Il Fertility Day lo terrei in piedi, anche se il nome è orribile. Risignificandolo totalmente e offrendo strumenti efficaci, alle donne prima di tutto – sono loro a decidere se mettere al mondo un figlio- perché possano liberamente decidere quando, tenendo conto di limiti naturali inaggirabili
Teniamoci il “Fertility Day”. Ma facciamolo diverso
Milano, cercasi programma. Questo -su periferie e città metropolitana- è il mio
Qui Milano. Visto che downtown è tutto un Risiko di alleanze e contro-alleanze, candidature e controcandidature, chi sta con chi, a casa di quale candidato ci si vede oggi, ma di programmi, ovvero di che cosa c’è da fare in questa città non sta ancora parlando nessuno, rompo gli indugi e ne parlo io, che non sono candidata a niente. Così, magari li ispiro.
Quello di cui voglio parlare è il tema periferie-città metropolitana. A cominciare dal dire che forse sulla città metropolitana si rischia un eccesso di burocratismo che di sicuro non farà affezionare la gente al processo e non la renderà partecipe dell’impresa. E il fatto di vedersi passare la cosa sopra la testa e calare le cose dall’alto non è di buon auspicio perché la cosa funzioni. Quindi sforziamoci di deburocratizzare il processo, di renderlo più amoroso.
Si tratterà di una bella rivoluzione. E quelle che oggi sono intese come le periferie diventeranno nuovi centri, luoghi-ponte nel processo di costruzione della città metropolitana. Ponti non solo topografici, ma anche concettuali e sentimentali. Nuclei della città nuova, collocati nel punto di tensione tra la forza centripeta del centro storico e quella centrifuga dei comuni metropolitani. L’ultima rivoluzione di questo tipo –anche se non sono un’urbanista- probabilmente è stata la progressiva annessione alla città dei borghi e dei cosiddetti Corpi Santi, tra fine 800 e primi 900. Lì qualcosa è andato bene e qualcosa male. Nella maglia sono rimasti dei buchi che si sono riempiti di abbandono e di nulla.
La prima questione da impostare è quella ambientale. Viviamo nell’area più inquinata d’Europa, una specie di Pechino. Se la città metropolitana è il futuro, l’aria avvelenata è il presente. Tra i molti gap del nostro bizzarro Paese c’è anche questo: tra l’aria più pura d’Europa (Sila) e quella più impura (pianura Padana). Va posta da subito la massima attenzione a una politica integrata dei trasporti: all’efficienza della mobilità cittadina oggi si contrappone l’incredibile fatica del pendolarismo extraurbano, con la fiumana di auto in entrata ogni mattina. Ma si deve pensare anche alla riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, alla salvaguardia e una progettazione di nuovi polmoni verdi. La questione ambientale è del resto strettamente connessa anche al tema del lavoro e delle nuove povertà: la redditività degli investimenti pubblici per la riqualificazione energetica e per la salvaguardia del territorio è notevolmente superiore a quella di qualunque “mancia” fiscale a pioggia.
Nell’ambito della conferenza sul clima di Parigi, Naomi Klein ha introdotto un bellissimo concetto-paradigma, quello di “democrazia energetica”. Non lo intendo solo dal punto di vista delle fonti di energia, penso che possa essere suggestivo anche per molte altre questioni, dal lavoro al modello di città che andremo a costruire.
Tornando alle cosiddette periferie: considerato il ruolo centrale che assumeranno nel processo di costruzione della città metropolitana, il passaggio preliminare a ogni soluzione urbanistica è l’autoconsapevolezza, il racconto che ogni quartiere fa di se stesso: narrazione da cui traspare il genius loci, il talento inespresso, la vocazione di ogni luogo. Ogni quartiere dovrebbe poter raccontare la propria storia, il proprio unicum, il proprio potenziale. Per partire, più che dall’ elencazione dei problemi, dall’autorappresentazione del proprio meglio -ogni quartiere ne ha uno- e per agevolarne la fioritura, assecondandone la vocazione e sostenendone il programma “genetico”. Un lavoro antropologico –ascoltare chi vive in quei luoghi, raccoglierne la memoria e i desideri- prima ancora che politico.
