Cara Paola,

mentre contemplavo la buca che ho da anni davanti a casa –mi ci sono affezionata, le voglio bene, guai a chi me la aggiusta!- pensavo che questa cosa di Milano degelatizzata ci sta dando la misura esatta della diffusa delusione nei confronti di questa giunta, per la quale molte e molti di noi hanno lottato tanto. Gente di Napoli che chiama amici e parenti emigrati qui: “Maro’! Manco o’ gelato!”. Poi il sindaco è costretto a precisare: ma no, c’è un equivoco… Tant’è.

La festa, l’arancione, il doppio arcobaleno… sì, ciao. Mia mamma, che di sindaci ne ha visti tanti, lo dice in una sintesi efficace: “Par che el sindich el gh’è no”. “Pare che il sindaco non ci sia neanche”: traduco per te, ragazza sarda flamboyant che vivi a Milano, e perciò milanese perfettissima come me che sono il solito miscuglio imbarazzante, dalla Germania al profondo Sud con deviazione a Pittsburgh-Pa.

Cara Paola, io vivo in una dead zone con potenziale grandissimo: c’è quel meraviglioso naviglio leonardesco, “la” Martesana, popolato di anatre, aironi, pseudo-castori (le nutrie), cani scodinzolanti, e umani corridori che si fanno al trotto o in bici tutta l’alzaia: si arriva fino all’Adda. Con lo skyline metafisico delle ferrovie e dei treni, circondato da parchi stupendi (l’ex Trotter, Villa Finzi e il Parco Martesana che via via sta venendo su).

Salvo un progetto per l’ex-Trotter, l’abbandono di questa zona -5 minuti 5 di linea rossa da Piazza Duomo-, è assoluto e incomprensibile. Be’, spostati di lì, diranno tanti: vai a vivere in centro, rinuncia ai tuoi pomodori sul terrazzo, al basilico e alla bicicletta.

Vorrei che tu vedessi i meravigliosi magazzini delle ferrovie in via Sammartini, attualmente in dotazione a Grandi Stazioni: una cosa per la quale qualunque sindaco dovrebbe leccarsi i baffi. Potrebbero diventare i nostri docks e configurare una perfetta zona da movida, visto che lì non ci sono case e non dai noia a nessuno, con la “riviera” del Naviglio a pochi metri, e il gelato te lo potresti fare anche alle tre di notte.

I magazzini delle Ferrovie in via Sammartini, meraviglia abbandonata al degrado

Recuperi del genere sono stati già realizzati a Berlino e a Parigi, ça va sans dire. E invece qui non si muove foglia, se non associazioni di volonterosi cittadini che lo scorso we hanno organizzato una festa per vivificare la zona morta. Segnalo anche, se posso, nell’adrianesca via Gluck che fa parte del comprensorio, uno stupendo Museo del Manifesto Cinematografico –ovviamente privato- dove si possono anche organizzare feste ed eventi, con un barettino delizioso dedicato ad Adriano (vai a vederlo, è al numero 45).

I magazzini ferroviari di Parigi, molto simili a quelli di Milano, dopo la ristrutturazione

Faccio questo esempio ma potrei farne mille altri a dimostrazione di un procedere svogliato, stentato e areaC-centrico. E che palle questo centro storico! Che noia, che dead zone, quella sì. Il prossimo sindaco lo vorrei abitante ad Affori, a Turro o all’Ortica, così lo sguardo finalmente cambierebbe. Guidato dal desiderio di portare la bellezza anche a casa sua. Perché la bellezza cambia tutto, è il vettore ed il motore principale di tutto, nel nostro Paese.

