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Politica, salute Agosto 27, 2015

Cancro al seno: troppe terapie inutili?

 

 

E’ la cosa che tutte vorremmo sentirci dire, dopo una mammografia “rivelatrice”: non è nulla, non preoccuparti, teniamo sotto controllo ma non serve intervento chirurgico né terapia. Così, quando il “New York Times” strilla: The best way to treat DCIS is to do nothing”(Il miglior modo di trattare il carcinoma duttale in situ della mammella è non fare niente), l’impulso a crederci è forte. E grande, corrispettivamente, l’incazzatura di chi invece è stata trattata e operata per questa patologia.

La notizia va incontro al diffuso sospetto che sul cancro al seno sia in atto un colossale business, che la prevenzione secondaria (screening mammografico e altro) riveli anche tumori “non pericolosi”, che resterebbero lì dove e come sono, e invece vengono invasivamente e onerosamente trattati (overtreatment). E che sulla prevenzione primaria, ricerca e azione sulle cause del cancro al seno -che oggi colpisce una donna su 8– si stia facendo davvero troppo poco.

Bene: un po’ di ordine, perché la faccenda è seria e i fraintendimenti sono pericolosi. Prima di tutto lo studio a cui il NYT fa riferimento, pubblicata sulla rivista “Jama Oncology” riguarda unicamente il carcinoma duttale in situ, non invasivo e confinato nei dotti mammari, e non si riferisce indiscriminatamente a tutti i tumori al seno.

“Va però detto che lo studio non conclude affatto che è meglio non trattare il DCIS” spiega Alberta Ferrari, chirurga senologa presso l’Unità Senologica del Policlinico San Matteo di Pavia. “Quando il titolare dello studio dottor Steven Narad dichiara al NYT che la strada preferibile è non fare nulla, trae una conclusione che nel suo stesso studio non compare”.

Che cosa dice precisamente lo studio?

“Che confrontando le donne trattate per DCIS e donne non ammalate, a vent’anni il tasso di mortalità per tumore alla mammella è identico. Da questo però non si può dedurre che è preferibile non trattare i DCIS”.

Perché?

“Il DCIS puro per definizione non è a rischio di mortalità. Però alcune di queste lesioni evolveranno a carcinoma infiltrante: la vera soluzione sarebbe sapere con esattezza quali. A grandi linee riusciamo a classificare il grado di aggressività, ma purtroppo non possiamo affermare con certezza l’assoluta assenza di rischio. Inoltre c’è un 15-20 per cento di donne che arriva in sala operatoria con diagnosi di DCIS e l’intervento rivela invece un cancro invasivo”.

 E quindi?

“Quindi queste lesioni vanno trattate. Chirurgicamente ed eventualmente con ormonoterapia e/o radioterapia”.

E spesso si ha più paura della pesantezza della terapia –nell’ordine di “timore”: di chemio, ormonoterapia per 5 anni e radio- che dell’intervento chirurgico in sé…  Il sospetto di overtreatment, cioè di un trattamento che va oltre le effettive necessità, è del tutto infondato?

“Certo che no. Nei siti degli screening si parla moltissimo di overtreatment e di come ridurlo. C’è stato perfino chi ha proposto di eliminare lo screening mammografico, ma uno studio europeo ha concluso che vale decisamente la pena di mantenerlo perché riduce la mortalità del 20 per cento. Sull’overtreatment si lavora incessantemente. Per esempio si sta cercando di capire come individuare le lesioni intraduttali più aggressive, riferendosi ad alcuni specifici recettori la cui presenza può essere indicativa di una maggiore aggressività biologica”.

E per quanto riguarda la prevenzione primaria? In parole povere: fare in modo che le donne non si ammalino, e non solo curarle precocemente?

“Qui effettivamente si batte il passo. Gli interessi economici pesano di più. Sono le case farmaceutiche a disporre dei più cospicui fondi per la ricerca. Quella indipendente, per esempio in Italia, non è finanziata a sufficienza: a essa è destinata una percentuale del Pil ben inferiore a quella di altri Paesi europei, gravemente insufficiente a sostenere studi liberi da conflitti di interesse. E le case farmaceutiche non traggono certo vantaggi dal ridurre il numero dei casi di malattia”.

Un’ultima domanda su una questione su cui torneremo presto: le Breast Unit, unità senologiche multidisciplinari che seguirebbero le pazienti dal momento della diagnosi in tutti i successivi passaggi terapeutici. Si è visto che l’istituzione di Breast Unit potrebbe ridurre la mortalità per cancro al seno di una percentuale pari a quella ascritta allo screening mammografico, quindi di un ulteriore 18-20 per cento. I recenti tagli alla Sanità mettono a rischio il progetto?

