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WOMENOMICS

Donne e Uomini, WOMENOMICS Marzo 27, 2010

PRETENDIAMO CHE SIA FEMMINA

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Speriamo, anzi pretendiamo che sia femmina. Quando fanno un bambino con fecondazione assistita, 2 coppie americane su 3 scelgono rosa. Se in Cina mancano all’appello per aborto selettivo 100-200 milioni di bambine, nel nostro West femmina=prosperità, meno problemi, sonni tranquilli. “Beata te che hai una ragazza”, è la litania delle madri di maschi. Determinate, idee chiare, brave a scuola: 6 laureate su 10. Fra vent’anni saranno il 70 per cento delle matricole. Vere guerriere. Le uniche a poter competere con i giovani lupi in arrivo dall’ex-terzo mondo. “Dimenticate la Cina, l’India e Internet: la crescita economica sarà trainata dalle donne”. Saranno loro a portarci fuori dalla man-cession, scrive The Economist, che all’onda Womenomics sta dedicando grande attenzione.
Eccolo, il nuovo mainstream. Un mondo sempre più women friendly per Giulia, Martina ed Emma che avranno vent’anni nel 2016. Le nostre bambine terranno le briglie della loro vita, e a quanto pare anche del mondo. Più ricche dei loro partner: tempo 20 anni e guadagneranno più degli uomini.
Quanto ai consumi, sono già leader. In America l’80 per cento degli acquisti è deciso dalle donne -qui siamo sul 60-. 53 auto su 100 le comprano loro, tanto che “i designer hanno cambiato perfino la forma delle maniglie delle portiere perché si adattassero alle nostre unghie più lunghe”, informano Claire Shipman e Katty Kay in Womenomics-Scrivi le regole per il tuo successo (Cairoeditore). Giulia, Martina ed Emma le vorranno più sicure e capienti, con il posto per spesa, bambini e cani. Ma anche più convenienti ed ecosostenibili. Le nostre bambine saranno consumatrici accorte, consapevoli, interattive. Non sarà facile prenderle in giro. Vorranno emozioni, non solo cose. Sempre meno fashion-oriented, orientate a una neo-frugalità. E acquisteranno online: secondo Forrester Research fra 5 anni un italiano su 3 comprerà in rete. Anche la tecnologia dovrà tenere conto delle “native digitali”: le donne comprano già metà dei computer. Dice il neocommendatore Roberta Cocco, direttore Marketing Centrale di Microsoft Italia, e responsabile di futuro@lfemminile che “se i ragazzi usano le tecnologie anche per giocare, le ragazze le utilizzano soprattutto per socialità e amicizia”. Sono l’80 per cento, sui social network. Il design dovrà essere meno freddo, più empatico.iodonna_V
E’ per fare profitti, e non in omaggio alla parità, che il mercato dovrà diventare womenomics. Il malloppo sarà in questa metà del cielo. Per capire che cosa vogliono le donne dovrà ascoltare Giulia, Martina ed Emma, e chiamarle a decidere nei board e nelle stanze dei bottoni. Ma lì le nostre ragazze vorranno starci a modo loro, non come uomini, ridisegnando organizzazione del lavoro, processi decisionali, idea di leadership. Cucendosi addosso il potere come un vestito su misura. Le imprese dovranno darsi una mossa per non restare fuori dal giro. Come spiegano Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland in Rivoluzione Womenomics (Sole24ore), già oggi quelle con 3 o più direttori donne segnano +83 per cento del capitale netto, +73 per cento di utili sulle vendite, +112 per cento di rendimento del capitale investito.
