli mostrano dove. Gli dicono: tu metti la spada allo stesso posto della misericordia, ma il Profeta ha sempre detto che la spada si usa limitatamente a certe situazioni, mentre la misericordia di Dio è assoluta, e trionfa, è scritta sul suo trono. Tu e i tuoi seguaci, gli scrivono, siete una ferita terribile per l’Islam, per i popoli musulmani e per l’umanità intera. Sul numero di via Dogana che ospita l’intervento di Aïcha è riportata la parola del Profeta, che spiega: Jihad piccolo è usare il coraggio e la spada, quello grande è tenere a bada i propri impulsi e istinti“.

Si può parlare di un movimento delle donne nei paesi islamici? Abbiamo menzionato personalità femminili eminenti, che fanno un grande lavoro: ma c’è qualcosa che somigli a un movimento delle donne come noi lo conosciamo?

“Ci sono paesi più vicini al nostro modo di concepire la politica, come la Tunisia: lì c’è una base di movimento femminista, con associazioni e gruppi, ispirato al femminismo francese. Ma c’è anche un femminismo che vuole salvaguardare e custodire i valori religiosi, un femminismo che passa attraverso la parola. Aïcha appartiene a questo tipo di femminismo. Io l’ho conosciuta a Parigi, lei ha spiegato la strada che stava intraprendendo con altre e ci sono state critiche di femministe marocchine che avevano una formazione laica, e che chiedevano la separazione tra Stato e Chiesa, tra religione e politica. Io invece mi sono convinta della bontà degli argomenti di Aïcha”.

Quel legame tra la libertà femminile e Dio, tu come lo pensi? Come un limite di quel femminismo o come una risorsa? Te lo chiedo in particolare per il fatto che hai dedicato gran parte del tuo lavoro degli ultimi anni al pensiero delle mistiche.

“La borghesia occidentale ha voluto la separazione non solo tra Stato e Chiesa, separazione che è benefica, ma anche tra religione e la politica. E’ un’operazione finta. Di tutto si può fare politica, anche della fede. E la borghesia ce ne ha dato più volte dimostrazione. Queste realtà che riguardano gli esseri umani non sono separabili. Sono anche sicura che una religione meno costruita della nostra, in cui c’entra molto il potere degli uomini e il prestigio del sesso maschile, una religione più libera, più fluida, come quella che si vive nella tradizione mistica, per le donne sia la possibilità straordinaria  di dialogo interiore con l’Assoluto, con il divino, con l’Amore. Quelle che io ho incontrato ne hanno guadagnato forza per sé”.

Che cosa sta sfuggendo di essenziale nella percezione comune, quando parliamo di Islam? E in particolare quando parliamo delle donne di quei paesi, di cui in questo momento non sentiamo la voce?

“Ci sfugge  la dimensione spirituale. Il senso della giustizia, della pietà, della misericordia. La puntura dell’interiorità, che non va intesa come la intendiamo noi. Si tratta di una dimensione interiore costantemente curata insieme al comportamento esteriore. Noi vediamo una interpretazione molto maschile dell’Islam, ma l’Islam non è quello. Nell’Islam c’è anche una cultura di separazione fra i due sessi. Noi la intendiamo solo come segregazione femminile. Ma in una società dove gli spazi sono più grandi dei nostri piccoli appartamenti, le donne hanno grandi spazi per vivere tra loro, e per vivere bene, con agio, una vita civile. Il nostro immaginario è deformato perché l’immigrazione mette queste donne e questi uomini in situazioni pesanti, difficili da sopportare, e quindi questo agio femminile qui non lo vediamo. Però non si può negare che nelle campagne povere l’Islam sia una forma di patriarcato, com’è stato il Cristianesimo nelle nostre campagne povere fino a non molti decenni fa, quando gli uomini comandavano totalmente sulle donne, e questo veniva rivestito di Cristianesimo”.

Aisha scrive: “Abbiamo bisogno di un pensiero critico sul nostro patrimonio religioso e culturale, così come sulle sfide che ci vengono dalle ricadute della modernità e dalla globalizzazione. Dobbiamo occuparci di risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne. Bisognerebbe anche agire sugli aspetti economici dello sviluppo e aver cura di assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali. Il jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd”. Non dovremmo, a tuo parere, contribuire da occidentali a questa lettura critica? Dire esplicitamente, per esempio, che per una donna e per la sua libertà quella cultura è meno ospitale della nostra?

“No, non sarebbe giusto. Le differenze culturali sono così profonde che rendono incommensurabili le situazioni. Il nostro compito è far conoscere la nostra cultura e la nostra civiltà senza complessi, ma anche conoscere meglio, più profondamente e dare più ascolto alla loro civiltà”.

E quali sono le occasioni di ascolto, qui in Occidente?