Come dice Italo Calvino, “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”.
Niente può essere calato dall’alto. E’ chi vive lì che ti deve far vedere il suo posto bello. Non si tratta di invitare sussiegosamente a una partecipazione civica, ma di vero protagonismo nei processi. Paradigmatico, a questo riguardo, un caso come quello dei Quartieri Spagnoli di Napoli, che noi vediamo come il massimo del degrado urbano, ma la cui autorappresentazione spesso è molto diversa. Penso al pride di una signora affacciata da un basso che mi ha detto: “A Napoli io non ci vivrei mai”. Che cosa capita lì di buono che noi non sappiamo vedere? E nella stessa logica, dov’è il buono di ognuna delle nostre periferie? Ogni luogo ha una sua storia da raccontare, e si tratta di fargliela raccontare. Decenni di quantum, di necroeconomia, di case fatte su in fretta e furia e con il cartone in una logica di profitto sono la crosta che dobbiamo scrostare, la concrezione che dobbiamo demolire.
Si tratta di fuoruscire da una logica “centripeta”, non sentendosi più gli esclusi dal centro storico ma gli inclusi nel centro dei propri contesti. Tante nuove aree C. Saper fare dei propri luoghi di vita posti dove la gente vuole venire perché lì trova qualcosa che non troverà da nessun’altra parte della città, che dobbiamo immaginare strutturata ad arcipelago, ogni isola con la sua specificità. Alcuni processi sono già in atto, si tratta di saperli leggere, rappresentare e facilitare. Per esempio l’area intorno al naviglio Martesana, fortemente strutturata sulla memoria di una storia condivisa e sulla presenza del corso d’acqua, sta spontaneamente diventando una cittadella dello sport, con l’alzaia popolata di maratoneti e ciclisti che arrivano da tutta la città, vocazione che va considerata e valorizzata.
Il linguaggio è importantissimo perché è il primo gesto propriamente umano. Da molti anni insisto nel dire che non si dovrebbe più parlare di periferie. Bisognerebbe buttare via questo termine e sostituirlo con qualcos’altro. Trovare il nome della cosa significa farla esistere. Se il nome fosse già stato trovato, probabilmente oggi quelle che chiamiamo periferie sarebbero in una situazione migliore. Se ci si fosse già mossi in una prospettiva policentrica e non area C-centrica, la questione della città metropolitana sarebbe in gran parte impostata. Vivendo in periferia devo purtroppo dire che negli ultimi 5 anni la situazione non è affatto migliorata, si è anzi sperimentato un certo abbandono. Forse non l’assoluta miopia borghese della sindaca Moratti, che agli abitanti di Greco, devastati dal fracasso delle ferrovie, disse: “E chi gli ha detto di andare ad abitare proprio lì?”. Ma anche con la nuova giunta nella migliore delle ipotesi abbiamo visto un certo paternalismo che peraltro non ha prodotto risultati apprezzabili.
Quando penso alle periferie non mi riferisco a buchi neri tipo via Gola o ad altri complessi popolari che sono diventate fortini inespugnabili della criminalità organizzata. E’ sbagliato pensare di impostare il lavoro su situazioni limite. Sto parlando dei luoghi di vita della gran parte di noi e dei nostri concittadini: nelle cosiddette periferie vive più o meno dignitosamente il 60 per cento dei cittadini milanesi. Tra lo splendore di Porta Nuova e l’orrore di via Gola c’è la parte più importante delle cose da dire e da fare.
La politica ha molta difficoltà a prendere atto del fatto che nelle cosiddette periferie non solo c’è il futuro, ma anche la parte più interessante del nostro presente. Per esempio: mi ha molto –negativamente- colpito una cosa che ha detto l’ex-candidato sindaco Emanuele Fiano: che la mente della città, il suo motore innovativo sta in centro, e poi fuori c’è il corpaccione dei luoghi dove la gente vive, su cui questa mente deve applicarsi. E’ concettualmente molto sbagliato, perché se c’è un luogo da cui può nascere e dove sono sempre nate innovazione, cultura, anche nuova cultura politica, è proprio la cosiddetta periferia. Spesso le periferie urbane sono luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità.
