L’ultimissimo film di Toni Servillo (“Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini) è un vero prodigio. Non faccio la critica cinematografica, ma sono certa che sbancherà al botteghino e farà l’en plein di premi e riconoscimenti (ha già vinto il premio per il miglior proragonista al Festival di Roma).

Toni ha messo qualche chilo intorno alla pancia (“da terrone”, dice) per rendere più credibile il suo Rosario, ex-camorrista che si è rifatto una vita onesta come cuoco in Germania. Una moglie tedesca e innamorata, un bel bambino biondo. Finché il passato non si ripresenta, con un movimento tragico e quasi shakespeariano, per saldare i troppi conti rimasti in sospeso.

Al contatto con le atmosfere nordiche (come in “Le conseguenze dell’amore”, ambientato a Lugano, o “La ragazza del lago”, tra i boschi del Friuli), Servillo sembra dare il meglio del suo meglio. Come se lì potesse liberarsi del suo abituale rigore -protezione necessaria per crescere onesti al Sud, o anche solo per vivere in Italia in questo tempo- e lasciar correre senza briglie tutto il suo strepitoso talento.

Lui che in tv non ci va, nemmeno per sbaglio. Niente mondanità o attici in piazza di Spagna: continua a vivere a Caserta, quando non è in giro per il mondo. Ci vuole un bel po’ per strappargli un sorriso, benché sia uomo spiritosissimo. Sceglie sempre il teatro più grande (in questi giorni, dopo un tour mondiale, sta riportando in scena al Piccolo di Milano la sua “Trilogia” goldoniana), mentre alle grandi firme del cinema preferisce l’aurora delle opere prime. Un uomo difficile e severo, in un mondo facile e slabbrato.

E in questo film Toni Servillo fa il miracolo. Si mangia Bob De Niro e Al Pacino. Non una slabbratura, una gigioneria, il minimo autocompiacimento. La perfezione dell’attore, che ingenera una profonda gratitudine. Perché il bello è proprio questo: che in un paese impresentabile, sull’orlo dell’abisso, uno come lui sia adorato e fatto quasi oggetto di culto. Una specie di eroe nazionale. Che la sua energia passi, anche in assenza di compromessi. Che quel che ha da dire arrivi, pur senza facili mediazioni.

Il che dimostra, ed è quello che conta, l’incredibile resilience di questo paese. Il suo fondo incorrotto, che riesce sempre a custodire, anche nelle cicliche temperie morali e materiali che attraversa. Il suo attaccamento alla bellezza, che infine lo traghetta sempre in salvo.
pubblicato su Io donna – Corriere della Sera il 20 novembre 2010