“Ormai nelle periferie è possibile intrecciare relazioni reali con questa gente. Nella scuola dei miei nipotini ci sono brave maestre che stanno facendo un grande lavoro di integrazione rispettosa. Davanti a scuola vedi madri di bambine e bambini italiani e stranieri. In attesa della campanella ascoltavo i discorsi, e devo dire che talvolta le cose andavano bene, talvolta no. Molte madri milanesi erano esposte all’influsso di discorsi xenofobi, ripetevano luoghi comuni, magari anche con argomenti non infondati: bisogna sapere ascoltare le popolazioni delle periferie che sono messe in difficoltà da questa immigrazione povera. Il problema è questa povertà. L’Islam che queste mamme milanesi vedono è povertà e difficoltà”.

Ma se non ammettiamo l’inevitabilità di un quid di xenofobia, rischiamo che siano i razzisti e gli xenofobi veri a dare parole estreme a questi sentimenti di disagio…

“Sono d’accordo. Occorre generosità sia nei riguardi degli immigrati sia nei riguardi di quelli che fanno fatica in questa convivenza. Prima avevano una vita tradizionale in cui i loro modi di pensare e di essere erano pacifici e universali, e all’improvviso si trovano davanti a presenze che li mettono in discussione. In più c’è il problema della lingua, del capirsi. Le maestre fanno grande opera di civiltà. Non fanno prediche a nessuno, mostrano affetto per i bambini degli immigrati e quindi sono amati dalle loro madri e dai loro padri, e poi hanno buoni rapporti con le madri locali, fanno feste a fine anno dove tutti contribuiscono con il loro cibo. Questo lo fanno anche tante associazioni, le parrocchie, sempre all’insegna del buon esempio e senza fare prediche. Bisogna essere severi con chi per tirare su voti semina odio: con questi no, non si deve essere indulgenti”.

Al di là di queste relazioni quotidiane, con queste donne si può costruire un legame più propriamente “politico”?  Un lavoro di coordinamento, di riflessione comune?

“Io ci riesco solo a livello di scambio colto con studiose di quei paesi. Ma il livello “politico” come lo intendiamo noi, che con la Rivoluzione Francese, e via via con i partiti di sinistra, con il movimento operaio e così via, ci siamo abituati a un agire che coinvolge anche i ceti medi, anche le persone meno attrezzate e più semplici, in altre situazioni non esiste. Per esempio sono stata in Africa, nel Burkina Faso, e ho provato a spiegare alle donne di lì questa forma di agire politico, ma non sono riuscita a fare loro capire che cos’è. Loro concepiscono provvedimenti calati dall’alto che aiutino i poveri. L’idea dei movimenti, della mobilitazione sfugge”.

Recentemente a Padova c’è stato il caso di alcuni profughi che hanno rifiutato di essere visitati da mediche, e l’Asl ha dovuto richiamare tre medici maschi pensionati per accontentarli.

“Dicevamo prima che loro sono abituati a una forte separazione tra i sessi. Vedersi toccare intimamente da una persona dell’altro sesso contravviene a un forte pudore che è anche maschile. Anche a Rabat c’erano uomini, partecipanti al convegno o servizio d’ordine o camerieri. Loro evitavano il contatto fisico in ogni modo. Quella Asl ha fatto molto bene, è stato un atto diplomatico e di grande civiltà”.

Tu non vedi il rischio di assecondare sentimenti misogini?

“Le emozioni che una persona ci mette dentro possono essere le più varie. Ma le interpretazioni –è misoginia, è disprezzo eccetera- ci portano già nel terreno scivoloso della mancanza di rispetto per l’altro”.

Ma dopo questo primo impatto in cui vengono dimostrati rispetto e pazienza, non si può cercare di spiegare: qui le cose vanno diversamente, dovete adeguarvi?

“Il tema è quanta capacità di adattamento abbiano questi immigrati. Io credo che la capacità sia diminuita dalla rabbia per quello che hanno vissuto nei loro paesi. Lì si è accumulato risentimento verso l’Occidente che li ha colonizzati, sopraffatti. Non è stato dato loro il tempo di recuperare il ritardo in cui sono finiti perché lo sappiamo com’è il capitalismo, che ha la terribile fretta del profitto. I cinesi si difendono bene e si adattano velocissimamente, e in fatto di capitalismo abbiamo solo da imparare da loro. I latinoamericani si inseriscono facilmente, favoriti dalla lingua e dalla comunanza di religione. Per i musulmani è più difficile. Sono popolazioni orgogliose e irrigidite nelle loro posizioni. In città meno grandi di Milano ho fatto esperienza di donne mussulmane ospitali e rilassate. Ricordo che anche tra gli emigrati italiani nella zona miniera del Belgio, che ho visitato da giovanissima, le donne davano prova di maggiore elasticità degli uomini, specialmente dei padri di famiglia”.

Corpo-anima, diritti, Femminismo, salute Novembre 28, 2014

Policlinico Roma: niente più aborti causa obiezione. Ecco una proposta per uscirne. Ma serve la lotta di tutte

Il cartello affisso al Policlinico di Roma

Policlinico Umberto I, Roma. L’ultimo non obiettore è andato in pensione. Il servizio Ivg è sospeso.