Mi viene in mente una cosa che anni fa ho sentito dire da Vivienne Westwood, strepitosa designer inglese madre del punk, il cui segno ha influenzato fortissimamente gli ultimi decenni. Lei è nata poverissima nel villaggio di Tintwistle, Derbyshire, proprio non avevano da mangiare, e ha imparato il suo lavoro di stilista dalla madre che le cuciva quattro stracci perché non c’erano soldi per comprare i vestiti. Poi approda a Londra e va a vivere in non so quale zona strapopolare. Intanto si afferma come stilista, la sua griffe comincia a diventare importante e tutti si aspettano che lei cambi casa per stabilirsi a Kensington o in qualche altro quartiere posh. Ma lei dice che non si sposterebbe mai da dove abita, perché perderebbe le sue radici, la sua creatività, il suo desiderio, e non combinerebbe più niente di buono, non farebbe nemmeno più soldi, niente di niente. Certo, essere nato e vivere in periferia aiuta molto a capire. L’architetto Renzo Piano, che al tema sta dedicando grande parte della sua recente riflessione professionale e politica, in periferia ci è nato e cresciuto.
Etty Hillesum dice che la bellezza è dappertutto. Lei ha saputo vederla perfino nel campo di detenzione di Westerborck, prima di andare a morire ad Auschwitz, quindi la sua lezione è piuttosto importante. La bellezza è dappertutto e ha bisogno di noi che sappiamo vederla, trovargli un posto nel nostro cuore, ospitarla dentro di noi come una donna ospita un bambino nel suo grembo, e fargli molta pubblicità, senza lasciarci accecare dalla grande quantità di brutto e cattivo che vediamo intorno. E’ fin troppo facile trovare la bellezza dove è conclamata. Così non ci mettiamo al lavoro né politicamente né spiritualmente. Quando contempliamo qualcosa di bello, i Bronzi, la facciata policroma del Duomo di Firenze o una qualunque delle nostre molte meraviglie, dovremmo saper vedere non tanto il risultato consolidato quanto il fervore umano che l’ha prodotto e continua ad animarlo, che è la lotta del qualis contro il quantum, il massificato, il triste, il mortifero. Prima queste bellezze non c’erano e poi ci sono state. E’ proprio su quest’arco di tempo che corre tra il non esserci e l’esserci che dobbiamo porre la nostra attenzione.
Si tratta di cogliere il moto del desiderio: e il desiderio è la materia prima di cui le periferie abbondano.
Quanto alla mancanza di soldi: Edi Rama, artista albanese, primo ministro di quel Paese, prima è stato sindaco di Tirana. Riguardo a questo incarico, Edi Rama ha detto: “È il lavoro più eccitante del mondo, perché arrivare a inventare e a lottare per una buona causa di tutti i giorni. Essere il sindaco di Tirana è la più alta forma di conceptual art. È arte allo stato puro“. Trovatosi nel 2000 ad amministrare una città difficilissima, senza un piano edilizio, sconciata da un abusivismo arrogante spesso gestito dalla criminalità, Edi Rama ha demolito centinaia di edifici abusivi, piantato migliaia di alberi e ripristinato le strade: ma soprattutto ha riempito le case di colori. Le facciate di case, palazzi e uffici di colore grigio sovietico sono state dipinte di colori sgargianti. Gli spazi pubblici sono stati restituiti alla collettività e nello stesso tempo sono diventati una piattaforma di sperimentazione per artisti, un’installazione permanente; la città ha ripensato il modo di autorappresentarsi e rifondato la sua identità su nuovi principi. L’idea è stata la bellezza a costo quasi-zero per fare una nuova politica. Non si tratta di bilanci opulenti, che non ci sono più, né di mega-interventi magniloquenti e speculativi. Si tratta di saper lasciare segni di bellezza intorno ai quali si coagula vita. Catalizzatori vitali.