Anche la politica dovrà essere women friendly. Le nostre bambine hanno uno spiccato senso civico, sono meno portate al “bowling alone” dei maschi. Se il mondo, come proclama il Fondo delle Nazioni unite per la popolazione, si aspetta di essere salvato da loro, dovrà aprire le orecchie e stare a sentirle.
Con tutti questi pesi sulle spalle, le nostre bambine saranno stressate. Tenderanno a fumare, a bere, a mangiare male. Bisognerà insegnare loro a prevenire. Meditazione e yoga, per restare in equilibrio. Uno stress aggiuntivo verrà dal nostro connaturato maschilismo. “Il modello globale, nordico e anglosassone, si scontrerà con le resistenze italiane” dice Francesca Sartori, docente di sociologia generale a Trento. “La tensione fra le aspettative e la realtà potrebbe farsi insopportabile”. Conferma Carmen Leccardi, docente di Sociologia della Cultura a Milano-Bicocca, da sempre attenta ai giovani: “Le ragazze vivono con grande slancio, si sentono pari, protagoniste. Il rischio è che non trovino nella società quello che si aspettano. Bisogna insegnare loro un maggiore realismo”.
Qualcuna sente già odore di bruciato. Negli Usa molte studentesse brillanti fuggono dalle facoltà di Economia.
Anche da noi ci sono ragazze che “si bloccano negli studi” dice Marisa Fiumanò, psicoanalista che anima “Edipo all’Università”, consultorio psicologico della Bicocca “come schiacciate dal carico di aspettative”. Il prezzo del protagonismo potrebbe essere alto. Anche sul fronte della vita personale.
“Sono deluso dalle ragazze di oggi” scrive su un blog un giovane maschio. “Acide, nevrotiche, perfide, fredde, egoiste, arroganti, strafottenti... fredde robot senza sentimento, stronzette orgogliose. Si sentono superiori, e a te che le guardi ti fanno sentire un idiota”.
Ogni autoaffermazione femminile riduce le capacità di seduzione”, avvertiva nonna Simone de Beauvoir. Gli uomini non ci trovano affatto adorabili per i nostri successi. L’ambizione femminile affatica le relazioni. Per Giulia, Martina, Emma potrebbero essere faticosissime. How To Be The Best At Everything, Come essere meglio in tutto: titola un manuale americano per fanciulle. Ma sul fronte corpo-sessualità-sentimenti le stiamo lasciando sole. Ed ecco certi strani acting-out.
Meno di due anni fa in un liceo di Gloucester, Massachusetts, 17 ragazzine si sono fatte mettere incinte in simultanea per “crescere i bambini insieme”. Sul Corriere una prof milanese racconta di una decina di ragazze in attesa nella sua scuola. Ogni cento bambini che nascono alla Mangiagalli di Milano, 10 non hanno papà: di questi, almeno 5 per scelta delle mamme. In Italia ci sono 10 mila teen-mother, con tendenza ad aumento. Negli Stati Uniti sono 800 mila l’anno. La fantasia fai-da-te è piuttosto diffusa. Realizzabile, avendo soldi in tasca. Quel che è certo, la maternità si è riposizionata al centro, enorme novità rispetto alle prime emancipate. Se la coppia con il partner è eventuale, il nucleo madre-bambino è essenziale.
Le nostre bambine perfette usciranno di casa prima dei maschi. Faranno sesso senza inibizioni: “La frigidità non esiste più” dice Marisa Fiumanò “i problemi semmai si pongono sul legame”. A intermittenza, sogneranno l’amore: “Sono più addestrate al sogno infranto” dice Chiara Gamberale, che ha scelto una ragazzina sui 15 come protagonista del suo nuovo romanzo. Ma la solitudine, vista l’esperienza delle madri, sarà messa nel conto. Per questo le amiche saranno sempre più importanti. Fare network, e non solo per la carriera. La rete ti protegge, ti fa sentire a casa. L’invidia tra donne diventerà un vecchio arnese.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 27 marzo 2010