Non è il primo caso nè l’unico di “obiezione di struttura” in Italia. Ma il Policlinico è il più grande ospedale di Roma. Ora la direzione sanitaria sta cercando «un giovane ricercatore o associato da destinare all’attività assistenziale». Al netto delle responsabilità sul singolo caso, che devono essere accertate (direttore generale, direttore sanitario e di presidio, fino al ministero per la Salute), il caso del Policlinico è solo la punta di un iceberg: in Lazio l’obiezione di coscienza è al 90 per cento e costringe le utenti a migrare in altre regioni, l’obiezione media in Italia supera ampiamente il 70 per cento, con intere regioni sostanzialmente scoperte.

A quanto pare, e nonostante il Consiglio d’Europa pochi mesi orsono abbia condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne”, il governo Renzi non intende affrontare la questione. La logica -del tutto insensata- è che se la 194 non sarà più applicata, non vi saranno più aborti. La non applicazione della legge garantisce invece solo una crescita esponenziale degli aborti clandestini e fai-da-te (il moderno prezzemolo sono i farmaci antiulcera), con gravissimo rischio per la vita delle donne.

Molte e molti indicano come soluzione la proibizione dell’obiezione. Ma questa strada non è praticabile, e scatenerebbe raffiche di ricorsi. L’obiezione di coscienza -che si spieghi con effettive ragioni di coscienza o che sia solo opportunistica- è un diritto sancito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale, oltre che dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”.
Ma la Corte di Strasburgo afferma che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

La soluzione, quindi, non può essere il divieto di obiezione. C’è un’altra strada che merita di essere considerata, e sostenuta con la lotta: che ogni reparto di ostetricia preveda il 50 per cento di medici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico, e consenta così la rotazione del personale medico e paramedico.

Questa soluzione si fonderebbe su almeno due sentenze: una sentenza del TAR PUGLIA (14/09/2010, n. 3477, sez. II) afferma infatti che “ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50% per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50% per medici specialisti obiettori”; un’altra sentenza del TAR dell’Emilia Romagna  (sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss), sostiene “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

L’alternativa è solo la depenalizzazione dell’aborto, ipotesi che negli anni Settanta fu sostenuta solo da una minoranza del movimento delle donne. In sostanza: non sia lo Stato a occuparsi della questione, si consenta al privato di praticare interruzioni di gravidanza (con le indispensabili garanzie igienico-sanitarie) senza che questo costituisca reato. La 194 invece stabilì che l’aborto non è perseguibile come reato unicamente se praticato nelle strutture pubbliche.

Una cosa è certa: qualunque sia la soluzione individuata contro la non applicazione della 194, senza una lotta massiccia e diffusa delle donne di questo Paese non si arriverà da nessuna parte.

 

ambiente, Donne e Uomini, economics, femminicidio, Femminismo, Politica, questione maschile Novembre 22, 2014

25 novembre: la stessa violenza sulle donne e sulla Terra

 

Quella sulle donne e quella sulla Terra sono manifestazioni della stessa violenza: come dice Winnie Byanyma bacchettando il #G20: i potenti della terra non possono permettersi di ignorare che le due maggiori sfide del nostro tempo sono la disparità di genere e il cambio climatico. 

La proposta è che il prossimo 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, si tenga conto della connessione diretta fra violenza contro le donne e violenza contro il Pianeta, e si raccolga la sfida nella sua complessità, coinvolgendo il massimo numero di altre e altri.

All’assunzione del tema nella data fortemente simbolica del 25 novembre potranno seguire altre iniziative. Un’importante occasione potrebbe essere il prossimo il 14 febbraio, in occasione di One Billion Rising: il tema quest’anno è “rivoluzione”, perfettamente in sintonia con lo sforzo per un cambio di paradigma.

Lo spirito dell’iniziativa è bene illustrato da Vandana Shiva:

“Ho più volte sostenuto che lo stupro della Terra e lo stupro delle donna sono intimamente connessi – sia metaforicamente, nel modo di cui si costruisce la visione del mondo, sia materialmente: nel modo in cui si costruiscono le vite quotidiane delle donne. (esiste una stretta) connessione tra lo sviluppo di politiche economiche violente ed inique, e l’aumento di crimini contro le donne. (…) L’idea di una crescita illimitata in un mondo limitato può mantenersi solo attraverso il furto delle risorse del debole da parte del potente. E il furto di risorse, essenziale per la crescita, crea una cultura dello stupro: lo stupro della terra, delle economie locali autosostenibili, lo stupro delle donne. (…) Dobbiamo cambiare il paradigma dominante: porre fine alla violenza contro le donne significa anche superare l’economia violenta a favore di economie pacifiche e non violente, capaci di rispettare le donne e il Pianeta”.

