Nel paesello dove passo l’estate una volta, mi dicono, di recinzioni non ce n’erano. Un ameno continuum di verde, campi e boschi, senza reti né grate. Forse è stato con l’arrivo di noi orribili “milanesi” che le cose sono cambiate. Muriccioli, siepi, una proprietà separata dall’altra, come sintomi di un diffuso disturbo. Un giorno sto passeggiando con il mio vecchio cane lungo il sentiero che conduce a una torre saracena, che oggi è un’abitazione privata. Una giovane signora, elegante nel suo caftano, si affaccia da un cancello: “Lei dove va?”. “Di là” dico, e indico i campi che si affacciano su una dolce vallata. “Di là non c’è nulla. Solo case private”. “Però non mi risulta” rispondo “che il sentiero sia privato”. La bella signora ci pensa un po’ su. Vuole fermarmi, ma non sa come diavolo fare. “E i sacchettini? Ce li ha i sacchettini?”. Estraggo dalla tasca quattro o cinque contenitori igienici. Il mio vecchio Tom è un ragazzo pulito. La signora è costretta alla resa. Indietreggia, senza più argomenti.
Peccato. Avrebbe potuto regalarmi un bel sorriso, fare due chiacchiere con me, offrirmi un tè o qualcosa del genere. Stare chiusi e da soli, ancorché in un eremo principesco, prati all’inglese, piscina e ogni genere di comfort, non dev’essere poi così divertente. Dopo un po’ che sto chiusa io soffoco. Sento il bisogno di altri esseri viventi e comunicanti.
Sono decisamente in minoranza. I più –almeno all’apparenza-intendono chiudere, recintare, costruirsi il loro microcosmo autarchico, privatizzare sentieri, impedire l’accesso, sottrarsi alla scocciatura dell’interazione e della relazione. Il lavoro da fare, invece, sarebbe un altro. Aprire, spalancare, e darsi da fare per costruire il senso di ciò che è comune. Amarlo tutti insieme, investirlo delle energie di tutti, impregnarlo dei nostri migliori sentimenti, renderlo sacro.
Non per fare Totò: ma ne avremo di tempo per starcene chiusi, soli e “privati”, con quattro mesti fiori secchi a ricordarci, se qualcuno avrà il garbo di portarcene. Il più del tempo è solitudine. La vita è soprattutto gioia e fatica delle relazioni. Ma la sprechiamo a dimostrare in tutti i modi di non averne bisogno. Dire il desiderio dell’altro è diventata la vergogna numero uno.