Nella vita, mi scrive Giovanni -buddisticamente- “tutto è impermanente”. E se provassimo viceversa a pensare che “tutto è permanente”? Ovvero che niente va perduto, nessun istante, per ciò che è, nel suo bene e nel suo male. E quindi non deve essere perduto, quindi ogni momento va vissuto e celebrato nel suo potenziale di unicità e di eternità, e mai sprecato? E per celebrarlo intendo dire, etimologicamente, proprio abitarlo, starci dentro. E quindi permanerci.

Certo, ci sono momenti in cui è più facile abitare. L’altro giorno, a Mantova, il bianco splendore di Palazzo Te, o quel magnifico affresco trecentesco che raffigura la città circondata dai suoi laghi. In qui momenti si resta volentieri, ed essi ricambiano restando a lungo con noi a irradiarci. Ci sono momenti invece da cui si vorrebbe solo fuggire, e anzi si può dire che siano molta parte dei momenti, dato come sono messe le nostre vite. E allora lì, sì, non si può che attaccarsi all’impermanenza, alla fiducia che prima o poi passino. E forse invece, con un po’ di allenamento, si può stare anche lì, celebrare anche quelli, cercare il bene che stenta se noi non gli andiamo incontro, se non gli diamo una mano a essere.

O Signore, io predico tanto bene e poi razzolo così male, con tutta l’inquietudine che ho addosso. Ma per esempio scrivere, e poi camminare, camminare, camminare, queste per me sono le palestre in cui mi esercito a celebrare, e ognuno ha certo le sue.

Voglio dire che quest’idea dell’impermanenza mi è sempre sembrata un po’ disumana, e animata da una sostanziale sfiducia. Si può stare fiduciosamente, invece, e celebrare la permanenza e l’eternità di ogni cosa che è, con un po’ di allenamento. E qualcuno a cui poter raccontare quello che viviamo e vediamo.