“Non dovrebbero, ma si è visto che in alcune situazioni lo stanno compromettendo. Per esempio in Lombardia: seguendo una logica lineare, sembra che si preferisca distribuire risorse a ospedali periferici, magari per compiacere clientele politiche locali, piuttosto che supportare unità altamente specializzate. Per il bene delle donne, si deve attentamente vigilare”.

 

 

 

 

 

Politica, salute Maggio 11, 2015

Caro Grillo, la mammografia si deve fare. Però è vero: non è prevenzione

Un personaggio pubblico che parla di salute ha sempre grandissime responsabilità: dire, come ha fatto Beppe Grillo a Perugia, che le mammografie sono il business di Veronesi è un atto irresponsabile, perché le donne possono dedurne che la mammo non serve a niente, se non ad arricchire qualcuno, e quindi non farla. Il che può mettere a rischio la loro vita. Più tardi Grillo ha precisato: “Non penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa credere che facendo questo esame non venga il tumore”. Bene: questo è tutt’altro conto.

Perché sbaglia anche la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin a sostenere che “l’arma più efficace, talvolta l’unica, per sconfiggere il cancro è la prevenzione» e che uno degli esempi più eloquenti è il tumore al seno, che «le donne possono sconfiggere proprio grazie alle mammografie e ai controlli da protocollo».

Mammografie e controlli sono utilissimi, ma non possono essere definiti “prevenzione”. I controlli periodici consentono diagnosi precoci, e quindi diminuiscono il rischio di morire per tumore al seno. Ma il tumore, quando viene scoperto ai controlli, ce l’hai già, e non può più essere “prevenuto”. Sulla vera prevenzione del tumore al seno in verità si fa poco o nulla, ed è una cosa terribile se consideriamo che verosimilmente nessun tumore ha un simile tasso di incidenza (1 donna ogni 8) con tendenza ad aumento tra le under 40 e soprattutto fra le under 30.

Un po’ di numeri, spaventosi: nel 2014 in Italia sono stati diagnosticati 48 mila 200 nuovi casi, con 12.500 decessi.  si stima che nel 2020 saranno 51500 (fonte AIRTUM-AIOM). Nel 2011 (dato più recente) il carcinoma mammario ha rappresentato la prima causa di morte per tumore nelle donne, con 11 mila 959 decessi (fonte ISTAT), al primo posto anche in diverse età della vita, rappresentando il 29 per cento  delle cause di morte oncologica prima dei 50 anni, il 23 per cento tra i 50 e i 69 anni e il 16 per cento dopo i 70 anni.

Tutte conosciamo il problema, se non è toccato a noi è capitato a parenti, amiche, conoscenti.

Le case farmaceutiche non hanno alcun interesse a finanziare ricerche che consentano una reale prevenzione, perché la prevenzione non fa vendere farmaci. Ma è proprio su questo fronte che si deve agire, sgombrando il campo dall’equivoco secondo il quale screening e controlli servono a non ammalarsi: screening e controlli servono solo a curarsi tempestivamente quando sei GIA’ ammalata.

Il numero di donne che si sottopongono ai controlli è aumentato, ma il tumore al seno non diminuisce. Anzi. Come avete visto le prospettive sono pessime. A quanto pare le strategie che sono state adottate non sono efficaci.

Ne parliamo con Alberta Ferrari, senologa chirurga presso il Policlinico San Matteo di Pavia. Ferrari è anche promotrice di un gruppo che aggrega le donne con mutazione dei geni BRCA (la patologia di Angelina Jolie, che ha deciso di sottoporsi a mastectomia e ovariectomia preventiva), donne ad altissimo rischio di sviluppare tumori al seno e alle ovaie.

“Non si discute la validità della mammografia come mezzo di diagnosi o di sorveglianza” dice. “Ma ci sono studi -per esempio una grossa ricerca canadese- secondo i quali gli screening mammografici sostanzialmente non influiscono sulla mortalità per tumore al seno. In Svizzera infatti gli screening sono stati sospesi. Altri studi danno risultati diversi: secondo la maggior parte delle ricerche, gli screning diminuiscono la mortalità del 15-25 per cento. L’opinione più diffusa tra gli addetti ai lavori è che lo screening mammografico resti utile, anche se non si deve farne un oggetto di culto. Il rischio è che le donne pensino che l’esame serva a non ammalarsi”.

Che cosa si sta facendo invece sul fronte della prevenzione primaria?

