Seguo il dibattito sull’art. 18 e provo a farmi un’opinione, senza pregiudizi.

Al momento dico solo che non è sopportabile che in uno stesso luogo di lavoro, a parità di mansioni, vi sia chi è garantito e non lo è -situazione che conosciamo bene tutti- e nemmeno che il sistema delle garanzie vada a esaurirsi con la progressiva uscita degli attuali assunti a tempo indeterminato, che nel prossimo futuro rischiano di diventare una vera rarità.

Dico che i poveri ce li abbiamo in casa, e sono i nostri figli, destinati, in assenza di nuove regole, a un precariato senza fine. Toccherà a noi doverli garantire, fargli da welfare, assicurargli un tetto, arrivare dove non arrivano, investire i nostri risparmi nella tutela delle loro famiglie. E poi?

Dico anche che non possiamo rinunciare, nemmeno in queste circostanze, a ragionare sulla qualità del lavoro e dell’esistenza. Che non possiamo sacrificare sull’altare delle garanzie il senso di un’intera vita. Conosco molti ragazzi che pur di non rassegnarsi all’alienazione di un lavoro deludente ancorché garantito, che non corrisponde affatto alle loro aspirazioni, riducono al minimo le loro pretese e rinunciano a perseguire l’idea del posto fisso. Una generazione di downshifter, nata e cresciuta nel relativo agio e pronta alla frugalità del molto-meno.

Si dovrebbe tenere conto anche di questo, nei ragionamenti. E ripensare tutta quanta la questione del welfare in questa prospettiva. Una parte consistente delle moltissime tasse che eroghiamo siano destinate a un sistema di garanzie che preservi il senso di ogni singola vita.

Anche questa è crescita.