Alla mia amica Nadia non l’ho ancora detto, ma con lei, grande eccentrica, e un altro paio di amiche intendo presto eseguire l’osceno brano milanese (I Gufi) “Se gh’an de di’” e poi piazzarlo su Youtube. O anche no, solo a uso privato, pubblico scelto di una decina di persone.

Penso a come e quanto ridevano mio padre e mia madre, adolescenti sotto le bombe (mia nonna ci è pure rimasta, l’amato cugino Benedetto disperso in mare, e via e via): hanno cominciato a ridere il 25 aprile del 45 e sono andati avanti, loro e i loro amici, per una buona ventina-venticinquina d’anni.

Qua se non ricominciamo a ridere, dopo questa guerra economica che ha fatto morti e feriti, be’, amiche e amici, non ci libereremo più, le energie non si rimetteranno mai in moto.

E non mi riferisco a quelle risate stitiche da satira politica: le televendite di Renzi, la tappaggine di Brunetta, la plastica di Santanché, roba da sorrisi amari che finisce per rialimentare la depressione. Parlo di quell’assurdo, di quel surreale, di quella divina sofisticata e stralunata stupidera di cui per esempio noi milanesi, vessati da ritmi produttivi insostenibili, siamo sempre stati maestri con il nostro cabaret (oggi divorato dalla politica). Parlo della grassa risata romanesca, dei denti stretti liguri, della follia napoletana, del puparismo palermitano.

Parlo del fou rire, di quella risata irrefrenabile che smuove i sedimenti dello spirito, purifica le sinapsi, scioglie i blocchi, risana i chakra, riattiva le energie, scaccia apotropaicamente le paure. Tutta roba che oltretutto, se proprio uno tiene al punto, infastidisce più il potere di qualunque imitazione di Gasparri -che peraltro sembra un’imitazione già di suo-.

Onore a questi valorosi idraulici che beffardamente finiti sott’acqua causa esondazione del Seveso, prima di mettersi a spalare il fango, da milanesi perfetti hanno celebrato il momento con un fantastico balletto.

Godetevelo!