Essere Zaha Hadid (com’è intitolato il bellissimo numero di Abitare in edicola, una cover che è già come un classico: compratelo) è essenzialmente essere una regina. Talmente signora delle cose da potersi permettere di sfidare la legge di gravità e le caratteristiche dei materiali, ma soprattutto la prepotenza del già detto, disegnato, ideato. In architettura, ma è una lezione anche per chi fa tutt’altro mestiere. Zaha talmente regale da essere splendida e straordinariamente attraente pur non corrispondendo a nessuno dei canoni da photoshop.

Essere Zaha Hadid, madre di magnificenze come il Maxxi di Roma, il Guggenheim di Taiwan, l’Opera House di Canton, forme fluide che sembrano intrappolare il dinamismo della vita e pulsare della sua stessa energia, è un modo superbo di essere donna e di dare forma a quel “fantastico” (io lo chiamo femminile, ma posso chimarlo anche immaginazione creatrice) a cui lei non ha mai voluto rinunciare, con la sua ricerca caparbia.

L’ho incontrata ieri in un Politecnico traboccante di entusiasmo e di ragazzi, che l’hanno accolta con vero amore –Milano al meglio delle sue possibilità di creazione e relazione-, le ho fatto una domanda, sono stata colpita da molte delle sue risposte.

Mi è molto piaciuta, in particolare quando ha detto che nell’insegnamento fa “molto conto sul fattore paura”. Che ci vuole un misto di terrore e accompagnamento, per ottenere risultati dai ragazzi. Temo che sia proprio così, che questo faccia parte delle responsabilità di una regina, che sono anche politiche. E ho pensato, mentre lo diceva, che è anche doloroso, in qualche punto del cuore, ma necessario.

Ho un paio di meravigliose scarpe disegnate da Zaha, tra organico e inorganico, animali fantastici ma anche sculture alla Boccioni. E’ stato un colpo di fulmine. Il mio numero non l’avevano, ho comprato un numero meno illudendomi di starci, pur di averle. Non ci sto. Le metterò su una mensola o in una teca, credo.

Vorrei essere Zaha Hadid.