 Chi promuove questa azione? Non c’è una precisa maternità dell’idea: chiediamo di riconoscere l’iniziativa come nata spontaneamente da confronti diretti e sui social network. Chi approva i contenuti li raccolga, trattandoli come preferisce e facendo il possibile per diffondere e rilanciare (sui blog, social network, via email ecc)

Ecco gli hashtag da rilanciare:

#25novDonnePianeta      #25novWomenforPlanet 

#NoPlanetB          #NonesistePianetaB

Una chiamata delle donne ad azioni urgenti per il clima anche in questa dichiarazione approvata un anno fa dall’IWECI (International Women’s Earth and Climate Summit), c integralmente recitata in italiano  in questo video.

Il 25 novembre mobilitiamoci contro la violenza sulle donne e sulla Terra.

 

 

 

 

 

 

 

Donne e Uomini, Femminismo, Politica Novembre 21, 2014

L’autogoal di Moretti Ladylike

Mi costringo a scriverne, obtorto collo e in ritardo. Parlo della disastrosa videointervista ad Alessandra Moretti, d’ora in avanti e per sempre LadyLike, candidata a competere con Luca Zaia, che è osso ben duro, per il governo di Regione Veneto. Che sarà pure “scalabile”, come lei dice in gergo leopoldesco, ma certo non in questo modo: elettrici irritate, elettori eccitati nella loro misoginia più crassa, cosa che, mi permetto di dire, fa male a tutte.

Già c’è un bel po’ di roba da far digerire: le giravolte da Bersani via Cuperlo fino a Renzi, e troppe poltrone in pochi mesi, Camera, Europarlamento, Regione Veneto: e “la gente mica è scema, capisce”, come dice lei. Esatto. E ora l’estetista settimanale, le meches e i peli: non esattamente quello che serve per farsi votare dai veneti incazzati.

Moretti non può essere definita una simpatica naturale: algida, supponente, ragazza perfetta. Forse, dicendo peli ai peli, pensava a un’operazione friendly. Ma non basta, come si è visto, diventare renziane per acquisire l’astuzia comunicativa del capo: la trappola tesa dai giornalisti era evidente, e lei ci è cascata in pieno, con meches e tutto il resto (non voglio nemmeno pensare che si sia trattato di una strategia di comunicazione, a meno che i consulenti fossero gli spin doctor di Zaia).

Ma quello che avvilisce, al netto dell’insopportabile riferimento a Rosi Bindi –ancora???-, è il misunderstanding sul femminile in politica. “Io non voglio acquisire lo stile maschile di fare politica” dice Moretti a un certo punto dell’intervista. “Voglio avere il mio stile, femminile”. Qui si accende la speranza. Subito tradita: “La cura di me stessa, la voglia di essere sempre a posto…”. In verità tutti quanti, da Obama a Razzi, un’occhiatina allo specchio prima di uscire se la danno. Come ha ricordato Massimo Cacciari, “lo diceva anche Platone che bisogna tenere all’aspetto esteriore”.

Il “femminile in politica” è ben altro. E’, per esempio, non ricorrere a quel gergo da ad di provincia (il Veneto “scalabile”). E’ non lisciare il pelo ai cacciatori asserendo che “La caccia tiene in vita il territorio” per assicurarsi i voti della lobby: troppo femminile la caccia non è mai stata. E’ l’etica della cura (non di se stessa, ma del mondo) e della responsabilità. E’ un’idea di bellezza che poco ha a che vedere con la manicure. E’ non permettere che la propria grazia fisica venga usata dalla politica maschile come specchietto per le allodole. E’ trovare ben altri fondamenti per la propria autorità, e saperla esercitare con fermezza materna. E’ relazione con le altre. E’ provare a cambiare le priorità dell’agenda politica: primum vivere. E’ faticosamente rompere con la logica delle correnti, e non navigarle tutte. E’ la definitiva fuoruscita dall’anti-estetica televisiva berlusconiana, quanto di meno femminile ci sia sulla faccia della terra. E’ la minima eleganza di non autodefinirsi bella, brava, intelligente, capocannoniera e cicciobombardona: “Nella Nazionale mandi i migliori “(cioè lei, ndr. sob…). E’ rifiutarsi cortesemente di rispondere a domande tendenziose dei giornalisti (che pure, mossi a pietà, a un certo punto avvertono: “Su questa cosa la massacreranno sui social…”), dicendo che certi temi sono inessenziali a fronte dei problemi del Paese. In particolare se sai che il sospetto generale è che tu sia lì solo perché sei carina, e non per altro. La bellezza che serve è quella di un pensiero luminosamente differente contro l’eccesso di maschile nella nostra politica, non la licenza di un antibindiano tacco 12.

Anche solo tatticamente: non è una furbata parlare di “estetista una volta la settimana” in un momento di difficoltà così grandi e di rabbia sociale trattenuta a stento, quando la gente, altro che estetista, fatica a garantirsi il panettiere. Perché dovrebbero fidarsi di te se tu sei così lontana dai loro problemi e dai loro drammi, se ostenti di vivere spensieratamente in quel detestato mondo parallelo dove il colore dello smalto e la crema idratante diventano temi di cui occuparsi? Dov’è l’intelligenza politica, si chiedono in molte e in molti, e se qui manca così clamorosamente, perché dovrebbe essercene per governare il Veneto?

