Anna ci ha raccontato la sua esperienza di ovodonatrice. Parliamo ora con Paolo, donatore di seme.

38 anni, Paolo è avvocato e vive a Catania. Sposato con una quarantenne, è in attesa della prima figlia che nascerà a novembre.

“Concepita con fecondazione assistita omologa” racconta. “Sei cicli, tre anni di tentativi, e infine mia moglie è rimasta incinta. Al centro restava una parte del mio seme congelato. Anziché distruggerlo ho pensato di donarlo“.

Anche se distruggere del seme non è come distruggere ovociti: produrne di nuovo è semplicissimo, e non richiede alcun intervento medico…

“Capisco che possa sembrare strano. Ma chi non vive queste situazioni non può comprendere fino in fondo. C’è troppa disinformazione, c’è paura, c’è l’idea che sia qualcosa di oscuro e di magico. Il 95 per cento della gente con cui parli non sa nulla di queste faccende. Il centro ci ha comunicato la possibilità di donare il seme residuo. E io mi sono detto: perché buttarlo?“.

Quindi ha deciso di donare.

“Prima della sentenza della Consulta che ha autorizzato l’eterologa in Italia mia moglie e io avevamo pensato anche a tentare un’eterologa all’estero, con donazione di ovociti. Nel nostro caso il problema era una scarsa qualità ovocitaria…”.

Forse perché la signora non era più giovanissima.

“L’età ha la sua importanza, certo. Ma questa condizione si può verificare anche in donne più giovani. In ogni modo, come dicevo: poco prima che lei rimanesse incinta anche noi stavamo considerando di ricorrere a eterologa, o in alternativa di adottare. Quindi avremmo potuto avere necessità di una donazione: quel bisogno l’ho conosciuto da vicino. Ecco perché ho deciso di donare“.

Ne ha parlato con sua moglie?

“Sì. E non è stato difficile decidere. Per me è come una qualunque altra donazione in vita: come donare sangue, o midollo... Certo, ha agevolato il fatto che quel seme era già lì, disponibile. Se avessi dovuto produrre del seme a questo scopo, non so… Forse avrei donato, forse no. Non saprei dire”.

La impressiona l’idea di bambini nati dal suo seme?

“No, affatto. Sarebbe come sapere che qualcuno vive grazie a un tuo rene“.

Ha chiesto di sapere se il suo seme verrà utilizzato e se si avvieranno delle gravidanze?

“No. Non voglio sapere nulla. Ho donato, e fine. Sono assolutamente sereno”.

E se un giorno volessero sapere loro? I bambini nati dal suo seme, intendo.

Se l’anonimato non fosse garantito non avrei mai donato. Non voglio essere rintracciabile. La cosa potrebbe turbare la mia serenità familiare“.

Anche la serenità di quei bambini potrebbe essere turbata dal fatto di non poter conoscere le proprie origini biologiche.

Non è un obbligo dirgli come sono venuti al mondo“.

Però la gran parte delle linee guida consiglia la strada della verità.

“I figli sono di chi li cresce. Se qualcuno di questi bambini volesse sapere chi è il padre biologico, purtroppo non potrà saperlo. Tutto qui”.

Lei sarà a conoscenza dei ricorsi presentati da molti figli di eterologa che hanno rivendicato il diritto di sapere.

“Questo non ha ostacolato la mia decisione. Ribadisco: impossibile capire se non ci si è passati”.

Dal fatto di non riuscire ad avere figli, intende?

“Sì. Per noi era un grosso problema. Una pesante privazione. Certo, se non ci fossimo riusciti alla fine ce ne saremmo fatta una ragione…”.

Una domanda delicata: posso?

“Prego”.

Non c’è anche un piccolo sogno di onnipotenza, dietro la scelta di donare il proprio seme? La volontà inconscia di massimizzare le occasioni per i propri geni?

“Ma no, mi creda. Si tratta di semplicissimo altruismo. Nessuna esaltazione. Insisto: chi non sa sulla propria pelle non può capire”.

 

(grazie a Aidagg, Associazione dei donatori di gameti, per il contatto con Paolo)