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Donne e Uomini, Femminismo Novembre 18, 2014

Le mediche donne e l’onore dei maschi musulmani

Elena Lucrezia Corner Piscopia, prima donna laureata al mondo, nel 1678 a Padova

A Padova, Unità Sanitaria Locale 16, alcuni profughi di religione islamica si sono rifiutati di essere visitati da mediche donne. Per corrispondere alla loro richiesta, non fronteggiabile con l’organico in servizio già oberato di superlavoro, l’Unità Sanitaria ha richiamato tre medici maschi in pensione. Il sindaco leghista Massimo Bitonci ha duramente protestato: “Qui a Padova, nel 1678, si laureò il primo medico donna della storia. Vogliono medici uomini? Vadano a casa loro” (in verità Elena Lucrezia Corner Piscopia si laureò in Filosofia, dopo una dura battaglia per essere ammessa gli studi). 

Chi è stato a Ellis Island, New York, l’isola dove attraccavano i transatlantici carichi di migranti, avrà ben presente lo stanzone dove la gente veniva adunata per passare una prima visita medica: si cercava soprattutto il tracoma, temibile infezione agli occhi. Ho visto qualcosa di simile sulle navi della ex-missione Mare Nostrum: pronto soccorso e prima verifica dello stato di salute. Molte donne si ritraevano pudicamente di fronte a un medico maschio, che le rassicurava in ogni modo -“I’m a papa”-, per poi sottoporsi docilmente alla visita.

C’è comunque una profonda differenza tra una donna che teme di essere visitata da un medico maschio e un uomo che non vuole essere visitato da una medica donna (nel caso delle relazioni tra i sessi, le logiche “simmetriche” non funzionano mai). Nel primo caso, è il moto autoprotettivo di creature che, non avendo fatto esperienza di altre relazioni tra i sessi, vivono ogni contatto fisico con un uomo come violazione del proprio corpo e spesso come rischio di franca violenza, e hanno l’obbligo di sottrarsi per non essere giudicate e sanzionate o perfino condannate dalla propria comunità, secondo leggi stabilite dagli uomini; nel secondo caso è una questione di onore: si tratta cioè del rifiuto di riconoscere alla donna capacità, competenza e quell’inevitabile “superiorità” che si manifesta nel rapporto medico-paziente. In poche parole, se mi lascio visitare da una donna -data peraltro come professionalmente incapace- sono un ominicchio, se è lei a prendere un’iniziativa sul mio corpo e non io sul suo riconoscerò di essere a lei inferiore, l’abito del mio onore si macchierà per sempre, non sarò mai più un uomo secondo le leggi stabilite dal mio sesso.

In entrambi i casi, si tratta di leggi pensate dagli uomini, e non dalle donne.

Là dove è possibile, usi, costumi, ritrosie e pudori vanno rispettati, benché l’emergenza abbia sempre ragioni superiori. Forse l’Unità Sanitaria Padovana non poteva procedere diversamente e quello che contava era effettuare le visite in tempi rapidi. Ma per un’ideale seconda visita le cose dovrebbero procedere in modo nettamente diverso. Si dovrebbe spiegare a questi pazienti, eventualmente con l’aiuto di mediatori culturali, che le mediche sono brave quanto i medici maschi, e spesso di più. Che il nostro è un Paese generoso, dove il diritto alla salute non è negato a nessuno. Ma in cambio si dovrà fare lo sforzo di adeguarsi alle regole di una civiltà in cui alle donne, quanto meno in linea di principio, sono riconosciute opportunità pari a quelle concesse agli uomini, e non ci possono essere richiesti passi indietro. Perché riteniamo che, pur con tutti i problemi e le contraddizioni,  il nostro modo di intendere le relazioni tra i sessi sia decisamente preferibile al loro: tanto per dirne una, se una ragazza vuole assistere a una partita di volley maschile non viene sbattuta in galera. E se proprio costretti, fra il loro onore e la libertà femminile, noi scegliamo senza alcun dubbio la seconda.

Il rischio è che la scelta “di buon senso” dell’Unità Sanitaria di Padova, se consolidata diventi una prassi misogina complice, che offende e costituisce un vulnus molto grave non solo per le mediche ma per tutte le donne di questo Paese.

E si apprezzi la mia moderazione, perché in verità sono furibonda.

 

 

bambini, Donne e Uomini, esperienze, questione maschile Ottobre 12, 2012

Il padre di Padova e re Salomone

La storia la sapete, vero? Di quelle due donne che si presentano da re Salomone contendendosi un bambino: ognuna aveva partorito un figlio ed entrambe dormivano nella stessa casa. Uno dei due bambini muore, e sua madre prende il figlio dell’altra. Salomone ordina che il bambino venga tagliato a metà per darne una parte a ciascuna. La falsa madre accetta la soluzione -invidiosamente, mi viene da dire, pur che anche l’altra perda il figlio-. Ma la vera madre lo supplica di fermarsi e di dare il bimbo all’altra donna, pur di salvarlo. Salomone capisce che la vera madre è lei.

Salvare il bambino, metterlo davanti a tutto: è questo a fare una madre, e anche un padre. Il padre del bimbo portato via a forza dalla polizia usa proprio queste parole: “L’ho salvato”. L’ha salvato, a suo dire, da una madre che lo metteva contro di lui, e che lo stava facendo ammalare di Pas, o Sindrome di alienazione genitoriale, disturbo inventato da uno psichiatra americano, Richard Gardner, e mai riconosciuto dalla scienza.  “Ora è sereno”, aggiunge il padre. Difficile credere che possa esserlo, tolto alla madre e ospitato in comunità, e dopo quello che gli è capitato, un trauma che può fare ammalare davvero.

Può essere che quella madre abbia sbagliato, che non abbia agevolato i rapporti tra il piccolo Leonardo e suo padre, che addirittura li abbia ostacolati e impediti. Se così è stato, l’errore è grave. Severissimo, certo, è il recente disposto della Corte di Appello di Venezia, che toglie il bambino alla madre. Inaccettabile il comportamento delle Forze dell’Ordine, che ha trascinato via quel bimbo contro la sua volontà, o meglio, come se non avesse volontà, come se i suoi sentimenti, il suo divincolarsi, la sua sofferenza non avessero alcun significato e contassero molto meno di quelli della madre, del padre e della volontà dei giudici. Una sofferenza tanto grande che con la sua forza d’urto ci ha raggiunto tutti, per via mediatica.

Ma anche quel padre, di fronte alla spada che si stava abbattendo sul ragazzo, forse non avrebbe dovuto comportarsi come la finta madre, che così si rivolge al Re “Non sia né mio né tuo: dividetelo in due!”. Forse come la vera madre avrebbe dovuto sentire “le sue viscere commosse per suo figlio” e percepire l’inessenzialità del suo diritto e forse della sua volontà di vendetta di fronte alla sofferenza di colui che dovrebbe essere il suo primo oggetto d’amore. Se davvero quel padre crede che sia il bene di quel figlio essere tolto a sua madre -ed è sempre difficile crederlo- forse questo allontanamento si sarebbe dovuto realizzare con tutta la cura, la pazienza, la delicatezza necessarie, un piccolo sorso di sofferenza ogni giorno, senza ricorrere alla brutalità di una lama che recide in un solo colpo, lasciando intatta e non elaborata un’enorme mole di dolore.