“Primum vivere anche nella crisi: la sfida femminista nel cuore della politica”: si sta concludendo la prima giornata di convegno (a Paestum c’è un magnifico sole, tanta gente ancora al mare, si soffre un po’ chiuse a lavorare, ma ne vale certamente la pena). 800 partecipanti, oltre ogni aspettativa.

Una soggettiva, necessariamente parziale, delle cose che sono state dette. Chiedo scusa a tutte quelle che non potrò menzionare. Di alcune non indicherò il nome, ma solo qualcosa di quello che hanno detto: appunti presi in volata, sono certa che perdoneranno.

Niente relazioni, solo interventi non preconfezionati. Mattinata in forma plenaria, pomeriggio suddivise in 9 gruppi che hanno lavorato liberamente, scegliendo i temi di riflessione: “Una scelta di metodo che è già politica”. Domattina le conclusioni in forma plenaria.

MATTINA

Introduzione di Lea Melandri: “Condividiamo un patrimonio enorme di saperi e pratiche che oggi hanno molto da dire di fronte a una crisi che è iscritta nell’atto fondativo di questa civiltà, nata separando e dividendo: corpo e polis, donne e uomini, riproduzione e produzione, e molto altro. Oggi l’insostenibilità di questo modello è diventata chiara. Noi siamo nate da questa consapevolezza e abbiamo risposte da dare. Il “primum vivere” era già nelle intuizioni del femminismo originario”.

Nei primi interventi prevale l’emozione. Alcune si rivedono dopo molti anni, per altre è una prima volta un po’ sconvolgente: “Mi ritrovo davanti alla mia identità” dice Adriana, architetta quarantenne. “E’ come un muro che si sta sgretolando”.

Francesca, Bari: “C’è da dare una sistemata a tutti i luoghi di potere di questo Paese. Stiamo lavorando a una legge di iniziativa popolare che imponga il 50/50 nella rappresentanza politica”.

Elena, Pordenone: “Le intuizioni del femminismo (partire da sé, io sono mia, coscienza del limite) mi hanno guidato in tutti questi anni, e oggi mostrano di avere un grandissimo valore politico”.

Elena, Cosenza: “Attribuisco grande valore alle emozioni che stiamo provando, ma dobbiamo delineare un obiettivo politico chiaro”.

Silvia, Venezia, 29 anni: “Non vedo un problema di rapporto tra generazioni. Siamo tutte contemporanee, con le nostre differenze, nell’istante in cui ci troviamo”.

Maria Luisa Boccia, Roma: “E’ necessario accettare di praticare il conflitto in tutti i luoghi dell’esperienza. Anche il conflitto con donne che intraprendono percorsi sbagliati: la logica paritaria perseguita in politica non rende giustizia alla differenza sessuale”.

Operaia della Fiat: “Vivo in un ambiente molto diverso dal vostro, non sono venuta con grandi aspettative, spesso sono stata delusa. Oggi l’accordo in Fiat nega noi donne, noi non esistiamo né per i sindacalisti né per l’azienda. Tante sono costrette a lasciare il lavoro per curare i figli o i vecchi, anche se non vogliono. Le donne che hanno la possibilità di occuparsi di politica non solo possono, ma hanno il dovere di farlo. Come operaie Fiat abbiamo scritto una lettera ad Anna Finocchiaro per denunciare la discriminazione che subiamo. Lei ha promesso di occuparesene, ma non ha mantenuto”.

Luisa Muraro, Milano: “Dalle rappresentanti elette voi operaie non avete ottenuto niente, e allora perché spingete per la rappresentanza? Il movimento operaio ha sempre creduto nella rappresentanza, ma è stato sconfitto. La soluzione non sono le rappresentanti, ma il legame con donne in carne e ossa”.

Una donna di Napoli: “La differenza deve essere agita in qualunque spazio pubblico, quindi anche nella politica. Io non vedo più l’utilità di tenersi fuori dalle istituzioni rappresentative. Alcune entreranno, e la gran parte di noi potrà continuare a lavorare efficacemente fuori”.

Daniela Dioguardi, Palermo: “Le nostre pratiche politiche devono andare al governo. Si tratta di capire in che modo. E’ necessario un lavoro per cambiare la politica e le istituzioni”.

Annarosa Buttarelli, Mantova: “E’ il momento di abbandonare ogni idea di rappresentanza politica di genere. Il 50/50 è poca cosa rispetto a quello che oggi possiamo fare. E’ inutile pensare che la quantità di donne nelle istituzioni possa cambiare la situazione”.

Assessora di Torino: “E’ la mia seconda esperienza da assessora. La prima volta ero l’unica donna, sono scappata. Ora sono nella giunta 50/50, mi sento più forte grazie al legame con le pratiche delle donne. Non si tratta di portare il femminismo nelle istituzioni, ma di portarci donne che si leghino in una relazione politica con le altre, e la mantengano una volta entrate”.

Ida Dominijanni, Roma: “Si deve fare vivere il desiderio di protagonismo anche nei luoghi in cui si decide. Non credo nel 50/50, è solo illusorio e fantasmatico. Oggi c’è un tornaconto maschile nel fare entrare donne, che però non sono in relazione con le altre”.