Senza categoria, WOMENOMICS Marzo 9, 2010

RIVOLUZIONE WOMENOMICS

Women-In-Business

“L’avesse detto Pompeo Magno…” (storico collettivo femminista romano), osserva un’arguta amica. Ma che + donne = ottimi affari, lo garantisce il fior fiore degli osservatori economico-finanziari internazionali, mica quelle adorabili vecchie ragazze in gonnellone. Il genere non è un più un problema delle donne, ma una questione del business. Detto con le parole ultimative di Lars-Peter Harbing, presidente di Johnson & Johnson Europe, “mettere a fuoco la questione del genere non è un’opzione. E’ questione di vita o di morte”. Delle aziende e del business, s’intende.
Vediamo. Le donne lavorano fuori casa sempre di più. 2009, data storica: negli Usa è il sorpasso, le lavoratrici diventano i lavoratori tout court. La crisi fa più male agli uomini che a loro. Che anzi, lavorando di più, guadagnano di più. Sempre di più: si stima, per esempio, che nel giro di una decina d’anni le signore del Regno Unito deterranno il 60 per cento delle ricchezze personali. Ma guadagnando di più, spendono anche di più, decidendo voluttuosamente e in proprio che cosa comprare. Negli Stati Uniti l’80 per cento delle decisioni d’acquisto -non detersivi, pelati e pannolini, ma automobili, computer, telefonini e assicurazioni- è preso dalle donne. Ma nel Giappone tradizionalista le cose non vanno diversamente. Tant’è che per accattivarsi le consumatrici la forza vendita nipponica di American Express è al 70 per cento femminile. Il malloppo, dunque, è in mano loro.
Riusciranno i nostri eroi –pressoché tutti maschi- alla guida di quasi tutte le aziende del mondo a intercettare questo filone d’oro? Sapranno farsi un’idea di che cosa vuole una donna, supremo busillis del marketing contemporaneo? Che cosa vuole comprare, soprattutto? Se nemmeno Freud si diede una risposta, come sperano di riuscirci tutti quegli uomini al top, caparbiamente convinti di poter continuare a fare conti e strategie tra loro, senza dover sopportare la noia della presenza femminile?
Una ricerca condotta sulle 500 aziende top di Fortune ha scoperto che le aziende “bilingui”, ovvero con una buona mixité ai vertici, offrono performance significativamente superiori, sia a livello di rendimento del capitale netto, sia di rendimento per gli azionisti. Ricerche di McKinsey e di altri osservatori confermano. Le aziende con 3 o più direttori donne segnano un aumento pari al +83 per cento del capitale netto, +73 per cento di utili sulle vendite e +112 per cento di rendimento del capitale investito –mica noccioline- rispetto a quelle con “soffitto di cristallo o, a scelta, pavimento adesivo”.
Goldman Sachs ha astutamente creato un paniere azionario, Women 30, con i titoli di azioni capaci di beneficiare del crescente potere d’acquisto femminile: azioni che hanno realizzato performance superiori agli indici globali. Gestori di fondi come il ginevrino Amazone Euro Fund hanno deciso di investire in aziende con un buon numero di donne al top. E così via, in un irresistibile crescendo.
Al Pompeo Magno non se lo sarebbero neanche sognato. Date piuttosto un’occhiata a “Rivoluzione Womenomics – Perché le donne sono il motore dell’economia”, (edizioni Gruppo 24ore), documentatissimo best seller di Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland. Minaccioso distico in apertura, ripreso da “The Economist”: “Dimenticate la Cina, l’India e Internet: la crescita economica è trascinata dalle donne”. Una lunga serie di prove schiaccianti e inconfutabili del fatto che la “questione femminile” oggi è una “questione di business”.