Così, sempre contemplando la mia amata buca e le sue compagne -oltre le quali si estende un giardinetto comunale anche lui abbandonato da anni, e se non bastasse circondato da una atroce retazza di plastica arancione forse per farci soffrire di più, o forse perché è arancione- mi pare che a questo sindaco e alla sua giunta oltre ai soldi manchi la potenza del sogno e della visione, manchi l’entusiasmo –come se fossero stati condannati a essere lì-, manchi il progetto politico, che poi significa perseguire la minore infelicità per il maggior numero e immaginare la città in cui questo sia possibile, avere un’idea di città. Ovvero dire definirne l’identità all’orizzonte e perseguirla usque ad sanguinis effusionem. Tutto questo che sta mancando rende la compagine governativa nostrana molto esangue e a tratti perfino un po’ torva: tu prova a fare una critica su come stanno lavorando e vieni automaticamente rubricata tra i nemici del popolo. Come se non fossero all’ascolto, ma in difensiva perenne. Se poi menzioni la cacciata biblica di Stefano Boeri, attivissimo assessore alla Cultura defenestrato senza che ancora ce ne sia stata data spiegazione plausibile a parte il suo caratterino, be’, allora cerchi proprio guai.

Cara Paola, non sono nata borghese. Sono cresciuta in un milieu operaio. La mia infanzia è stata tra le tute blu, rivediti “Romanzo Popolare”: il mio mondo era precisamente quello, le Vincenzine, i manufatti, sveglia alle sette con le sirene della Breda e della Falck e tutto il resto. Un’infanzia in cortile, per strada, al bar, dura e molto felice. Io amo il popolo, so esattamente com’è e che cosa vuole. E non ti dico la noia di ritrovarmi costantemente a colluttare con tanti di questi borghesi “comunisti” e talora guerriglieri del centro storico, che invece di godersi beati i loro molti privilegi –ne ho conosciuti alcuni che volevano andare a lavorare in fabbrica, alla catena, quella dalla quale io e tanti altri abbiamo voluto fuggire, traditori del popolo! e giustamente i genitori li hanno sbattuti in analisi dal professor Musatti-, hanno sempre preteso di insegnare alla sinistra che cos’è la sinistra, e al popolo com’è il popolo e che cosa è giusto per lui: la periferia, le bibliotechine sfigate, i mercati miserabili, le slot machine, i centri massaggi cinesi, i giardinetti spelacchiati con lo scivolo giallo rosso e blu. Mai la bellezza, mai il glamour, eh no, per carità! Perché se no il popolo non è più il popolo come lo pensano loro, se no la periferia non è più la periferia come deve essere. Gli si spostano gli stereotipi e gli viene una labirintite ideologica.

Tu pensa la vecchiezza di ragionare ancora in termini di centro-e-periferia, e non invece in una prospettiva policentrica, in cui ogni zona abbia la sua propria vocazione, il suo proprio centro vivo e pulsante.  Che fine ha fatto, a proposito, il progetto dei Municipi?

Che tristezza, Paola. Che delusione. Che mediocrità. Che provincialismo: con il low cost anche il popolo viaggia, in classe economica, e fa i confronti con il resto del mondo.

Almeno tu ogni tanto nella tua Sardegna ci puoi tornare. Quando ci vai, salutamela.

(questa lettera da-milanese-a-milanese è per Paola Bacchiddu, “giovane” collega che stimo molto e a cui auguro un grande futuro. Paola mi risponde)

 

Cara Marina, innanzitutto ricambio la stima.

Sono arrivata a Milano nel settembre del 1991. Avevo 16 anni. Ricordo ancora gli acquazzoni di quell’autunno – io, che arrivavo da Cagliari – e mio padre che, durante un pranzo, convocò me e le mie sorelle per spiegarci che Milano era “altra cosa” dalle città in cui avevamo abitato finora.
“In che senso?”, chiesi. “Nel senso che non è paragonabile a nessun’altra città”, mi rispose lui.
Ci penso spesso a quella frase che allora non capii. All’epoca, l’ultima coda di quella “Milano da bere” – amministrata dal socialista Paolo Pillitteri – stava per essere spazzata via dalla stagione di Mani Pulite, dopo l’arresto di Mario Chiesa nel febbraio dell’anno successivo. L’immagine di quegli anni sono i lampeggianti azzurri delle volanti che attraversano di corsa la città. Sono gli arresti, continui. E una parola, pronunciata come un mantra liturgico: tangenti. Ricordo anche il primo sindaco leghista, Marco Formentini, dopo la parentesi socialista di Giampiero Borghini e del commissario prefettizio Claudio Gelati. Bossi, il suo leader, urlava “terùn”, dalla piazza prospiciente Palazzo Reale. E mi chiedevo dove fossi precipitata.

