Ci sono volte che il male ti assedia, e sembra che non hai scampo. Le cose nella tua vita non vanno, e ti pare impossibile che possa capitarti qualcosa di buono. Una volta, per esempio, mi trovavo in ospedale. Una ragazza, nemmeno trent’anni, ferita da qualcosa di più grande di lei. La testa non afferrava del tutto, ma il corpo sì, sentiva il vulnus, qualcosa di molto delicato che era stato violentemente toccato.
Mi aggiravo confusa e piena di rabbia per la mansarda della clinica, una veranda luminosa e di leggerezza parigina: doveva essere stata una bella villa, in origine, festosamente abitata, e adesso era un posto di prigionia e di sofferenza. Volevo andarmene, volevo ricominciare a vivere, volevo che quello che mi era successo sparisse, rifiutavo la fragilità che mi sentivo nelle gambe. Quella non ero io. Mi aggrappavo alla rabbia come all’impulso vitale che mi avrebbe riportata a me stessa, e mi agitavo, piangevo, dando il tormento a suore e infermiere.
A un certo punto, attraverso il velo delle lacrime, oltre la vetrata appannata dal gelo -era fine gennaio-, vedo in cielo una strana nube nera in movimento. Mi asciugo gli occhi e aguzzo lo sguardo: un enorme stormo di uccelli, geometrica armonia in volo, che piega a destra, poi a sinistra, e improvvisamente vira, seguendo le sue misteriose traiettorie, lungo la corsa del vento, o di chissà che cosa, senza alcuna incertezza, confidando in un senso delle cose che a me stava sfuggendo. Quello che vedevo in queste piccole nere creature, decine di migliaia contro il bianco del cielo invernale, era la fiducia in volo. Stavano tornando a nord, annuncio certo di una primavera in cui io non confidavo più, senza alcun dubbio su quello che c’era da fare e sulla direzione che conveniva intraprendere. Sentivano la vita con sicurezza, non dubitavano affatto, e io non ho dubitato che fossero lì per me, mandati apposta per me.
Ci penso spesso, quando mi sento sconfortata e non vedo la via d’uscita. Ed eccomi subito lì, a volare insieme a loro, a cantare gioiosamente con loro, sopraffatta dalla fiducia. O dalla fede, se siete abituati a chiamarla così.
E’ stato lì, in quel preciso momento, che ho cominciato a guarire.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 28 febbraio 2009)