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Luciana Percovich

Donne e Uomini, esperienze Marzo 31, 2012

L'opposto del patriarcato è la fratellanza

Ake Dama e Najin Lacong, etnia matriarcale Moso

Ake Dama e Najin Lacong, statuarie signore Moso -etnia cinese dello Yunnan, alle pendici dell’Himalaya- non capiscono perché vestiamo di nero: «Sicure di essere felici?». Loro il colore lo mettono ovunque, inserti shocking negli abiti, cascate festose di collane.  È la prima volta che lasciano il villaggio, invitate al convegno torinese sulle Culture Indigene di Pace promosso da Laima. Ci guardano con curiosità.

L’altra cosa che non comprendono è la prepotenza dei nostri uomini. Perché ce lo lasciamo fare? A partire dal fatto che ti portino via da tua madre (il mito fondativo di Demetra e Kore you know?): «Si può costruire una famiglia su un sentimento fragile come l’amore?» chiede Ake. «Gli uomini passano, la mamma resta». 

Loro si regolano così: c’è la madre, e la madre di tua madre, e via risalendo in linea matrilineare. Quella è la tua famiglia. La donna più anziana è il riferimento per il clan, punto di contatto con la Natura sacra: la religione Moso è un buddismo “contaminato” di culto materno. A 13 anni hai una stanza tutta per te. La notte potrai portarci il ragazzo del cuore, che la mattina tornerà al suo clan: visiting husband. Puro amore, senza altri obblighi. Per qualche notte, o per sempre. 

Quando resti incinta il nuovo nato resta in famiglia. «I bambini sono del clan, non dei singoli» dice Najin. Lì trovano tutto il maternage – mamma, zie, nonna- e il paternage – zii e prozii – che gli serve. Il padre biologico non ha doveri. È un non-marito e un non-padre (fa invece da padre ai figli della sorella) anche se può avere affetto per i bambini che ha generato. Ake ne ha due, maschio e femmina: «Ottimo rapporto con il padre. Anche ora che il nostro amore è finito. Ma per loro non è cambiato niente. Non hanno sofferto». 

Stessa educazione per i due sessi: «Solidarietà, dono e cura sono i valori. Anche i maschi accudiscono bambini e anziani. E questo non fa male alla loro virilità» dice Francesca Rosati Freeman, studiosa dei Moso. Una società matrilineare in cui non esiste dominio maschile. Cioè dominio tout court. Spiega l’antropologa Peggy Reeves Sanday, «il matriarcato non è un sistema di governo delle donne, è un sistema sociale in equilibrio in cui entrambi i sessi giocano i propri ruoli». Non c’è potere, ma persuasione e mediazione.

I Moso sono una delle società che l’Onu ha definito “di pace”. La parola “guerra” non esiste. Niente violenza domestica, stupri, pedofilia. Niente gravidanze indesiderate, depressione post partum – le mamme non sono mai sole -, violenza sui bambini. «L’idea di picchiarli per noi è inconcepibile» dice Ake.

I vecchi sono accuditi e onorati. Tocca a loro mediare i conflitti, facendo in modo che nessuno ne esca del tutto scontento. «La prevenzione del conflitto è la chiave. C’è consenso decisionale a tutti i livelli» dice Francesca Rosati Freeman. Una “democrazia partecipata”, come diremmo noi. In cui le risorse vengono equamente distribuite e non accumulate: il nostro “99 a 1” non sanno neanche cosa sia. 

«È lo stesso modello che ritroviamo tra i Minangkabau di Sumatra, tra i Khoe San dell’Africa e in tutte le enclaves matrilineari sopravvissute nel mondo» spiega Luciana Percovich, studiosa di spiritualità femminile. «Un modello che fino all’età del Ferro era diffuso in tutto il pianeta. Finché queste popolazioni imbelli non furono sconfitte dai guerrieri indoeuropei, calati da nord verso l’India e il Mediterraneo, con le loro armi e il loro pantheon maschile. Ciò dimostra che il patriarcato non è “naturale”. Dispositivi come potere, dominio, proprietà, guerra, non sono universali ineliminabili». 

Per tutta la notte Ake ha discusso con Najin degli uomini occidentali violenti. «Forse» dice «dipende dal fatto che stare sempre insieme con lo stesso uomo non è naturale. Ci si sente soffocare, si diventa insofferenti. Ma se così non va, perché non provate a cambiare?». (ottima domanda).

Loro hanno imparato da noi, ma noi potremmo imparare da loro: «Non c’è un meglio o un peggio. Siamo diversi. Ognuno dà ciò che ha». 

Noi, per esempio, abbiamo dato la tv – da una quindicina d’anni – e Internet. Con qualche rischio, perché «ora i bambini dicono: non voglio fare come dici tu. Voglio fare come ho visto in tv». Il pericolo sta soprattutto in quell’idea: «Io sono più di te». Nel tarlo del dominio. Ma alla possibilità che la loro enclave sia espugnata dai guerrieri digitali, oppongono una ferrea fiducia. “Più facile che oggi siate voi a dovervi ispirare al nostro modello».