Lo dice bene Fulvio Irace, Storico dell’architettura e professore al Politecnico di Milano, si dovrebbe immaginare una sorta di “agopuntura urbana, che oppone alla visione dall’alto la percezione dei luoghi nella loro dinamica sociale e fisica: a innesti e tecniche di manipolazione minimali, capaci di stimolare il metabolismo urbano e produrre l’autorigenerazione della città e dei suoi spazi pubblici”.
Naturalmente a questo modo di vedere le cose molti potrebbero opporre la questione onnivora della sicurezza, il fatto che nelle periferie la priorità è questa, i ladri che ti entrano dalle finestre e i piccoli borghesi pistoleri, oltre alla difficoltà di convivenza con gli stranieri che si concentrano in quei quartieri (politica abitativa sbagliatissima). Va intanto detto che il nostro modello di integrazione non è certamente tra i peggiori. La microfisica delle relazioni quotidiane insieme alla nostra abitudine millenaria a essere zattera per tutte le etnie ci hanno risparmiato il peggio che vediamo nelle banlieu. Va comunque attentamente considerato il disagio di chi si ritrova a convivere con differenze che ti mettono in crisi, e di questi tempi possono anche farti paura. Il tema è molto vasto e per affrontarlo conviene attaccarsi al midollo dei leoni, in questo caso alle profetiche parole del mio amico Alexander Langer, che più di vent’anni fa ha compilato un Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica che dovremmo portarci tutti in tasca come vademecum.
Ma la cosa importante da dire è che tra il tema della sicurezza e quelli della vivibilità, della bellezza, della cura dei luoghi non c’è soluzione di continuità. Si tratta di un tutt’uno politico. Voi conoscerete la teoria delle finestre rotte: l’esistenza di una finestra rotta genera fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere altre finestre o un lampione e dando il via a una spirale di degrado e a problemi di socialità e di sicurezza.Se ne potrebbe controdedurre una teoria delle finestre in ordine: la cura, l’amore per il luogo in cui si vive, la migliore socialità che ne deriva, possono costituire un ottimo presidio contro l’insicurezza.
Se il brutto è contagioso, perché non dovrebbe esserlo il bello? La logica dei neuroni specchio, una delle più importanti scoperte delle neuroscienza, e oltretutto la scoperta di un italiano, Giacomo Rizzolatti, ha chiarito le basi dell’empatia. Non vale solo tra un individuo e l’altro: se io vedo un mio simile piangere si attivano i me gli stessi neuroni attivati nella persona che piange, permettendomi di condividere il suo sentimento. Vale anche per le relazioni con l’ambiente: se io vedo il bello si accende in me il bello, o più precisamente il bello-e-buono, il kalos kai agathos di cui parlavano i Greci, concetto modernissimo di una bellezza che è anche morale, a cui corrisponde quello di una bruttezza che è anche amorale e antisociale. Noi viviamo in un Paese in cui le bellezze naturali hanno prodotto per via emulativa la bellezza dei manufatti umani, e in modo virale: perché non dovremmo riconnetterci con la nostra anima profonda, in un moto di progresso che si volta a guardare indietro, alla nostra storia più autentica?
Nel controllo di vicinato, esperienza già praticata in vari comuni italiani, si opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui si conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Ma soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può quindi “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Si tratta quindi di far salire tra le priorità la cura, e di far scendere il tema della sicurezza come normalmente la intendiamo. Di dare valore alle comunità di cura che si oppongono alle comunità del rancore, come le chiama il sociologo Aldo Bonomi.
Ecco, nella nostra politica di tutta questa ricchezza di riflessione, di questa passione, di questa contemporaneità, di questo accumulo esplosivo di desiderio raramente c’è traccia: il disinteresse borghese è assoluto, nella migliore delle ipotesi l’approccio è paternalistico, da dame della carità che non dimenticano gli ultimi e pensano alle bibliotechine di quartiere.