“Poco o niente. Si parla di stile di vita (alimentazione, obesità, sedentarietà) che senz’altro incide per l’età “classica”, tra i 50 e i 70 anni, ma difficilmente può spiegare i casi di tumore al seno tra le venti-trentenni. Non conosciamo ancora le cause del cancro al seno, il che significa che non sappiamo ancora come prevenirlo”.

Può incidere anche il fatto che ci alimentiamo con carni di animali trattati con ormoni? (proprio oggi un incontro tra ministri a Bruxelles sull’abuso di farmaci negli allevamenti di animali, ndr).

“E’ probabile. Il processo che conduce ad ammalarsi potrebbe avviarsi già a livello embrionale, quando sei nella pancia di tua madre. Ci sono altre sostanze fortemente indiziate: pesticidi, componenti di cosmetici e di prodotti di bellezza… Sul fronte della prevenzione la politica ha grandi responsabilità. Le ricerche possono essere finanziate solo con fondi pubblici, i privati delle case farmaceutiche non hanno alcun interesse a metterci dei soldi”.

Il tema dello scarso interesse per la prevenzione vale un po’ per tutto. Per esempio, l’infertilità: è accertato che gli ftalati, componenti di prodotti di uso comune, come molti bagni schiuma o dentifrici, compromettano la fecondità maschile. Ma nessuno propone di metterli al bando. Si lotta per il business della fecondazione assistita, ma non si parla mai di prevenzione. Tornando al tumore al seno: allo stato attuale quali sono le strategie migliori per difendersi?

“Le indicazioni sono di personalizzare i percorsi, valutando i fattori di rischio, la familiarità, l’eventuale predisposizione genetica, come nel caso dellla mutazione dei geni BRCA, che riguarda il 5-10 per cento dei casi. Purtroppo solo l’Emilia Romagna ha già adottato questo approccio. Per tutte, controlli mammografici a partire dai 40 anni, dopo i 50 ogni anno e mezzo-due. Per le under 40 è fondamentale  l’autopalpazione. E poi c’è il tema importantissimo delle Breast Unit“.

Di che cosa si tratta?

“Le Breast Unit sono unità specializzate nella cura multidisciplinare e integrata del tumore al seno. I casi vengono studiati collegialmente e le donne vengono accompagnate lungo tutto l’iter diagnostico e terapeutico. Il trattamento nelle Breast Unit diminuisce la mortalità del 20 per cento. Lo scorso dicembre l’istituzione di Breast Unit è stata deliberata dalla conferenza Stato-Regioni. E’ necessario vigilare: le Regioni hanno un anno di tempo per adeguarsi, in caso diverso saremo sanzionati dall’Europa. Ma soprattutto, ed è quello che conta, salveremo meno vite”.

(delle Breast Unit parleremo diffusamente nei prossimi giorni, in vista di un convegno in programma a giugno).

 

Politica, salute Ottobre 14, 2014

Ebola non scaccia Aids

L’ultim’ora è davvero brutta: morto di Ebola in Germania un medico sudanese dipendente Onu e proveniente dalla Liberia. Dopo il missionario in Spagna è il secondo decesso per Ebola in Europa.

L’altra notizia, che invece non viene data, è che ogni anno vengono riscontrati in Italia 4 mila nuovi contagi da Hiv -il che significa che i contagi effettivi, non verificati da analisi mediche, sono almeno il doppio-. Giovani e giovanissimi, prevalentemente eterosessuali -ma anche tra gli omosessuali la vigilanza è ormai allentata- e over 65 che continuano ad avere una vita sessuale grazie ai farmaci che la prolungano.

In qualità di ambasciatrice per la lotta contro l’Aids, “onorificenza” di cui mi ha insignito NPS Italia, network persone sieropositive, ne parlo con Rosaria Iardino, che dell’associazione è presidente oltre che consigliera comunale a Milano

“E’ molto umano pensare che prima c’era l’Aids, e ora c’è Ebola. Una specie di turn over tra virus. Aut-aut. Ma le cose non funzionano così. Ebola c’è, e continua a esserci anche l’Hiv. Et-Et”.

“Soprattutto” dice Iardino “si è totalmente smobilitato sul fronte dell’informazione e della prevenzione. Se oggi vai in una scuola per parlarne con i ragazzi ti dicono che l’Aids è una malattia africana. Non ne sanno più niente. Non sanno come ci si contagia e come ci si protegge. Le informazioni sono state completamente dimenticate. Tant’è che anche nella comunità omosessuale, che sull’Hiv era la più informata e quindi la più protetta, il numero dei contagi è in crescita, l’80 per cento dei casi da rapporti sessuali senza protezione”.