Altro che capocannoniera chiamata in Nazionale: quell’intervista “ladylike” è un clamoroso autogoal, e potrebbe costare cara.

Donne e Uomini, Femminismo Novembre 18, 2014

Le mediche donne e l’onore dei maschi musulmani

Elena Lucrezia Corner Piscopia, prima donna laureata al mondo, nel 1678 a Padova

A Padova, Unità Sanitaria Locale 16, alcuni profughi di religione islamica si sono rifiutati di essere visitati da mediche donne. Per corrispondere alla loro richiesta, non fronteggiabile con l’organico in servizio già oberato di superlavoro, l’Unità Sanitaria ha richiamato tre medici maschi in pensione. Il sindaco leghista Massimo Bitonci ha duramente protestato: “Qui a Padova, nel 1678, si laureò il primo medico donna della storia. Vogliono medici uomini? Vadano a casa loro” (in verità Elena Lucrezia Corner Piscopia si laureò in Filosofia, dopo una dura battaglia per essere ammessa gli studi). 

Chi è stato a Ellis Island, New York, l’isola dove attraccavano i transatlantici carichi di migranti, avrà ben presente lo stanzone dove la gente veniva adunata per passare una prima visita medica: si cercava soprattutto il tracoma, temibile infezione agli occhi. Ho visto qualcosa di simile sulle navi della ex-missione Mare Nostrum: pronto soccorso e prima verifica dello stato di salute. Molte donne si ritraevano pudicamente di fronte a un medico maschio, che le rassicurava in ogni modo -“I’m a papa”-, per poi sottoporsi docilmente alla visita.

C’è comunque una profonda differenza tra una donna che teme di essere visitata da un medico maschio e un uomo che non vuole essere visitato da una medica donna (nel caso delle relazioni tra i sessi, le logiche “simmetriche” non funzionano mai). Nel primo caso, è il moto autoprotettivo di creature che, non avendo fatto esperienza di altre relazioni tra i sessi, vivono ogni contatto fisico con un uomo come violazione del proprio corpo e spesso come rischio di franca violenza, e hanno l’obbligo di sottrarsi per non essere giudicate e sanzionate o perfino condannate dalla propria comunità, secondo leggi stabilite dagli uomini; nel secondo caso è una questione di onore: si tratta cioè del rifiuto di riconoscere alla donna capacità, competenza e quell’inevitabile “superiorità” che si manifesta nel rapporto medico-paziente. In poche parole, se mi lascio visitare da una donna -data peraltro come professionalmente incapace- sono un ominicchio, se è lei a prendere un’iniziativa sul mio corpo e non io sul suo riconoscerò di essere a lei inferiore, l’abito del mio onore si macchierà per sempre, non sarò mai più un uomo secondo le leggi stabilite dal mio sesso.

In entrambi i casi, si tratta di leggi pensate dagli uomini, e non dalle donne.

Là dove è possibile, usi, costumi, ritrosie e pudori vanno rispettati, benché l’emergenza abbia sempre ragioni superiori. Forse l’Unità Sanitaria Padovana non poteva procedere diversamente e quello che contava era effettuare le visite in tempi rapidi. Ma per un’ideale seconda visita le cose dovrebbero procedere in modo nettamente diverso. Si dovrebbe spiegare a questi pazienti, eventualmente con l’aiuto di mediatori culturali, che le mediche sono brave quanto i medici maschi, e spesso di più. Che il nostro è un Paese generoso, dove il diritto alla salute non è negato a nessuno. Ma in cambio si dovrà fare lo sforzo di adeguarsi alle regole di una civiltà in cui alle donne, quanto meno in linea di principio, sono riconosciute opportunità pari a quelle concesse agli uomini, e non ci possono essere richiesti passi indietro. Perché riteniamo che, pur con tutti i problemi e le contraddizioni,  il nostro modo di intendere le relazioni tra i sessi sia decisamente preferibile al loro: tanto per dirne una, se una ragazza vuole assistere a una partita di volley maschile non viene sbattuta in galera. E se proprio costretti, fra il loro onore e la libertà femminile, noi scegliamo senza alcun dubbio la seconda.

Il rischio è che la scelta “di buon senso” dell’Unità Sanitaria di Padova, se consolidata diventi una prassi misogina complice, che offende e costituisce un vulnus molto grave non solo per le mediche ma per tutte le donne di questo Paese.

E si apprezzi la mia moderazione, perché in verità sono furibonda.

 

 

Corpo-anima, economics, Femminismo, lavoro, Politica, questione maschile Ottobre 16, 2014

Silicon Valley: anche le madri hightech. Congela gli ovuli, paga l’azienda

La notizia è che alcune imprese di Silicon Valley (Facebook, Apple) hanno deciso di rimborsare la crioconservazione degli ovociti alle proprie dipendenti.

