Una volta il vestito bello, quello della domenica, lo chiamavano “buono”. Al Sud usa ancora, penso a certe botteghe napoletane odorose di stoffa, i sarti con il metro al collo e il gessetto blu. Ma “bello”, viceversa, può valere per “buono”, e “brutto” per “cattivo”. Il salumiere sta impacchettando il mio mesto formaggio dietetico, e la signora che fa spesa accanto a me mi esprime la sua solidarietà: “Quant’è brutto, il quartirolo…”.

Credo che si tratti di quel che resta del greco kalòs kai agathòs– le parole sono siti archeologici-: il bello che è anche buono. Ce l’hanno spiegato al ginnasio, ma noi non l’abbiamo mai davvero capito: insieme alla parola abbiamo smarrito anche il senso di questa gloriosa unità, il fatto che il bello, platonicamente, è l’aspetto visibile del bene. Una lettrice mi ha scritto che anche nella lingua navajo c’è una parola, “hozo” che indica un insieme inestricabile di salute, bellezza, bontà, armonia, felicità.

Bello e buono li abbiamo brutalmente allontanati. Ma l’uno senza l’altra fanno fatica a vivere. Guardiamo la bellezza con sospetto, invece di accettarne il mistero salvifico. Quando vedo certe feste “popolari” all’insegna della salamella, della sciatteria e dei banchi cinesi, mi pare un vero delitto politico: ai ricchi il bello, nella forma ambigua del lusso, e ai poveri il triste essenziale del pane senza rose. Le afghane sotto il burqa si coloravano le guance, e durante il regime talebano rischiavano la pelle per una messa in piega nei salon clandestini. Questo per dire di che cosa stiamo parlando.

A Milano, non lontano dalla celeberrima e festosissima via Padova, su iniziativa dell’editore Terre di Mezzo ha preso avvio un laboratorio di scrittura creativa per bambini ispirata ai “Fighting words” di San Francisco, e a quelli di Dublino animati da Roddy Doyle. Non è certo che ne usciranno grandi scrittori. Ma la bellezza delle parole, questo è sicuro, salverà molti ragazzi specie stranieri dalla tentazione di rassegnarsi al degrado.

Fare belle le nostre città basterebbe e avanzerebbe come grandioso programma politico. In un paese come il nostro, poi, in cui la bellezza è sempre stata “rinascimentale”, ci ha sempre rimesso al mondo. “Voi italiani dite sempre ‘Bello!’” ha osservato una volta il buffo Jean Paul Gaultier. Da tempo lo stiamo dicendo troppo poco, io credo. Forse per questo siamo nei guai. E allora, “Bel” Natale a tutti.
pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 18 dicembre 2010