L’uomo più allegro del mondo lavora nella mia banca. Sta allo sportello. Canticchia e fischietta come un merlo, modulando trilli e gorgheggi secondo la pratica da espletare. Sembra che niente al mondo lo euforizzi più di un versamento o un bonifico.

Io lo guardo sbigottita. Solo il fatto di entrare lì dentro mi scaraventa in un’ansiosa infelicità.

Un giorno glielo chiedo: come fa? Io sono qui, mi dice lui, ma il mio pensiero vola (mi sembra di vederlo volteggiare lontano da tutto, maestoso come un’aquila su un canyon). “E poi: che problemi ho?”. Una piccola impercettibile ombra nello sguardo. “Sì, un bel guaio di salute. Ma non ci penso”.

Che Dio ti benedica e ti conservi, amico mio. Posso darmi tutte le arie libresche di questo mondo, ma tu mi sei maestro. Sai qualcosa che io non saprò mai, dannata da un’inquietudine che fa di me una homeless sempre in cerca, una bambina –alla mia età- persa nel bosco di notte.

Non so niente di te, se non una salute incerta e quello spirito alato e fischiettante, ma so che sei un uomo fortunato. Hai una fortuna che io non avrò mai. Sai stare dove sei, sei la tua casa. Trovi piccole occasioni di gioia nella routine più ordinaria.

Forse non è come sembra. Forse anche il mio amico avrà i suoi tormenti, come tutti. Ma ho bisogno di crederci, al mio Buddha Gautama dello sportello, alle sue dita felici di picchiettare tasti.

La fortuna per me è soltanto questo, chissà se mi sarà mai data. Il piccolo e quieto sorriso della pace interiore. Om.

E buon Natale.