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bambini, Donne e Uomini, salute Aprile 10, 2014

Fecondazione eterologa: il figlio ha più diritti di tutti. E non solo “a sapere”

Capiremo presto se si dovrà riaprire il dibattito parlamentare sulla fecondazione assistita, come sostiene per esempio la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin. O se come ritengono alcuni giuristi, la sentenza della Cassazione, che dichiara lecita la fecondazione eterologa -ovvero ricorrendo a seme o ovulo donati da terzi- non  ha aperto alcun vuoto normativo che renda necessario un nuovo intervento del legislatore.

Mi pare abbia ragione la ministra quando sostiene che la liceità della fecondazione eterologa apre alcune questioni che vanno definite: e in particolare la questione dell’anonimato del donatore-trice e il diritto del figlio-a a essere informato.

In molte legislazioni internazionali si è passati dall’anonimato del genitore “terzo” alla primarietà del diritto del figlio-a a essere informato sulle sue origini biologiche.

In uno dei documenti fondamentali in materia, l’Human Fertilisation and Embriology Act, stilato nel 1990 nel Regno Unito, si legge:

In 2004, the Human Fertilisation and Embryology Authority (Disclosure of Donor Information) Regulations 2004/1511, enabled donor-conceived children to access the identity of their sperm, egg or embryo donor upon reaching the age of 18. The Regulations were implemented on 1 April 2005 and any donor who donated sperm, eggs or embryos from that date onwards is, by law, identifiable. Since that date, any person born as a result of donation is entitled to request and receive the donor’s name and last known address, once they reach the age of 18“.

Si riconosce quindi che il diritto del figlio-a sapere prevale rispetto al diritto del donatore-trice a restare anonimo-a (e della coppia a “cancellare” il donatore-trice).

La coppia che accede a fecondazione eterologa e il terzo-a che cede i suoi gameti scelgono infatti in piena consapevolezza, mentre la consapevolezza del nascituro-a va promossa e tutelata.

Il diritto a conoscere le proprie origini è un diritto fondamentale del minore sancito dall’ art. 7.1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che riconosce il “diritto […] nella misura possibile, a conoscere i suoi [del fanciullo] genitori […]”. Il termine “genitore” ricomprende tre categorie: il genitore genetico, il genitore biologico che partorisce e il genitore psicologico, ossia colui che cresce e si prende cura del minore per un periodo significativo della sua vita.

Quindi questo diritto va garantito, e la legge 40, profondamente cambiata da ben 32 sentenze in 10 anni, non consentendo fino a ieri la fecondazione eterologa non dice nulla su questo punto.

Vorrei aggiungere due punti alla discussione, questioni che non si lasciano facilmente tradurre in leggi e codici:

a) quello che fa “scandalo” e crea problema nella fecondazione eterologa è la “sparizione” del genitore-trice biologico-a o della madre surrogata. Per ricorrere a un esempio antico, la balia che dava il suo latte al posto della mamma instaurava una relazione tenera e affettuosa con il piccolo che attaccava al seno. Ho il ricordo personale di mio padre -sua madre, lavorando, non poteva allattare- che aveva mantenuto un rapporto tenero anche con i figli della sua balia, “fratelli di latte”. La nostra esistenza si dipana in una rete di relazioni. La “sparizione” del donatore-trice crea inevitabilmente un buco in questa rete. Non è, cioè, solo questione di anonimato e di diritto a sapere. E’ questione della mancanza di relazione -per sentimento di possesso da parte dei genitori, o per il fatto che il donatore-trice mette a disposizione i suoi gameti in cambio di denaro, o semplicemente non intende avere un posto nella vita del nascituro- che può creare un problema al figlio-a. Io credo invece che ci sia anche un diritto del figlio alla relazione. Che nelle relazioni vive tutto possa essere ricomposto: si dovrebbe trovare un nome e una parte nella vita del bambino-a per chi contribuisce alla sua venuta al mondo. Forse ci dovrebbe essere o dovrebbe essere costruita una relazione tra la coppia e il donatore-trice e/o la madre surrogata: un amico che dona il suo seme, o una sorella che “presta” il suo utero è cosa ben diversa da uno studente che offre i suoi gameti in cambio di soldi e poi sparisce, o da una donna indiana che offre il suo grembo per fame.

