La dannata faccenda del burkini apre contraddizioni che non si possono chiudere in tutta fretta, sì o no.

Ne ho visti un paio di questi poveri fantasmi sulla spiaggia, con il marito in regolamentari mutande e i figli nei loro costumini. Era questo a colpirmi, loro a godersi il sole e il mare sulla pelle, lei con la stoffa che le si incollava alle gambe. E le figlie, a cui a breve giro sarebbe toccato lo stesso destino. Che cosa penseranno, mi chiedevo, di quella mamma, in mezzo a tutte le altre mamme seminude? E di loro stesse, quando dovranno infilarsi in quella muta?

A me monta una rabbia tremenda, ma a loro? Quello che conta non sono quei quattro stracci: a nessuno verrebbe mai in mente di proibirmi di stare in spiaggia vestita. Quelle nonne del sud che abbiamo visto tante volte perfettamente coperte sotto l’ombrellone, sollevare appena le gonne per bagnarsi le caviglie. Non dobbiamo andare tanto lontano. Siamo una zattera in mezzo al Mediterraneo, abbiamo tutto ciò che serve per capire.

Che cosa posso fare, io? Posso esserci, accanto a lei, il giorno in cui lei si vorrà finalmente togliere di dosso quei quattro stracci. Posso essere lì con la mia libertà accanto alla sua, autorizzandola. E’ lei a dover fare quel passo verso se stessa. C’è però il fatto che se io sono lì in spiaggia accanto a lei, anche lei è accanto a me. Il movimento potrebbe essere diverso da quello che auspico. Il cerchio della sua oppressione potrebbe allargarsi e catturarmi. Ho paura. Potrei ritrovarmi a cedere, come ha ceduto lei -non temo per me personalmente: sono di quelle che semmai si fanno ammazzare. La questione è genealogica-. So che lei è forte, lo sento, so che ci vuole un’immane forza per sopportare questo e tutto il resto. Ma quella forza non l’ha ancora usata per quel passo spiazzante e inaspettato.

Preferirei che lei non ci fosse, ma lei c’è. Se le impedissi di venire al mare bardata in quel modo la lascerebbero a casa. Forse lei sarebbe più contenta, forse no. Forse questo la spingerebbe a fare il passo, forse no. Sarei capace di parlarle senza dirle: levati quella roba di dosso? Dovrei ingoiare e fare finta di niente?

Mia madre sarebbe stata un magnifico soprano. Non so come abbiano fatto i soprano, i mezzo-soprano e i contralto della sua generazione, ma lei non ce l’ha fatta. Suo padre le ha impedito di cantare, e lei non ha cantato più. Fino a un certo punto è scappata di casa, la sera, per andare a cantare nelle balere, nelle osterie. Un istinto irrefrenabile. Suo padre la riacchiappava ogni volta per i capelli, e non lo dico in senso figurato. La riportava a casa livida, sulla canna della bicicletta, zigzagando tra i prati. Ricordo le mani dure e nodose di mio nonno. Era come far tacere un’allodola, una cosa impossibile. Lui –un uomo tanto buono, credetemi- è riuscito nell’impresa impossibile, non so come abbia fatto.

Lei non ha cantato più. Ha passato tutta la vita a vendicarsi, con il marito, con i figli, con me, soprattutto con me, schiumando rabbia, scappando ogni volta che poteva, con il corpo o solo in spirito. Però non ha cantato più. Quel passo non l’ha voluto, non l’ha saputo fare. Avrebbe potuto farlo qualcun’altra al posto suo? Sarebbe stato giusto strapparle quei suoi stracci di dosso e farla volare? Obbligarla a non tradire se stessa? Io non lo so, davvero non lo so, dico davvero. So che ha provato a rifarlo con me. Ha cercato di fermarmi in ogni modo. L’autosessismo è la faccia più terribile del sessismo. Un po’ ce l’ha fatta, un po’ no.

E’ molto orgogliosa di me, adesso. In qualche modo ho cantato anche per lei. Ma fosse stato per lei, non ci fosse stato un padre dolce e antimaschio ad arginare la sua furia divoratrice, anch’io avrei impegnato il più della mia vita nella vendetta e nella rabbia.

Sono uomini che ti obbligano a coprirti, e sempre uomini che ti obbligano a scoprirti. E in mezzo tante donne zelanti esecutrici e custodi di quelle leggi. Leggi degli uomini contro altre leggi di uomini: l’incantesimo non si romperà in questo modo. Dov’è lo spazio per un nostro passo a lato, lo spazio di una libera significazione di noi stesse –vestite o svestite, come diavolo ci pare- in cui i nostri corpi e i nostri gesti non siano più impegnati a custodia dell’onore di uomini ossessionati da una sessualità vorace, impaurita e dipendente, o a testimoniare un’idea universalistica di libertà?

Quando e come potremo non essere più pegni di altro? Non lo so. Diventa ogni giorno più difficile rispondere a questa domanda. Sono i burkini e tutto il resto a provocare il backlash e a riportarci indietro?

Per come sono fatta io, mi toglierei volentieri la soddisfazione di dire: cara mia, tu bardata in questo modo al mare non ci vieni. Bella mia, tu al super con la faccia coperta non ci entri. E quando me la sono ben tolta? Al netto delle ragioni di sicurezza, che pure esistono, ci mancherebbe, quanta libertà femminile si guadagnerebbe per questa strada? Qual è la mossa giusta per guadagnarne?

E se non è libertà femminile che si sta cercando, la partita qual è ?

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