Il fatto è di Ebola si muore in 3 settimane o poco più, mentre con l’Aids si convive.

Si continua a morire di Aids, anche se molto meno. Ma l’Aids ha un’incubazione di 10 anni. Se non scopri per tempo la tua sieropositività, arrivi in ospedale già con i sintomi. E comunque i farmaci che devi assumere per controllare la malattia sono molto pesanti. Io  per mia fortuna non ho patologie correlate e sono aiutata da un temperamento combattivo, ma da 30 anni assumo 4 pastiglie di antiretrovirale al giorno, con problemi ai reni, al fegato, alle ossa. E’ una malattia grave, non un’influenza. E costa moltissimo al sistema sanitario nazionale: per ogni persona sieropositiva si spendono in media 12 mila euro l’anno. Una campagna informativa e la distribuzione di profilattici costerebbe infinitamente meno, senza contare i costi del disagio sociale”.

E invece?

“Invece su questo il Ministero per la Salute ha totalmente smobilitato. La Commissione Nazionale sull’Aids non si riunisce nemmeno più. E’ un gravissimo errore. Si deve riprendere a informare, soprattutto i giovanissimi che non ne sanno più nulla e hanno abbassato la guardia a zero“.

L’esperienza sull’Aids può servirci sul fronte Ebola?

“Certamente. Anzitutto ci insegna che i virus non si combattono con le ideologie: Ebola non è una malattia dei neri così come l’Aids non è una malattia degli omosessuali e dei tossicodipendenti. Sull’Hiv abbiamo cominciato a ottenere risultati quando ci siamo tolti i paraocchi ideologici. Ideologia + panico ti fa commettere gravi errori. Ieri a Milano è stata sospesa un’udienza e sbarrata l’aula quando l’imputato, un ghanese, ha accusato un malore. L’ospedale ha accertato che non si trattava di Ebola. Il rischio è che ogni nero venga visto come un untore, che parta una caccia al migrante (chi arriva sui barconi generalmente è in viaggio da mesi, se avesse Ebola non arriverebbe vivo, ndr) Quel tipo di discriminazione l’ho provata sulla mia pelle, e so che aggrava i problemi, non contribuisce a risolverli. Il virus va dove trova la porta aperta, non guarda se sei bianco o nero”.

Che cosa si dovrebbe fare, invece?

“E’ stato e continua a essere un grave errore portare in Europa gli occidentali che si sono ammalati  nei Paesi africani dov’è in corso l’epidemia, come Sierra Leone e Liberia. Si dovrebbero istituire task force che vanno a curare i malati in loco. E poi ci vogliono accurati controlli in entrata: chi arriva da quei Paesi dev’essere attentamente monitorato per almeno 3 settimane, che è il tempo di incubazione di Ebola. O sospendi i voli in ingresso, o istituisci la “quarantena”. E poi gli ospedali: con i pesanti tagli alla sanità è difficile che i reparti di malattie infettive riescano a garantire le misure di sicurezza necessarie”.

Poi c’è il tema dei farmaci.

“Non se ne sa nulla: che cosa sta facendo l’Azienda del Farmaco? C’è un caso americano in cui un certo cocktail di farmaci ha funzionato: se ne può sapere di più? Non vorrei che si facesse l’errore di non curare gli africani con farmaci che hanno dimostrato di funzionare solo perché gli africani non hanno i soldi per pagarli. Se pensiamo di curare soltanto chi i soldi ce li ha non fermeremo la propagazione del virus”.

Chiudiamo sull’Aids.

Mi appello alla ministra Lorenzin perché si ricominci con le campagne di informazione e di prevenzione. Aver mollato sul fronte Hiv è stato un grave errore, che ci sta costando moltissimo“.

 

 

bambini, Donne e Uomini, salute Aprile 10, 2014

Fecondazione eterologa: il figlio ha più diritti di tutti. E non solo “a sapere”

Capiremo presto se si dovrà riaprire il dibattito parlamentare sulla fecondazione assistita, come sostiene per esempio la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin. O se come ritengono alcuni giuristi, la sentenza della Cassazione, che dichiara lecita la fecondazione eterologa -ovvero ricorrendo a seme o ovulo donati da terzi- non  ha aperto alcun vuoto normativo che renda necessario un nuovo intervento del legislatore.

Mi pare abbia ragione la ministra quando sostiene che la liceità della fecondazione eterologa apre alcune questioni che vanno definite: e in particolare la questione dell’anonimato del donatore-trice e il diritto del figlio-a a essere informato.

In molte legislazioni internazionali si è passati dall’anonimato del genitore “terzo” alla primarietà del diritto del figlio-a a essere informato sulle sue origini biologiche.

