Le 17 ragazzine incinte del liceo di Gloucester, Massachusetts, 16 anni e non di più, tengono le bocche cucite. Dicono solo che lo hanno scelto loro, che avevano bisogno di quel legame per sempre e che i bambini li vogliono crescere tutte insieme. Com’è che hanno deciso di combinare quello che poi hanno effettivamente combinato lo si può solo congetturare.
Da qualche tempo a Gloucester, cittadina a maggioranza bianca e cattolica, la vita non è facile né divertente. La pesca non tira più, soldi non ne girano, la crisi d’identità è forte, le famiglie vanno in pezzi. Dev’essere stato in uno di quei noiosi pomeriggi d’autunno, quando a studiare proprio non ce la fai. E allora ti vedi con le altre, ti metti l’eyeliner, guardi Mtv, fai la gara di tette e cerchi di escogitare qualcosa che ti porti fuori di lì. Uno di quegli acting out giovanili sempre a cavallo tra body art, sintomo psichico e rivolta politica: la coscienza è nel corpo. Una mossa a sorpresa, un’inaspettata giravolta nella fenomenologia dell’inquieto spirito femminile, che a noi madri e sorelle maggiori provoca la vertigine di un capovolgimento. Perché noi siamo quelle che nel controllo della capacità riproduttiva hanno visto una condizione di libertà, fino alla negazione, fino al capitale errore di vedere sterilità, emancipazione e libertà come un tutt’uno. E queste invece si sentono libere con la pancia.
Il comitato direttivo del liceo di Gloucester la sta mettendo sul piano della contraccezione e dell’educazione sessuale: probabilmente è sintonizzato su un altro film. Quanto a film, se un effetto “Juno” c’è stato è perché le ragazze erano pronte, hanno voluto vederci questo, la maternità come rivolta. Il tempo era quello giusto (kairòs). L’avanguardia della ribellione, appena fino a ieri, era quel sesso praticato con furia maschile, l’autosessismo delle femmine porche scioviniste raccontato da Ariel Levy, il veliname, gli esibizionismi lesbici e tutto il resto. L’ultima inaspettata puntata è questa: pance gravide.
Immagino l’eccitazione inguinale di quel pomeriggio, il patto di sangue, le telefonate, le chat. E le riunioni nei bagni della scuola, quelle che ci stanno, le altre che gli danno delle sconnesse, quelle che mollano a metà strada. Quei cinque o sei ragazzotti-provetta tirati dentro–le cronache insistono in particolare su un homeless di 24 anni-, verosimilmente inconsapevoli del piano, produttori di seme da eliminare perché le ragazze non credono che il legame possa essere con un uomo: solo un figlio è amore senza condizioni. Strilli di gioia (“Che dolce!”) al test positivo.
Amanda Ireland, 18 anni, stesso liceo, un bambino nato da poco, pioniera ammiratissima giù nell’atrio, ora sembra pensarla diversamente: “Ho cercato di spiegargli che non ti senti poi così amata quando alla fine sei sola con un bambino che alle tre di notte strilla per la fame”. E dice di avere capito che un figlio ha bisogno di un padre, che non smetterà mai di cercare l’altra metà della fotografia. E allora se davvero tu quel figlio lo ami come avevi programmato, ci starai come un cane. Ma forse qui ricomincia tutto daccapo, dall’apparente fai-da-te delle origini, ben prima che nascesse la Storia, da quelle pance che sembravano crescere da sole.
Le ragazzine probabilmente stanno zitte anche perché non saprebbero bene cosa dire, se non che “quel pomeriggio pioveva e siamo andate a casa di Vicky…”. Forse a noi, alle loro madri, è più chiaro quello che hanno fatto. Nella performance di Gloucester Paola Tavella (“Madri selvagge” etc.) vede “un gesto di disubbidienza procreativa, di disubbidienza della differenza sessuale. E’ dire “sono una donna”, e non un omologo del maschio; è fuoriuscire dal programma procreativo stabilito: niente bambini fino a chissà quando, oppure il triste incidente con ciò che ne consegue: aborto, figlio dato in adozione…”. Genitori disperati, anche. Penso alla figlia unica di una coppia molto impegnata, di quelle che non hanno mancato una sola riunione politica e che lasciavano la neonata a dormire nella macchina in sosta. Poi la ragazza resta incinta con regolare fidanzato a 23 anni, anche perché forse non vedeva l’ora di restituirsi attraverso un figlio suo tutto l’amore e la cura che non aveva avuto. E suo padre incazzato nero, furioso per questo scarto dal suo modo di vedere la vita, che lo mette brutalmente con le spalle al muro.
Un’altra che capisce Gloucester è Luciana Percovich (“La coscienza nel corpo” ecc.), femminista che ha vissuto in diretta il passaggio repentino e violento dalla gonna a pieghe al sesso libero e obbligatorio, e poi la lotta contro l’aborto clandestino e tutto il resto: “Lo leggo come un segnale in controtendenza” dice “rispetto a quello che sta capitando alle più. Le ginecologhe occidentali registrano un numero crescente di ragazzine che non ha mestruazioni, sintomo fisico e psichico di un’abdicazione estrema dal femminile”. Un’anoressia interiorizzata che non ha più neanche bisogno della magrezza. “Che 17 ragazzine del Massachusetts si siano organizzate intorno a un desiderio così inattuale mi sembra l’indizio di un risveglio, il principio di una speranza”.
La sua e nostra adorata Mary Daly, teologa dalla prosa fiammeggiante, grida da tempo che “la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque”. Lo sappiamo bene. La maternità va pazientemente negoziata con una gran quantità di “nemici”, dal datore di lavoro ai genitori contrari al partner riottoso e mai pronto, sperando di riuscire a portare a casa qualcosa prima dei 40. I fronti di lotta sono questi, per chiunque abbia a cuore le donne, i loro figli e perciò il mondo. Vedere “Il doppio sì”, sì alla maternità e sì al lavoro, (Via Dogana edizioni, appena uscito) per sbigottire di fronte al fatto che oggi tante giovani donne vogliono bambini, e incredibilmente vogliono anche il tempo e lo spazio per svezzarli e crescerli e non si rassegnano più al reportage serale della nonna o dell’educatrice del nido. Altro che nidi aziendali: qui si mira al cuore dell’organizzazione del lavoro.
Le pazzoidi, le streghette, le scellerate di Gloucester –“quelle stupide puttane”, scrive uno online- stanno raccontando la stessa storia in modo estremo, oscuro e selvaggio. Che c’è libertà femminile nell’essere liberamente madri. Che si deve essere almeno in due, madre e figlio, per essere l’una che si è. Che l’emancipazione ha finito il suo giro.
Manca un pezzo importante, certo, alla storia. L’altra metà della fotografia. La fiducia nella relazione è ancora condizionata. Ci vorrà che il figlio cresca, rivelandosi quell’altro che è, per imparare a fare spazio anche a quel terzo –il padre- che oggi viene tenuto fuori. Ma dategli tempo (non poi molto), lasciate che la ruota giri ancora un poco, e ci toccherà sentire, dal Wisconsin o da qualche altro posto d’Occidente, di certe giovanissime rivoltose che si sposano in massa, e i genitori devastati fuori dalla chiesa, chiusi nei loro ringhiosi “no comment”.

(uscito su “Il Foglio” del 21 giugno 2008)