Wanda Tommasi, Verona: “Esiste la difficoltà di fare capire che quella delle donne è già politica. E’ necessario agire un conflitto per sottrarre terreno al potere”.

Donatella Massarelli, Perugia: “La presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, si è mostrata capace di riconoscere il debito con il pensiero delle donne. Una domanda necessaria: com’è che il Paese del femminismo più potente e raffinato è quello in cui la condizione delle donne è più miserabile?”.

Mariella Gramaglia, Roma: “Sono qui con mia figlia, e questo è un fatto. Ci sono anche grazie alla grande manifestazione del 13 febbraio, che per lei ha significato molto. Mi pare invece che qui stiamo rimuovendo Se Non Ora Quando, e questo volersi ignorare reciprocamente mi dispiace. Quanto al 50/50: è senz’altro qualcosa che ha a che vedere con la giusta ambizione delle giovani donne a un futuro”.

 

POMERIGGIO, uno dei nove gruppi

Pina, dalla Puglia: “Oggi c’è un eccesso di produzione, si deve lavorare su questo. La scelta a Taranto non può essere tra il lavoro di pochi e la vita di molti”.

Anna, Cosenza: “Non siamo ancora riuscite ad ottenere un minimo supporto per i servizi basilari. Abbiamo avuto qualche ascolto solo quando c’era qualche donna sensibile nelle istituzioni”.

Sandra De Perini, Mestre: “Vorrei uscire da Paestum con 2-3 nuove parole che ci guidino nel lavoro politico futuro”.

Silvia Motta, Milano: “Il mondo non ha ancora registrato che i sessi sono due, dobbiamo lavorare perché questo emerga definitivamente”.

Simona Marino, Napoli: “L’idea della cura al centro della politica diventa efficace se si intende la cura una “funzione di lotta”, come diceva Foucault. Lotta, perché se si mette la cura al centro si rompono i codici simbolici e valoriali, e le parole della politica non possono più essere le stesse. Cura è tenere le persone al centro dell’azione politica”.

Marinella, Pesaro: “Sono qui perché mi manca il lavoro con le donne. Noi a Pesaro abbiamo avuto buoni legami con alcune donne nelle istituzioni, e quando non sono state rielette per noi è stato tutto più difficile”.

Sandra Bonfiglioli, Milano: “Siamo di fronte al crollo di una civiltà nata quando il lavoro è diventato merce, rimuovendo la condizione umana. Questo è capitato con la società industriale. Si tratta di capire quale nome dare a un nuovo patto sociale, di trovare la parola chiave per indicare la civiltà nuova che intravediamo in molte delle nostre esperienze, ben oltre tutte le separazioni che subiamo, prima fra tutte quella fra lavoro e vita”.

Pierangela Mela, Torino: “Ci vuole cura anche delle relazioni politiche. Noi a Torino stiamo facendo l’esperienza di un legame tra donne che stanno nelle istituzioni e donne che invece non hanno voglia di starci in prima linea, ma condividono lo stesso linguaggio e lo stesso amore per la politica. E’ necessaria una comunicazione tra quelle che stanno fuori e quelle che sono dentro, che non vanno abbandonate alla loro solitudine”.

Carmen Seia, Torino: “Si tratta di inventare nuove pratiche. Per esempio: molte donne sono proprietarie di case che rimangono sfitte, si potrebbe concepire un nuovo modello che metta insieme il loro interesse ad affittare con la necessità, soprattutto dei giovani, di accedere a una casa a prezzi equi. Quanto alla politica: si dovrebbe pensare a un assalto delle donne ai piccoli comuni, dove spesso le esperienze civiche contano più dei partiti. Tante sindache e assessore per praticare da subito una politica diversa”.

Infine, quello che penso io:

non si deve avere paura della rappresentanza, e mi pare che qui a Paestum continui a circolarne troppa. Troppe energie vengono spese alla ricerca di ragioni sempre nuove per restare fuori dalle istituzioni rappresentative. Questa -entrare nelle istituzioni- è semplicemente una delle cose da fare. Il che non impedisce che si continuino a fare tutte le altre cose a cui le donne tengono molto. La rappresentanza non è la fine della politica delle donne. L’estraneità non può essere più assoluta. Si tratta di inventare le forme per mantenersi in legame -come nell’esperienza di Torino di cui ho riferito qui- con quelle che hanno il desiderio di fare quella politica in prima linea.

I fatti ci dicono che oggi ci sono molte donne, soprattutto giovani, che hanno il desiderio di andare. Questo desiderio non va censurato. Questo desiderio va sostenuto, il legame con loro va costruito e mantenuto. L’operazione non andrà sempre a buon fine, ma a volte riuscirà, e costituirà un buon modello. La politica della rappresentanza non può costituire l’unico spazio pubblico in cui le donne NON devono desiderare di andare. Avere questo desiderio non deve essere considerato un tradimento delle pratiche politiche delle donne. Oggi il danno della politica va ridotto, e che ci vadano tante donne è uno dei modi per perseguire questo obiettivo.

Scusate refusi e svarioni, scrivo di getto per informarvi in tempo reale.

A domani per il resto.

 

 

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