milano, ponte levatoio del castello sforzesco

Se, supponiamo, a Milano dovesse vincere Pisapia, l’errore più grande sarebbe non tenere conto di come è nata questa vittoria: da un sommovimento, da una muta, dalla microfisica mobilitazione dei tanti -in verità prima pochi, più sensibili e visionari, e poi un crescendo sinfonico e all’ultimo anche classicamente opportunistico- che si sono prestati, a me viene più facile dire così, a lavorare per lo Spirito Santo, tanti invece preferiscono chiamarlo Zeitgeist.

Se il vincitore non continuasse a sporgersi all’ascolto, se si rialzassero i ponti levatoi, il lavoro dello Spirito Santo resterebbe a metà. Non si tratta certo di assemblee arancioni permanenti e di una demagogia delle masse mobilitate. Insomma non si tratta di sperare che chi sarà alla guida si degni di ascoltare: si tratta piuttosto che sia lui, con la sua squadra, a sentire il bisogno di non sconnettersi, che sia lui a chiedere, e a riconoscere che senza quella forza e quel linguaggio l’operazione sarebbe esangue e difettosa.

Insomma: ieri dicevo che se c’è stata una novità in questa esperienza milanese, è stata nel fatto di tenere l’odio al minimo; oggi aggiungo che se ce n’è un’altra è in questo rovesciamento, che non siano i cittadini a chiedere e a strappare più ampi spazi di contrattazione, ma che sia la squadra di governo a chiedere ai cittadini motivazioni, idee ed energia per cambiare la politica.

Quando dico che spero che i ponti levatoi non si alzino, non intendo banalmente la speranza che non siano solo i partiti a venire a sintesi e a serrare nuovamente le fila. Intendo molto di più, e peraltro non mi fido neanche troppo della facile contrapposizione tra partiti e società civile. Intendo che le relazioni corrano, che tutti -chi andrà dentro e la città fuori dentro i partiti e fuori di lì- si impegnino nello sforzo grandissimo di tenere aperto il passaggio che per inerzia tenderà a richiudersi; che ci togliamo definitivamente dalla testa l’immaginario feudale e verticale della piramide gerarchica, dalla testa nobile alle membra vili, per sostituirlo con quello orizzontale della rete, in cui ogni nodo pulsa per ciò che sa dare, capace di non trattenere egoicamente il flusso, ma di restituirlo e di rimetterlo rapidamente in circolazione arricchito del suo proprio plus.

Se devo pensare a un laboratorio politico lo penso così, radicalmente trasformativo delle forme della nostra convivenza, tenendo all’orizzonte la possibilità che perfino parole come potere e leadership si svuotino di significato.