C’è una parola napoletana, “masculilla”, corrispettivo del più noto “femminiello” per raccontare Cira-Ciro Migliore, la giovane donna (il suo corpo è femminile e all’anagrafe è donna) brutalmente aggredita dal fratello della sua compagna Maria Paola Gaglione, uccisa nella spedizione punitiva.

In quella cultura antica che precede di millenni la tassonomia queer, alcune creature decidono di non appartenere al genere che sarebbe loro assegnato in base al sesso di nascita. E vivono, si abbigliano, si comportano come se appartenessero a un genere terzo, né precisamente maschile né precisamente femminile, tradizionalmente accettati nella loro scelta dalla comunità che attribuisce loro un posto e un ruolo preciso.

I femminielli della tradizione non si dicono donne anche se sono ammessi a vivere tra le donne. Discendenti dei Coribanti della dea Cibele, svolgono alcuni compiti rituali: la “tombolata del femminiello” -ancora in uso- allude a questi riti ancestrali. Idem le più rare “masculille” che non si dicono uomini ma fanno parte di un genere terzo e non sono costrette a una scelta tra i due generi. Tant’è che la madre di Cira-Ciro, testimone di quella cultura, la chiama alternativamente “mia figlia” e “mio figlio”.

La subcultura queer interviene su questo tessuto, delicato come una trina antica, e lo strappa rovinosamente: la tragedia di Caivano non si può leggere e decifrare con le lenti classificatorie di origine anglosassone (è sempre bene ricordare che fino al 1982 la Gran Bretagna ha perseguito l’omosessualità come reato penale). Quella subcultura mainstream sta distruggendo ciò che resta di una tradizione mediterranea millenaria, piegandolo a un uso politico contingente e usando questo orribile fatto di cronaca per promuovere il cosiddetto self-id: ovvero la possibilità di definirsi liberamente uomo o donna a prescindere dal corpo sessuato di nascita senza alcun atto pubblico che accompagni e sancisca il passaggio (è già pronta una legge).

Molte donne partecipano con empatia al dolore di Ciro-Cira e accettano di chiamarla “ragazzo”: è bene però che sappiano che la loro empatia sarà usata politicamente contro di loro, e dovranno conseguentemente accettare di chiamare “ragazza” qualunque uomo che con il corpo di uomo intatto vorrà accedere ai loro spazi, godere delle -poche- azioni positive destinate alle donne, delle quote lavorative e politiche, partecipare -e vincere- alle competizioni sportive femminili per il fatto che “si autoidentifica” come donna, anche in mancanza di qualunque percorso di transizione pubblicamente regolato. Sono pronte ad accettarlo?

Cira-Ciro è una masculilla che amava -riamata- una ragazza. Lei e il suo amore sono state vittime della prepotenza inaudita di un maschio che ha ritenuto suo compito difendere l’onore della famiglia e decidere della sessualità della sorella: si chiama violenza patriarcale misogina, è antica tanto quanto, ed è la prima cosa che dovrebbe balzare all’occhio in questa tragica storia.

Si chiama femminicidio, e ce ne intendiamo.

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