Il nuovo sindaco, la nuova sindaca, non deve necessariamente essere uno o una brava a leggere i bilanci: per quello ci sono i ragionieri. Stiamo davvero esagerando l’importanza dei comparti contabili, ci stiamo rassegnando all’idea delle città-holding. Una città non è una holding. Una città è un luogo di relazioni umane, con i suoi aspetti contabili. Un buon sindaco non è prioritariamente un buon manager capace di governare il movimento degli affari. Un buon sindaco è prioritariamente qualcuno/a capace di intravedere il potenziale delle relazioni umane. Serve, come si dice spesso –ma poi non si fa mai- capacità di visione.
Come stiamo vedendo tutti gli schieramenti hanno fatto e fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. A Milano vive un sacco di gente, compresa tanta gente capace e competente. Eppure nomi faticano a saltare fuori. Ma in questa fatica di trovare “il nome” c’è qualcosa di buono e significativo: e cioè che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, qualche amico di famiglia, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.
La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).
Io credo che anche a Milano si dovrebbe fare questo: delineare i 3-4 grandi temi di intervento, anche e soprattutto in relazione al progetto della città metropolitana, coagulare intorno a ciascuno di questi temi un buon numero di cittadine e cittadini competenti, formare una grande squadra che si presenti alla città con la propria visione e le proprie soluzioni. E in questa grande squadra (che resterà tutta quanta operativa sul progetto) scegliere, come dicevo nella logica del primus inter pares, il candidato sindaco o sindaca e la possibile futura giunta. Questo sarebbe davvero un modo innovativo di procedere, ma al momento non ne vediamo traccia.
Vediamo solo nomi.
“Fonti romane” dicono che ieri, in una giornata piuttosto complessa per Roma, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia è andato a Palazzo Chigi per un colloquio con Matteo Renzi. C’è un simbolico che ha un notevole peso politico: se a Renzi interessa tanto la partita milanese sarebbe stato lui a dover prendere una Freccia o un aereo pubblico o privato e a farsi un giro a Palazzo Marino (o anche no).
Un gesto ben poco civico e pisapiano che offende la città: è vero che Renzi si gioca la pelle nella partita amministrativa milanese congiuntamente a quella romana. Ma questo è un problema di Renzi, non di Milano e del suo sindaco.
Non mi sentirei più di escludere che Pisapia faccia marcia indietro e decida di ricandidarsi. E comunque, che si tratti di lui, di Sala o di chissà chi, che il giocattolo delle primarie, che come dicevamo qualche giorno fa si è rotto, venga ficcato in un baule in soffitta tra le cose inutili (agli attuali candidati un ovvio premio di consolazione). Ma in tutto questo ci sarebbe comunque un Renzi di troppo, il premier che nessuno ha mai eletto, la creatura delle primarie che rinnega le proprie origini. Passato lui, il portone viene richiuso a dieci mandate.
L’incartamento è tale che viene istintivo guardare altrove, nello spazio aperto di una città libera che trovi un proprio sindaco o una propria sindaca ben lontano da questi tavoli o tavolini dove siedono giocatori-incasinatori, che tra i “valori” a cui i candidati dovrebbero aderire infilano in modo very casual un incomprensibile riconoscimento del “successo di Expo” (in realtà, il punto programmatico cardine del programma).
Milanesi! Respirare! Aria! Aria, fantasia, e orgoglio!
L’altro giorno ho fatto un piccolo esperimento. Ho postato sulla mia pagina Fb il filmato di una vigile romana scippata in diretta in piazza San Pietro da un giovane ambulante nero, commentando: “Non è accettabile”. La mia pagina è frequentata per lo più da liberal e progressisti, diciamo così. Ero certa che quel post non sarebbe diventato popolare. L’unico commento, infatti, diceva che andrebbero puniti i clienti, non gli ambulanti. Io credo invece che andrebbero puniti entrambi: venditori abusivi e clienti. Se quel giovane ambulante ha avuto l’impudenza di scippare la vigile, vuole dire che il livello di guardia è stato ampiamente superato. Non c’è bisogno di quel filmato, del resto, per saperlo.