Senza le donne, a quanto pare, oggi economicamente non si combina più nulla, e la febbre globale rischia di diventare cronica. Eppure nei board le donne continuano a essere mosche bianche. “Raramente la loro invisibilità nei vertici aziendali è stata così visibile”. Fate sparire quelle imbarazzanti foto ufficiali dei Cda tutti in grisaglia, così poco women friendly. Negli Stati Uniti le direttore esecutive sono il 15 su cento, sotto il 10 per cento in Europa, un misero 2 per cento in Asia. Quanto agli organismi di decisione: 16 per cento di presenza femminile in America, 4 per cento in Europa, il solito 2 per cento in Asia. In Italia ci sono 5 consigliere di amministrazione ogni 100 uomini, e il Cda è monosex in 6 aziende su 10.
Pensate a una seduta-tipo di uno qualunque di questi board. Questione “donne” al penultimo punto, appena prima dei gruppi etnici. La prima cosa da fare, dicono Wittenberg-Cox e Maitland, è proprio questa: smetterla di pensare la maggioranza del genere umano come una fra le tante minoranze.
Fosse facile. Anche noi post-emancipate che per un certo tempo siamo state uomini, possiamo benissimo renderci conto della difficoltà. Immaginiamo come ci si possa sentire: dover rinunciare a uno degli ultimi luoghi femmine-esenti di questa terra. Le donne sono strane. Rompono le scatole. Non separano ermeticamente pubblico e privato. Fanno irrompere dappertutto il fastidio della vita, figli e cose simili. Hanno il ciclo. Ragionano in quel modo astruso. Ma il fatto è che, secondo tutti gli indicatori, questa stranezza fa fare affari. La differenza produce valore.
Si tratta di “attraversare una vera e propria rivoluzione culturale per giungere a convincersi che le donne non costituiscono tanto un problema, quanto una gigantesca opportunità”, incoraggiano Avivah e Alison. Che distribuiscono equamente i manager in tre categorie. I progressisti, sensibili alla questione del genere anche per ragioni private -l’esperienza personale è sempre decisiva-: le crisi isteriche di una moglie in carriera, una figlia con 12 master che non viene mai promossa. Ecco poi i temporeggiatori, convinti che basti un po’ di pazienza e la cosa, nel giro di non più di mezzo secolo, finirà per aggiustarsi da sé: “voce fluttuante”, dicono le autrici. “Bisogna convincerli a confluire nel primo gruppo”. E infine i reticenti, apertamente ostili al lavoro e alle carriere femminili, che magari hanno convinto la moglie a starsene a casa e ora non possono permettersi di fare gli splendidi in ufficio.
Lo scoglio principale è il riconoscimento di una differenza di linguaggio, e la presa d’atto che “la variante femminile è parlata da una maggioranza economicamente molto forte”. Ma allora, in tutta franchezza: sono le donne ad avere bisogno di aiuto, di corsi, di supporto, di counseling, di tutoring, di mentoring, di tutto quel complesso apparato pariopportunitario messo in piedi da molte aziende per adattare le signore alla dura realtà del lavoro in terra straniera, come immigrate di seconda generazione? O non si dovrebbe piuttosto pensare a rieducare gli uomini che “inconsciamente perpetuano lo status quo, continuando a beneficiarne”?
La questione è complicata, perché anche ammesso e non concesso che i board aprano alle donne, non è affatto detto che le donne aprano ai board. In Commissione Finanze della Camera è a buon punto una proposta di legge, prima firmataria Lella Golfo, sul riequilibrio di genere nei cda delle società quotate: almeno un terzo andrebbe al genere meno rappresentato. In Norvegia, come si sa, da un paio d’anni è in vigore una legge che impone quote del 40 per cento. Eppure qui, a quanto pare, le performance delle aziende non sono affatto migliorate. Dovendo ottemperare in fretta e furia alla norma, pena severe sanzioni, le donne sarebbero state imbarcate in modo precipitoso, senza far troppo caso a preparazione e know-how.