b) il ricorso alla fecondazione assistita, in particolare all’eterologa, dovrebbe essere intesa come extrema ratio, perché non è mai un’operazione a costo zero (costi psicologici, intendo). Questo significa concentrare i nostri sforzi nella prevenzione dell’infertilità, sulla quale non si fa quasi nulla. Il lavoro che va fatto su questo terreno è un lavoro scientifico -individuare le cause principali dell’infertilità e offrire soluzioni mediche- ma anche politico: creare le condizioni socio-economiche che permettano a una coppia di non rimandare sine die il concepimento. Oggi una donna di a 40 anni potrà anche dimostrarne 30 o ancora meno, ma il suo orologio biologico resta quello di una quarantenne. E concepire a quarant’anni resta molto più difficile che a 2o. Ci sono casi, come il rischio di trasmettere malattie genetiche, che non lasciano molta scelta: a meno di non scegliere di correre il rischio, la fecondazione assistita resta l’unica strada. Ma molti casi di infertilità possono essere prevenuti, e non solo con cure mediche. Una legge come quella che vieta le dimissioni in bianco o una politica che favorisce l’occupazione femminile (le donne mettono al mondo più bambini quando lavorano) possono fare moltissimo.

 

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, Corpo-anima, esperienze Dicembre 11, 2011

"Donare" e non sparire

Il Comitato di Bioetica del Governo ha recentemente espresso un parere sul tema dei bambini nati da fecondazione eterologa, cioè con ovodonazione, o con donazione di seme, o di entrambi. Sono molti in Italia, figli del cosiddetto turismo procreativo, perché da noi l’eterologa è proibita.

Secondo la Consulta, a questi bambini va detta la verità sulle loro origini. Giusto, e almeno per due ragioni. Prima ragione: qualcuno prima o poi glielo farebbe sapere. Sconda, più sottile: intorno al buco del segreto e del non detto, che i bambini percepiscono perfettamente, proliferano i fantasmi.

Il Comitato si è invece diviso sul diritto del figlio di conoscere l’identità del donatore o della donatrice, diritto sancito in quasi tutto il Nordeuropa.

Per due genitori che abbiano fatto questa esperienza, spesso un vero calvario, può essere molto angoscioso il fatto di dover dire, di dover mettere a rischio la relazione esclusiva con il loro precious baby. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma quell’angoscia non è immotivata.

Quando si toccano i fondamentali della vita si produce sempre uno squilibrio difficile da sanare. Non possiamo escludere –io, anzi, lo includerei- che il figlio viva la “sparizione” del donatore o della donatrice come un abbandono, che si produca una ferita con cui dover fare i conti a vita.

Io più che alla bioetica, che si presenta sottile ma spesso deve accontentarsi di conclusioni generalissime, maggioritarie e grossolane, credo alla relazione. Nel caso in questione credo nel fatto che quel donatore -o quella donatrice- non soltanto non sia anonimo, ma non sparisca affatto. Che entri a fare parte del tessuto della famiglia, con una sua parte affettiva, fin dal principio. Che occupi un ruolo inedito, tutto da disegnare, nella compagine familiare: sono inedite anche queste pratiche procreative, del resto. Una volta i bambini si legavano per sempre alla balia che li aveva tenuti al seno, e ai figli di lei, “fratelli di latte”. Potrebbe essere un modello.

Certo, sarà più difficile trovare qualcuno o qualcuna disponibile a donare, se non lo si autorizza a sparire. Ma così sparirebbero d’un colpo molti problemi –dire, non dire, quanto, quando, fino a che punto- che pesano sulla vita di questi bambini. Sarebbe chiaro da subito com’è andata. E che loro sono i figli fortunati di un plus d’amore.