In uno dei documenti fondamentali in materia, l’Human Fertilisation and Embriology Act, stilato nel 1990 nel Regno Unito, si legge:

In 2004, the Human Fertilisation and Embryology Authority (Disclosure of Donor Information) Regulations 2004/1511, enabled donor-conceived children to access the identity of their sperm, egg or embryo donor upon reaching the age of 18. The Regulations were implemented on 1 April 2005 and any donor who donated sperm, eggs or embryos from that date onwards is, by law, identifiable. Since that date, any person born as a result of donation is entitled to request and receive the donor’s name and last known address, once they reach the age of 18“.

Si riconosce quindi che il diritto del figlio-a sapere prevale rispetto al diritto del donatore-trice a restare anonimo-a (e della coppia a “cancellare” il donatore-trice).

La coppia che accede a fecondazione eterologa e il terzo-a che cede i suoi gameti scelgono infatti in piena consapevolezza, mentre la consapevolezza del nascituro-a va promossa e tutelata.

Il diritto a conoscere le proprie origini è un diritto fondamentale del minore sancito dall’ art. 7.1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che riconosce il “diritto […] nella misura possibile, a conoscere i suoi [del fanciullo] genitori […]”. Il termine “genitore” ricomprende tre categorie: il genitore genetico, il genitore biologico che partorisce e il genitore psicologico, ossia colui che cresce e si prende cura del minore per un periodo significativo della sua vita.

Quindi questo diritto va garantito, e la legge 40, profondamente cambiata da ben 32 sentenze in 10 anni, non consentendo fino a ieri la fecondazione eterologa non dice nulla su questo punto.

Vorrei aggiungere due punti alla discussione, questioni che non si lasciano facilmente tradurre in leggi e codici:

a) quello che fa “scandalo” e crea problema nella fecondazione eterologa è la “sparizione” del genitore-trice biologico-a o della madre surrogata. Per ricorrere a un esempio antico, la balia che dava il suo latte al posto della mamma instaurava una relazione tenera e affettuosa con il piccolo che attaccava al seno. Ho il ricordo personale di mio padre -sua madre, lavorando, non poteva allattare- che aveva mantenuto un rapporto tenero anche con i figli della sua balia, “fratelli di latte”. La nostra esistenza si dipana in una rete di relazioni. La “sparizione” del donatore-trice crea inevitabilmente un buco in questa rete. Non è, cioè, solo questione di anonimato e di diritto a sapere. E’ questione della mancanza di relazione -per sentimento di possesso da parte dei genitori, o per il fatto che il donatore-trice mette a disposizione i suoi gameti in cambio di denaro, o semplicemente non intende avere un posto nella vita del nascituro- che può creare un problema al figlio-a. Io credo invece che ci sia anche un diritto del figlio alla relazione. Che nelle relazioni vive tutto possa essere ricomposto: si dovrebbe trovare un nome e una parte nella vita del bambino-a per chi contribuisce alla sua venuta al mondo. Forse ci dovrebbe essere o dovrebbe essere costruita una relazione tra la coppia e il donatore-trice e/o la madre surrogata: un amico che dona il suo seme, o una sorella che “presta” il suo utero è cosa ben diversa da uno studente che offre i suoi gameti in cambio di soldi e poi sparisce, o da una donna indiana che offre il suo grembo per fame.

b) il ricorso alla fecondazione assistita, in particolare all’eterologa, dovrebbe essere intesa come extrema ratio, perché non è mai un’operazione a costo zero (costi psicologici, intendo). Questo significa concentrare i nostri sforzi nella prevenzione dell’infertilità, sulla quale non si fa quasi nulla. Il lavoro che va fatto su questo terreno è un lavoro scientifico -individuare le cause principali dell’infertilità e offrire soluzioni mediche- ma anche politico: creare le condizioni socio-economiche che permettano a una coppia di non rimandare sine die il concepimento. Oggi una donna di a 40 anni potrà anche dimostrarne 30 o ancora meno, ma il suo orologio biologico resta quello di una quarantenne. E concepire a quarant’anni resta molto più difficile che a 2o. Ci sono casi, come il rischio di trasmettere malattie genetiche, che non lasciano molta scelta: a meno di non scegliere di correre il rischio, la fecondazione assistita resta l’unica strada. Ma molti casi di infertilità possono essere prevenuti, e non solo con cure mediche. Una legge come quella che vieta le dimissioni in bianco o una politica che favorisce l’occupazione femminile (le donne mettono al mondo più bambini quando lavorano) possono fare moltissimo.