Il social egg freezing è una pratica di grande utilità per quelle donne che, dovendo sottoporsi a chemioterapia o altre terapie invasive, congelano i propri ovuli per non privarsi della possibilità avere figli in futuro. La pratica si va tuttavia diffondendo anche tra donne in età fertile che non possono fare figli per ragioni diverse da una malattia: perché non hanno un partner, perché non hanno una casa, perché non ottengono un mutuo, perché non ci sono servizi, perché nessuno potrebbe aiutarle nel lavoro di cura, perché non hanno un lavoro o perché il lavoro è precario, o perché non possono interrompere la carriera. La speranza è di poter conquistare nel tempo condizioni economiche, sociali e relazionali migliori, e di poter intraprendere una gravidanza alla scadenza dell’età fertile con il patrimonio di ovuli di un tempo (sempre che ci si riesca: in campo di fecondazione assistita il numero degli insuccessi continua a prevalere su quello dei successi, ma non si dice mai).

In sostanza queste giovani donne sono impedite nel loro desiderio di avere figli come se fossero malate. Il fatto è che le malate non sono loro. Malato è il mondo che esercita questa violenza su di loro -una specie di sterilizzazione forzata-, costringendole a non concepire all’età giusta o ad abortire nel caso in cui il corpo, ribellandosi alla pianificazione obbligatoria, dia corso al loro desiderio inconscio.

Abbiamo trovato rivoltante l’obbligo al figlio unico in Cina, ma non siamo capaci di leggere la brutalità di questo diktat occidentale. La teologa femminista Mary Daly ha affermato che “la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque”. Pensiamo all’autodeterminazione come alla libertà di non avere figli se non si vogliono, e mai come alla libertà di avere figli come e quando si vogliono (libertà che comprende la prima).

Ho parlato recentemente di queste faccende ai ragazzi del liceo Manzoni di Milano: sono stati loro a voler discutere delle Sixteen and Pregnant, delle giovanissime “disubbidienti” che fanno un figlio da ragazzine e in condizioni socioeconomiche pessime, leggendo in quei comportamenti un segno di ribellione al mainstream che interpreta la maternità come un lusso per cui combattere (comportamenti da non riprodurre! ho raccomandato loro).

Che Apple e Facebook abbiano deciso per questo benefit alle dipendenti, che nella Valle del Futuro, dove si concentrano le imprese dell’economia digitale, si concepisca il rimborso del social egg freezing, indicando il differimento della maternità sine die come idea all’avanguardia, costituisce un salto simbolico di un certo rilievo. Insomma: congelare gli ovuli è una cosa moderna, buona e giusta, hightech come uno smartphone. Perché compromettere la tua luminosa carriera -e rompere i c…ni alla tua direzione del personale- quando hai a disposizione tutti i mezzi per rinviare la maternità più a lungo possibile, eventualmente per sempre? Molto più smart essere “madri maschili” (sempre Mary Daly), espropriate della propria potenza riproduttiva che viene docilmente consegnata al business dei centri antisterilità. Una sorta di “dimissioni in bianco” ma più moderne, tecnologiche e women friendly. Insomma: non ti caccio se fai un figlio, ma ti pago per non farne.

Quello che sconcerta, e che mi induce a ipotizzare una sorta di “analfabetismo femminista”, è l’entusiasmo con cui tante hanno accolto la notizia del nuovo benefit in Silicon Valley. Traggo dai social network:

“Questo “benefit” proposto da FB e Apple alle sue impiegate lo ritengo un’ottima iniziativa. Infatti, se per le donne è già difficile fare carriera quando si è (non vorrei dire “sterile) senza figli, con i figli è praticamente impossibile, a meno che non si lavori in proprio. D’altronde, negli anni 70, un saggio di Elizabeth Badinter intitolato “L’amour en plus” proponeva che la maternità venisse delegata a delle donne preposte alla funzione procreativa. Laicamente parlando, se non ammettiamo che la maternità é ancora e sempre sarà un ostacolo sia al lavoro sia alla carriera non andremo mai da nessuna parte”.

“Ritengo che siano scelte, quelle del rinvio o di accesso alla PMA o al criocongelamento di gameti che siano e debbano essere sempre personali e da non giudicare. Da rispettare semmai”.

Un figlio tra i venti e i trent’anni oramai è un’utopia anche nei paesi più evoluti anzi forse proprio nei paesi più evoluti. Le ragazze finiscono di studiare a 25 quando va tutto bene e non fanno master”.

“Mi sembra una cosa assolutamente positiva. Altrimenti questi vantaggi della tecnologia rimarranno a vantaggio dei facoltosi, lasciando a noi poveri comuni mortali le briciole…”.

è un bene che le cure contro la sterilità vengano a far parte di un’associazione sanitaria aziendale e come la scelta di mettere al mondo un figlio venga incoraggiata con un sostegno concreto. Mica come in Italia”.

Si dovrebbe lottare contro quegli impedimenti -economici, sociali, relazionali, culturali- che ostacolano il desiderio di avere figli quando il corpo li sa e li vuole fare, prevenire l’infertilità da continuo rinvio e da altro, e non lottare contro il corpo femminile “indisciplinato” per piegarlo alle esigenze del profitto. Questo sarebbe il lavoro politico da fare.