Ma non è semplicemente questione di essere capaci. Si tratta anche di volerci andare. Qui pesa un’ambiguità del desiderio. Capita che le più brave –e anche le “più donne”-, una volta sulla soglia dell’agognato inferno facciano un passo indietro. Perché preferiscono fare altro. L’economia avrà anche bisogno di loro, ma loro non hanno tutta questa voglia di caricarsela in spalla per rimetterla in carreggiata. Si sa che una volta là dentro ti toccherà la pena più grande che possa toccare a una donna: ragionare, vivere, fare riunioni, attaccarsi al BlackBerry, correre da un aeroporto all’altro esattamente come gli uomini, però molto più infelici di loro. Non è un caso che ogni giorno 240 donne (il doppio degli uomini) aprano una nuova impresa, come nota Margaret Heffernan, autrice di “How She Does It”, guida all’imprenditoria femminile: “Aziende con una crescita, in termini di fatturato, utili e posti di lavoro, assai più rapida del settore privato nel suo complesso”.
Se in proprio funziona, nelle aziende maschili invece “è così faticoso essere se stesse!”, si lamenta la direttora generale di una grande multinazionale americana. “Bisogna resistere continuamente alla tentazione di cambiare i propri comportamenti”. La pioniera Bell Burnell, astrofisica irlandese scopritrice delle pulsar, all’apice della sua carriera in mezzo agli uomini si domandava: “Sono ancora una donna? O un uomo di serie B? Un transessuale? Una virago? Un’amazzone?”.
“Trainare la crescita economica” sarà anche fantastico, ma qual è il prezzo? E poi: cosa si intende precisamente per “crescita economica”? Ed è proprio indispensabile quel linguaggio alienante “zeppo di messaggi e metafore riferiti alla conquista militare… Incoraggiare le truppe, essere pronti per la battaglia”? Perché non si ragiona per obiettivi anziché in termini di orario? Come si fa a restare l’una che si è, senza essere ridotte in cocci da “conciliare”? Si può stare in quei posti a modo proprio, come donne-donne, e non come trans? Perché diversamente “perderemmo proprio ciò che andiamo a cercare” dice Paul Bulcke, Ceo di Nestlè, evidentemente un “progressista”: “vale a dire un’altra prospettiva, un altro modo di vedere le cose”. Ma questo modo di vedere le cose nelle imprese continua a non avere corso. Il gatto si morde la coda. “Di adattamenti alle esigenze delle imprese le donne ne hanno già fatti fin troppi” spiegano Avivah e Alison. “Ora tocca alle aziende cambiare le regole per adattarsi alle esigenze delle loro dipendenti”. E’ questo che serve al business.
Fosse facile. Buttare all’aria tutto, modelli organizzativi, tempi, business plan, stili di leadership: che, “qualora sia consentito alle donne di essere autentiche, noi sospettiamo siano per molti aspetti molto diversi da quelli dei loro colleghi uomini”. Ma c’è un’altra questione, anch’essa cruciale. Perché gli uomini dovrebbero farsi da parte, e in cambio di cosa? Che cosa guadagnerebbero, dal cambiamento (a parte buoni dividendi)? Che cosa potrebbe incentivarli a fare spazio? E’ davvero così strano che continuino a resistere, uno contro una –e al contrattacco, a quanto pare- non avendo ancora ben capito che cosa fare di se stessi e della propria identità?
Il business detta le sue priorità e i suoi tempi: ma quali sono i nostri, di donne e di uomini? Quanto potrebbe costarci, in termini esistenziali, questa rivoluzione copernicana, e come si fa a pagare meno? Domande difficili e scorrette che nell’economia non hanno campo, e nemmeno nella politica. Ma provare a porsele, per i nostri compagni, per i nostri figli, non è anche questo intensamente femminile?

