Sul Corriere di oggi (Renato Mannheimer, pag.5) leggo che solo il 6 per cento degli italiani direbbe sì alla richiesta di nuovi sacrifici. Non che sia sorprendente. Non si tratta tanto, io credo, del fatto che uno più di tanto non può essere spennato, essendo che le penne finiscono. Il fatto è che è possibile decidere di tirare la cinghia, e anche molto, ma in vista di un obiettivo chiaro.

E’ l’economia del buon senso, l’economia domestica che tutti pratichiamo: devi fare una spesa straordinaria, devi comprare una casa a tuo figlio, o ristrutturare, o arredare, o anche meno, e cerchi per un certo periodo di tagliare su quello che non è strettamente necessario. Ti dai un obiettivo e ti dai dei tempi ragionevoli per realizzarlo.

Il fatto è che molti di noi, la maggioranza di noi, ha la spiacevole sensazione che questi sacrifici siano a fondo perduto, che l’obiettivo sia molto fumoso -non affondare, ok, ma per intraprendere quale rotta?-, che non sia chiaro che cosa si vuole costruire e da quale parte si vuole andare. A questo si aggiunge la sfiducia in coloro che dovrebbero condurre la nave in porto, di qualunque porto si tratti: potremmo anche accettare di navigare a vista, fidandoci del comandante. Ma è evidente che non è questo il caso.

La spiacevole sensazione -e i non-tagli sui costi della politica la confermano- è che buona parte di questi pensino fondamentalmente ai cavoli propri, razziando tutto il possibile prima di affondare, che il bene pubblico non stia esattamente in cima ai loro pensieri, che non siano proprio degli illuminati, che manchino la passione politica, la cultura, lo sguardo necessari all’immane impresa.

Sono convinta che se sapessimo da che parte stiamo andando la fatica di remare ci peserebbe meno. Sentiremmo di partecipare a un’impresa comune. Accetteremmo di condividerere il rischio. Uscendo dalla metafora nautica, manca del tutto una visione. E anche quando si parla genericamente di crescita e sviluppo, non è chiaro che cosa dovrebbe crescere, che cosa dovrebbe svilupparsi.

Manca un’idea di paese. Quali sono i nostri atout, i nostri talenti, le risorse su cui puntare? Che cosa ci fa credere nell’Italia? Facciamo un esempio: le incredibili bellezze artistiche e naturali, non basta una vita per esplorarle tutte, un grandissimo dono di Dio che ci rende una nazione unica nel mondo. Ecco, la bellezza, il nostro senso innato per la qualità, le nostre eccellenze potrebbero essere le carte che noi abbiamo da giocare nell’economia globale? E questo il compito che ci è stato dato? Oppure il nostro grande talento per le relazioni, che ha dentro il nostro bene e anche il nostro male, come il familismo amorale:  potrebbe essere una risorsa da fare crescere? E per conseguire l’obiettivo, quali strutture, quali indirizzi, quale ricerca, quale formazione?

Insomma: qual è il paese che abbiamo in mente? Che cosa ne dite?