Che tante donne che si dichiarano “femministe” collaborino all’agguato alla libera potenza materna, intendendo questo come un progresso e un’occasione di libertà, è un fatto che andrebbe posto con urgenza al centro della discussione.   

p.s. si potrebbe anche pensare a un superbonus aziendale per legatura tube o asportazione utero. Così archiviamo definitivamente la pratica e non ne parliamo più.

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, questione maschile Settembre 9, 2014

Vorrei un 13 febbraio contro i maschi malati di Isis. Ma il femminismo tace

Forse mi è sfuggito qualcosa, ma non ho sentito voci eminenti del femminismo italiano levarsi con decisione contro gli orrori perpetrati dai criminali di Isis. C’è uno specifico sessista di questi orrori: quei criminali sono tutti uomini (salvo le poche vestali autosessiste patologiche arruolate nella Brigata al Khansaa per vessare le proprie simili), e le donne vengono trattate come prede, stuprate, uccise, vendute come schiave.

In una bellissima riflessione pubblicata sul New York Times il filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek, menzionando le “orge grottesche” delle gang di Isis “a base di rapine, stupri di gruppo, tortura e uccisione degli infedeli“, parla di un “fanatismo razzista, religioso e sessista“.

Il sessismo è una componente decisiva di di questo pseudo-fondamentalismo (i veri fondamentalisti, come chiarisce Zizek, dai buddisti agli Amish, non sono violenti né risentiti). Abbiamo letto le strazianti storie di donne yazide suicide dopo essere state violentate. Il corpo della donna è ad un tempo territorio e oggetto simbolico della contesa (l’oggetto reale è sempre e solo uno: i soldi, merce delle merci). La libertà femminile è tra i principali  fattori in campo.

Eppure si esita: alle immagini delle schiave del sesso vendute al mercato di Mossul si oppone scetticismo, si parla di bufale. Sempre pronte a enumerare e stigmatizzare gli errori della politica estera americana in quei territori -errori certi, ammessi anche da Hillary Clinton-, si resta mute di fronte alla catastrofe umanitaria, al genocidio e al “generocidio”. Un malinteso multiculturalismo che ammette perfino il rispetto del jihad e della sharia, come se si trattasse di ordinari usi e costumi locali.

Propense a dare ragione alle intellettuali dell’Islam che indicano aggressivamente i problemi di noi donne occidentali, tipo “la dittatura della taglia 42” (Fatema Mernissi), non ci permettiamo mai di opporre il fatto che, pur con i problemi che sappiamo, tutto sommato dalle nostre parti la vita delle donne è molto meno dura. La cosa ha una sua oggettività: perché non possiamo dirla? Non intendiamo in alcun modo difendere il nostro mondo: anzi, rifiutiamo di parlare di “nostro” e di “loro” mondo, e in ciò c’è senz’altro del buono. Ma in questa sororità che rifiuta la logica maschile del conflitto si radicano un’ignavia di cui ci potremmo pentire amaramente -vedi foto sopra, leggi Marjane Satrapi-, l’incapacità di leggere quello che sta capitando e di reagire opportunamente, la nostra paradossale indifferenza verso la condizione tragica di quelle sorelle.

Io spero ardentemente che i criminali di Isis, mossi, come dice Zizek, dall’invidia “verso lo stile di vita dei non credenti”, “profondamente infastiditi, incuriositi ed affascinati” dalla nostra peccaminosa civiltà, vengano al più presto distrutti. E se dipendendesse da me, vorrei un altro 13 febbraio, un milione di donne in piazza contro la ferocia di quei maschi malati, femminicidi, generocidi.

Qualcuna mi convinca del fatto che sto sbagliando.

 

 

Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile Settembre 5, 2014

Ecco perché il mondo va a rotoli: la spesa la fa lui!

Diana De Marchi, nota estremista femminista che contribuisce al declino dell’Occidente

Grandioso scoop del sito Affari Italiani che riferendosi  una trasmissione di Telelombardia in cui Diana De Marchi, esponente del Pd milanese, ammetteva di non conoscere il prezzo dello zucchero e di altri generi alimentari “perché la spesa non la faccio io ma mio marito”, pubblicava il seguente commento di tale Massimo Puricelli:

Ho seguito con attenzione la trasmissione Forte e Chiaro su Telelombardia di ieri sera. Un appunto mi è doveroso.
L’esponente PD Diana De Marchi ha pronunciato una serie di assurdità che mi hanno indotto a pensare come sia conciata la nostra società.
Passi che non conosca i prezzi dei generi alimentari che gli hanno mostrato, ma che la ragione di questa sua ignoranza dipenda dal fatto che lei non faccia la spesa perchè tale incombenza la faccia il suo compagno e che non cucini e non faccia i mestieri di casa, beh qua siamo alla follia all’estremismo del femminismo allo sfascio della società e della famiglia (poi ci lamentiamo della mancanza di valori). Che insegnamento propone ai suoi alunni una persona con queste convinzioni e abitudini? Che valori possiede riguardo la famiglia?
Mi spiace molto che queste sconcertanti dichiarazioni siano passate inosservate e sotto silenzio“.
Massimo Puricelli

Lasciamo andare l’italiano, non esattamente da Crusca. Ciò che conta è la straordinaria intuizione di Puricelli che finalmente individua la ragione prima e ultima di ogni male del nostro tempo: le donne che non fanno la spesa, i loro compagni che si piegano a frequentare i super, “l’estremismo del femminismo” che causa “lo sfascio della società e della famiglia” e “la mancanza di valori“.