(pubblicato su Il Foglio il 6 marzo 2008)

Donne e Uomini, WOMENOMICS Febbraio 20, 2010

DIRIGENTI DISPERATE

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“Mi sento chiusa in un bozzolo”, dice Sara. “E io a un bivio” risponde Claudia. “Temo che la mia energia interiore si stia esaurendo” dice Paola. E Angela: “Non so se ho lottato per obiettivi miei…”. Non è una seduta di autocoscienza d’antan, ma un coaching per signore manager. “Esperienza” la chiamano gli organizzatori di Edò, società di formazione.
Sono una dozzina, tutte top e middle manager: Fiat, Unilever, Pirelli, Samsonite. Dirigenti disperate (rubo il titolo di un libro di Chiara Lupi, manager anche lei), che per cominciare risvegliano le energie con un po’ di ginnastica nella Spa del resort sul lago di Varese. Poi, guidate dal coach (maschio sensibile e accorto), snocciolano tutte quelle domande per le quali non hanno mai avuto tempo. Perché erano in riunione, o troppo prese dalla mission aziendale, o stavano lottando per non essere fatte fuori. Perché –nel loro mondo duplex– stavano telefonando alla pediatra, trattando con l’idraulico, provando a salvare il loro matrimonio dal logorio della vita multitasking (a differenza dei colleghi maschi, le manager non hanno mogli su cui contare). Con il rischio di confondere i registri, mamme al lavoro e dirigenti a casa: non è strano che tra i manager i divorzi siano aumentati del 60 per cento.
Parlando di sé una scoppia in un pianto improvviso. La sua vicina singhiozza anche lei. Ma come… “Sono piene fin qui” bisbiglia il coach. “Sature. Capita sempre. Non ne possono più”. Signore grintose e super-preparate, altro che hosewives, obiettivi di carriera pianificati e raggiunti, posizioni prestigiose, sulla soglia della stanza dei bottoni. Eppure si disperano.
Per le donne sarebbe un gran momento. Quello del raccolto, se Dio vuole. Negli Usa c’è stato il sorpasso: più donne al lavoro che uomini. In Italia il 2009 ha visto nascere 20 mila nuove imprese femminili. Verificata una volta per tutte l’equazione + donne = + business: le aziende con vertici anche femminili offrono le performance migliori e un +70 per cento in Borsa (McKinsey). La differenza produce valore. Il termine womenomics è ormai entrato a far parte del lessico dell’economia e della finanza. Eppure i Cda restano tenacemente in cravatta e grisaglia: da noi ci sono 5 consigliere ogni 100 uomini, e il Cda di 6 aziende su 10 è tutto maschile (meglio non farle circolare troppo, certe imbarazzanti foto dei board…). I signori manager –l’87 per cento-, resistono all’evidenza. Il profitto avrà le sue ragioni, ma tra uomini si sta più tranquilli: almeno qui, lasciateli in pace! Forse workshop, seminari e danze rituali dovrebbero farli loro, per prepararsi al faticoso ma inevitabile cambio di paradigma: dall’uno all’inedito, vertiginoso due.
Ore 11.00, dopo il coffee break: “Non abbiate paura del vostro femminile!” implora il coach. “Non copiate il modello maschile! Date a noi uomini il tempo per abituarci”. Sembra di sentire Niall Fitzgerald, già ad di Unilever e oggi vicepresidente di Thomson Reuters, colosso dell’informazione economico-finanziaria: “Il mio consiglio è: non cercate di sviluppare qualità maschili proprio nel momento in cui stanno prendendo quota quelle femminili. Rimanete voi stesse e sollecitate gli uomini ad adottare modelli di comportamento diversi”.
Non è un’impresa da poco. Può voler dire un’altra idea del lavoro, della sua organizzazione, dei suoi tempi, con novità stravolgenti tipo flessibilità, house working e postazioni in remoto, altri linguaggi, più relazioni, meno gerarchia e più networking. Può voler dire lavorare per obiettivi chiari in tempi definiti (indicatori di output), e non piegarsi più alla logica della “disponibilità illimitata della risorsa”, come si dice in gergo: ovvero in ufficio ad libitum per fare carriera, magari a far niente ma presidiando la posizione (indicatori di input), ostaggi di quei “ladri di tempo”, come li chiama qualcuna, che ti organizzano riunioni alle sette di sera solo perché “loro a casa non ci andrebbero mai”. Anche i maschi più giovani, del resto, e non solo le donne, non sono più disposti a vivere così.
E ora raccontatemi un vostro obiettivo, invita il coach. “Bere più acqua”. “Basta dolci”. “Per un’ora niente BlackBerry” (wow!). “Non cedere ai persecutori” (aiuto!). Lella Golfo, deputata Pdl e presidente della fondazione Marisa Bellisario, è prima firmataria di una proposta di legge per il riequilibrio dei generi nei cda delle società quotate in borsa (v. box). Dice che in effetti “oggi gli uomini tendono a porsi sulla difensiva. Ci sono segnali di forte dialettica”. Anche Paola Pesatori, HR manager di Pirelli, racconta un clima da contrattacco: “La crisi sta costando più alle dirigenti” dice “che alle lavoratrici in genere. In molte aziende si gioca un po’ subdolamente sul work-life balance: ma perché, si dice alle dirigenti, non te ne vai finalmente un po’ a casa, a fare tranquillamente  le tue cose?”. In soldoni, trattasi di potere: una in più fa uno in meno. Il nodo è al pettine, e non si fa districare. La patata è bollente, e scotta nelle mani delle manager.
Ore 15.00, dopo il lunch: i vostri leader ideali? chiede il coach. Gesù, Giovanni Falcone, mia madre; un mio ex-capo, Giovanni Paolo II e il Dr House, “che alla fine arriva con la sua zampata di genio”. E ora ditemi, continua il coach: assoluto divieto d’accesso a… “Ai capi che entrano nella tua vita privata” dice Mariella; Claudia: “A quelli che non sanno gestire il loro tempo e invadono il tuo”. E un’altra: “Al mio ex-capo che mi ha tolto ogni giorno un pezzetto di autostima”. E’ guerra?
Monica Possa, direttore Risorse umane e organizzazione di Rcs Mediagroup, è indicata dalla Professional Women’s Association tra le 70 manager italiane titolate a entrare nei Cda. Fino a un certo punto della sua carriera ha creduto che le capacità e il merito potessero sbaragliare ogni ostacolo. Ma dopo anni di esperienza sul campo –e un bambino, che per una donna resta la super-esperienza- si è arresa all’evidenza che “senza una scossa al sistema non cambierà mai nulla. Senza azioni positive, con un preciso target numerico, tutto resterà com’è”.
Diamo alle cose il loro nome: senza un po’ di conflitto, un briciolo di sex-war… “Imporre quote” continua Possa “può essere un gesto conflittuale. Ma non è detto che ci sia solo questo. Nelle aziende esistono anche uomini non insicuri, che non si fanno spaventare dall’idea del cambiamento, pur con le fatiche che comporta. Uomini capaci di passare da un rassegnato “c’è bisogno delle donne” a un convinto “ho bisogno che ci siate”. Trovare interlocutori come questi può dare grandi risultati”.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 20 febbraio 2010)

