Sulla morte del giovane Abdul, sepolto ieri.  Da subito il dibattito è stato: é razzismo o non lo è? Se fosse stato bianco, le cose sarebbero andate in questo modo? Un fronte che ha premuto per il sì, un altro, probabilmente maggioritario, che ha tenuto duro: non si tratta di razzismo, è stata una tragica fatalità.

Ci sono probabilmente buone ragioni, oltre a quella di volere evitare le aggravanti di legge, per non ammettere che probabilmente la bravata di un ragazzo bianco non si sarebbe conclusa allo stesso modo, che chi ha deciso di farsi selvaggiamente giustizia sarebbe stato meno accanito. Forse violare il tabù e nominare il razzismo in qualche modo lo farebbe esistere, ci costringerebbe a guardare in faccia la questione, ad affrontarla, a dirimerla.

Mi pare però che il problema sia malposto. Si tratta di guardare in faccia il nostro inner racist, di riconoscerlo, accettarlo, di farci amicizia, di discuterci, perfino di riconoscergli qualche ragione, e di comprendere la sua posizione. Si tratta di vedere se riusciamo a convincerlo con le buone che ci sono altre strade, migliori della sua. E di incamminarcisi insieme.