Non ho percorso questo amarcord a caso. Quando penso a Formentini, oggi, a vent’anni di distanza, mi ritrovo a esprimerne un giudizio tutto sommato positivo. E questo mi sorprende. Due anni fa, l’ondata arancione dell’attuale sindaco Pisapia si guadagnò nove circoscrizioni su nove. La città era stanca dei dieci anni di gestione di centro-destra, con Albertini e Moratti. Gli associazionismi, i comitati germinati spontaneamente, i partiti politici, gli elettori stessi si erano stretti in un grumo fiducioso attorno a chi prometteva – per la vecchia capitale morale d’Italia – “la grande visione”. Nel suo primo discorso, al teatro Litta, come candidato premier del centro-sinistra, Pisapia parlò di “buche sulle strade”. E io pensai, con scarsa lungimiranza, che un sindaco che intende conquistarsi una città come Milano deve promettere molto più di questo: deve regalarci il sogno o, quantomeno, un orizzonte.

Due anni dopo, invece, con rammarico e uno strano senso del paradosso, noi, che a quel sogno ci avevamo creduto, ci troviamo a lagnarci proprio di quelle buche che la giunta non riesce a riparare, neppure in un’ordinaria amministrazione. Quelle a cui tu sei affezionata, e che io cerco di schivare, a bordo dello scooter, per non spezzarmi il collo in un Corso Sempione non proprio secondario, quanto a viabilità.
Che è successo? L’assessore Majorino risponde attribuendo la responsabilità al patto di stabilità, alla spending review, ai tagli attuati dal Governo centrale, al buco in bilancio lasciato da Letizia Moratti. Il suo collega D’Alfonso risponde alle legittime obiezioni di Marco Vitale (“”manca il progetto, non c’è la visione”), gettando benzina sullo scontento: “La macchina comunale si è rivelata essere un imbarazzante trabiccolo e in due anni siamo riusciti a cambiare poco o nulla”.
La città sembra aver perso tutti gli appuntamenti di gestione ordinaria che si era prefissato di risolvere: la sicurezza, la sporcizia, il traffico, la qualità dei servizi. L’ultima miccia che tu ricordi – un’altra puntuale ordinanza restrittiva per vietare il consumo dei gelati oltre la mezzanotte, allo scopo di evitare “gli assembramenti” nella zona della movida – ha deflagrato lo scontento. Con intempestivi comunicati di smentita che confermano il già deciso e accendono un riflettore su una giunta tesa, nervosa, divisa (ormai, dopo la cacciata di Boeri, non si contano più le tensioni intestine).

Cara Marina, Milano e chi la ama – come te e come me che non ci sono nata ma ho imparato a non poterne più fare a meno – non si meritano, forse, qualcosa di meglio? Mancano 24 mesi ad Expo e io ricordo, ancora con sgomento, le pattuglie di vigili urbani a multare le auto, anche straniere, parcheggiate attorno alla zona di via Savona, durante il salone del Mobile di quest’anno.
Ma perché? Perché trasmettere l’identità di una città che respinge? Perché, come tu ricordi, la Martesana non può essere un fiore all’occhiello che brilla nel cuore di un capoluogo ostaggio di luoghi comuni spesso ingiustificati? A Milano non si lavora, solo. Non si produce, solo. A Milano si vive, si lotta, e ci s’innamora. Milano è forte: nel suo spirito civico, nel suo apparato associazionistico, nelle sue strutture sanitarie (scandali a parte), in quella capacità – in fondo ancora ne è rimasta, anche se siamo in Italia – di consentire una possibilità di successo a chi qui viene ad abitare, e a scommettere sul futuro.
Uno scrittore che amo molto, Sandrone Dazieri, ha scritto in un suo romanzo una cosa che io condivido e che forse non molti comprendono: “Milano non è una città, ma un grumo di lava che ha subito tutte le furie. Che è sterile, come il deserto, e per starci bisogna essere attrezzati. Che non è adatta ai dilettanti. Per questo la amo”.

E allora, Marina cara, perché dovremmo accontentarci di una gestione dilettantistica?