Donne e Uomini, WOMENOMICS Gennaio 31, 2010

QUESTIONE MASCHILE

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Boston Globe, editoriale a firma Alex Beam (un uomo, a scanso di equivoci). Beam snocciola i numeri che descrivono la radicale femminilizzazione degli States, onda in arrivo anche da noi.
Il lavoro è delle donne: il sorpasso è avvenuto, ci sono più lavoratrici che lavoratori. E i settori di occupazione che promettono una crescita maggiore, secondo le proiezioni degli economisti, sono proprio quelli in cui le donne sono più forti. La rete è delle donne: 2 anchorwomen per un anchorman. Il pubblico della tv è più femminile che maschile. Le donne comprano più quotidiani, più libri, divorano cultura e sono politicamente più attive: per l’elezione di Barack Obama il voto femminile è stato determinante. Più che di recession sarebbe corretto parlare di he-cession, o di man-cession: il sesso più colpito dalla crisi è stato quello maschile. Secondo il Bureau of Labor Statistics, sono gli uomini a correre il maggior rischio (+ 30 per cento) di restare disoccupati.
Le stanze dei bottoni per ora restano surrealmente for men only, ma anche lì il vento della rivoluzione fa sbattere porte e finestre. Siamo finalmente e brutalmente al nodo del potere, nudo e crudo. Potendolo fare -–fecondazione assistita con predeterminazione del sesso- scelgono femmine 2 coppie americane su 3: il negativo della Cina. Ma anche qui presto cambieranno idea. Il secondo sesso fa carriera e diventa il primo.
L’enormità del cambiamento non trova adeguata rappresentazione: nei media, ancora ampiamente in mani maschili, ma anche nelle coscienze femminili, che restano sintonizzate su vittimismo e recriminazione. L’inconscio è più lento della realtà.
C’è poco da festeggiare, care signore. L’ideale sarebbe restare in due, senza che un sesso mangi in testa all’altro, in un equilibrio dinamico e difficile. Io amo intensamente la mia libertà, ma amo anche gli uomini e li vorrei in forma, e definitivamente liberati dalla tentazione della violenza e del dominio. Cerco e onoro il mio femminile, ma non a scapito del mio inner boy. E’ il caso di prestare tutti molta attenzione alla questione maschile. Anzitutto riconoscendo che esiste.

(pubblicato sui Io donna-Corriere della Sera il 30 gennaio 2010)