Un accogliente albergo del Sud, la piscina incastonata in un uliveto. Le cicale, e il blu del mare all’orizzonte. La quiete è perfetta. Ed ecco due famigliole, quattro o cinque bambini –dall’accento, emiliani: ma è irrilevante- che rotolano come un ciclone dalla scalinatella verso lo specchio d’acqua. Una delle signore acchiappa il lettino che ho di fianco e comincia a trascinarlo nell’erba. “Le spiace?” le dico “E’ per mio marito…”. Lei lo lascia cadere stizzita.
E’ estate, sono giovani, felici di essere in vacanza. I bambini, poi: felicissimi. Una successione di “bombe” in acqua, urlando e schizzando ovunque. Le mamme li richiamano da un capo all’altro della piscina. “Gaiaa!”, “Ginevraaa!” (sono i nomi che vanno ora). E poi, fra loro: “Tu cosa ti metti staseraaa? Quello nero o quello bluu?”. E al marito: “Giorgio! Giorgiooo!” (Giorgio è preso a schizzarsi con Alberto). “Vuoi la bananaa?” “Dopoo!” fa Giorgio. “Prima faccio il bagnoo!”, e scaglia uno dei bambini in mezzo alla piscina, mentre gli altri si rincorrono con mastodontici mitra ad acqua.
Le loro cose –asciugamani, borse, giocattoli, ciabatte- sono sparse ovunque: territorio animalmente “segnato”. Ci vuole uno slalom, per andare a rinfrescarsi. Ma spruzzi e ondate arrivano a domicilio. Gli altri ospiti sciamano via mesti. Resistiamo in due coppie. La più piccola delle bambine, Domiziana, Jennifer o non so cosa, piange disperata: il sole dell’una non è l’ideale per un umano con il sistema di termoregolazione ancora in rodaggio. Giorgio urla che adesso ha fame –finalmente- e fa per accendere un radiolone: che cosa hanno in mente di fare, ora? ballano? Mi avvicino a Giorgio e glielo dico con massimo garbo: “Mi scusi. A noi non spiacerebbe riposare”. “Siiì! Riposare!” esplode uno degli altri “ostaggi”.
Il gruppo ammutolisce. Le cicale tornano a frinire. Percepisco un brontolio a mezza voce: “E allora perché non va in una bella baita?”.
Fare chiasso non è semplice maleducazione. E’ arrogante occupazione dello spazio comune. Si potrebbe condividere con gentilezza. Coltivare la preziosità del bene comune. E invece lo si vuole “possedere”: questo posto è mio, lo dissemino di cose mie. E anche dei miei urli.
Avere, il più possibile, imperfetto surrogato dell’essere.

(pubblicato su “Io donna” – “Corriere della Sera” il 13 settemre 2008)