A integrazione del commento di Puricelli posso testimoniare anche il fatto che talora Diana De Marchi -e non solo lei- guida l’auto al posto del marito, esce la sera da sola, spesso indossa pantaloni e probabilmente, ma sono solo indizi, si fa la tinta, contribuendo con il suo nichilismo femminista alla caduta dell’Occidente.

Mi dicono che il luminoso editoriale di Puricelli è uscito anche su altre testate in cartaceo: giusto, pensieri come questi meritano la massima diffusione.

Donne e Uomini, Femminismo, Politica, questione maschile Giugno 15, 2014

#Mineo e le donne

Caro Corradino Mineo,

ti sei prontamente scusato per le cose molto sbagliate che hai detto l’altra sera quando hai paragonato il premier Matteo Renzi a un ragazzino autistico, usando il termine “autistico” come un insulto e colpendo al cuore molte famiglie che soffrono per la disabilità dei loro bambini.

Ti sei anche scusato con la ministra Boschi, che sarebbe lì, come tu hai detto, grazie “alla parità di genere”. Hai voluto anche sottolineare che è una “bella donna”, una “secchiona”, e hai detto che crede di essere Renzi e di poter trattare in vece sua con Berlusconi e Calderoli (e capirai!). Di quest’altra tua uscita infelice si è parlato meno. Apprezzo le tue scuse anche nei suoi riguardi, ma intendo spenderci qualche parola.

Sono certa, anzi certissima della tua sensibilità nei confronti dei ragazzi autistici e di ogni altra forma di disabilità: da questo punto di vista, sì, sono convinta del fatto che la stanchezza e l’amarezza per l’ingiusta sostituzione in Commissione Affari Costituzionali ti abbiano giocato un brutto scherzo.

Sono meno convinta del fatto che tu sia altrettanto sensibile alla necessità del “doppio sguardo” nei luoghi in cui si decide per il bene comune, la politica e tutti gli altri. Ho avuto il senso, cioè, di un tuo convincimento non facilmente eradicabile sulla superfluità della presenza femminile in politica, convincimento piuttosto comune nella tua generazione, quella dei sessantenni. Da questo punto di vista il “giovane” Matteo Renzi è stato inequivoco e determinato: per la nuova generazione di uomini, diciamo dai 40 in giù, l’idea di lavorare in club for men only è semplicemente impensabile. Ne ha riparlato chiaramente anche ieri, nel suo discorso introduttivo all’Assemblea Nazionale Pd. Ci saranno certamente dei “resistenti patriarcali”, ma il salto è finalmente avvenuto, e al premier va riconosciuto il fatto di averlo rappresentato in modo chiarissimo, collocando un numero pari di donne in posizioni di notevole responsabilità politica. Si tratta di un bene assoluto, che ci fa fare quel balzo avanti atteso da decenni. A molte giovani donne è stata offerta la possibilità di fare bene, e anche di sbagliare: perché, come dice la carissima amica Alessandra Bocchetti, anche noi “siamo umane, non divine”.

Maria Elena Boschi è bella, certamente, anzi bellissima: questo tuttavia è un argomento di nessun valore quando si tratta di dialettica politica. Avresti dovuto opporle i tuoi argomenti, riconoscendole dignità di interlocutrice, e perfino la legittimità a trattare con Berlusconi e Calderoli (veri giganti). Hai preferito la scorciatoia dell’umiliazione dell’avversaria.

Fai riferimento a Pippo Civati, il quale nel suo programma ha dato la massima importanza a tutto questo, parlando severamente dell’esistenza di una tenace “questione maschile” nel nostro Paese. A maggior ragione ti chiedo di spendere ancora qualche pensiero su quello che è accaduto. Le scuse chiudono certamente il pregresso, la riflessione potrebbe portare frutti ben più importanti.

Capisco che possa essere difficile per chi non è più un ragazzo, una rivoluzione copernicana interiore: per la tua generazione la misoginia è stata un tratto fondativo e costitutivo di quello che si definisce “essere uomini”. Questo modo di “essere uomini” noi l’abbiamo patito e aspramente combattuto. E vedere tante donne in quei luoghi, anche per chi non è propriamente una fan della politica della rappresentanza, ci dà un senso di fiducia e perfino di tregua.

Ti chiedo perciò di non archiviare subito la pratica, e di provare a pensarci ancora un poco.