Di fronte al rischio di deriva populistica fascistoide, à la Salvini, tanto per intenderci, i liberal e progressisti ritengono di smontare i suoi argomenti (i rom sono tutti ladri, le periferie sono abbandonate, i barconi vanno fermati, imbarcano anche jihadisti e via dicendo) con la pura e semplice negazione politically correct (i rom non sono mai ladri, chi vive in periferia non si deve lamentare, i flussi migratori sono incontenibili e non possono essere governati, dobbiamo accogliere tutti, e Isis è un’altra faccenda).
Il fatto è che invece spesso i rom rubano, le periferie hanno subito il più della crisi dei bilanci municipali, e chi ci ricorda che anche gli italiani sono stati migranti (mia nonna era americana di Pittsburgh, ricevo ancora Christmas Card dai miei parenti di lì) dovrebbe anche ricordare che quelle migrazioni erano regolate, che l’Oceano non si traversa come il Canale di Sicilia o l’Adriatico, e che un milione di disperati ammassati nei lager libici chiedono risposte rapide e ben diverse da “tanto è impossibile fermarli”. Che la tratta di carne umana è il più grande business dell’Occidente, e che almeno una parte dei proventi di questa tratta va a finanziare i nazi-islamisti.
Che esistono, insomma, seri problemi di sicurezza, sentiti prevalentemente dai più poveri fra noi, quelli che vivono nelle periferie degradate, che sono costretti a subire la non facile convivenza con i campi rom e anche con i centri di prima accoglienza, che sotto i colpi della crisi economica e dell’abbandono vedono svanire quelle poche certezze, cumulando risentimento e rabbia che potrebbero esprimersi in un’adesione al radicalismo populista di destra. E’ proprio di questi cittadini che i partiti liberal e progressisti dovrebbero occuparsi, e negare ideologicamente i loro problemi quotidiani è una pessima strategia.
Io che vivo in periferia verifico ogni giorno la celebre teoria delle finestre rotte (broken windows theory) di Wilson e Kelling: se vedi che una finestra rotta non viene riparata ti abitui al deterioramento e al degrado, cominci a pensare che rompere finestre sia una cosa normale, e alla fine le rompi pure tu. E non mi stanco di avvisare amici e colleghi progressisti e liberal: guardate che il consenso a Salvini e simili non viene rilevato interamente dai sondaggi. Un sacco di gente non te lo dirà mai, e poi sfogherà la sua rabbia nell’urna.
E continuo a chiedermi perché il rispetto di buone regole di convivenza, la sicurezza del vivere, le sanzioni, le punizioni e infine il recupero per chi trasgredisce -nelle nostre case, nelle nostre famiglie non ci regoliamo così?- continuino con grande leggerezza a essere classificati come argomenti di destra.
Il flyer che vedete qui sopra sta scatenando dibattiti in mezzo web. Anch’io, per la verità, per un attimo ho creduto a uno scherzo.
L’intento appare buono: offrire uno sconto ai giovani sul biglietto Expo. Ma si doveva trovare un altro modo per dirlo, la comunicazione è sbagliatissima. Graficamente, innanzitutto: i colori squillanti, quel 50€ sbarrato, la domandona in maiuscolo grassetto (“Hai meno di 30 anni?) danno l’idea di una pubblicità di discount, di un’offerta speciale, di un supersaldo in tempi di crisi. E qual è la merce in saldo? Il mix-and-match dei due loghi –Pd ed Expo- al piede del volantino contribuisce a confondere le idee. Insomma, non è chiaro se con quel due-al-prezzo-di-uno si intende che se fai il biglietto per Expo ti si regala una tessera Pd o, viceversa, se è la scelta di iscriverti al partito a darti agevolazioni per Expo.
Grafica a parte, il testo (“iscriviti al Pd di Milano e acquista da noi il tuo biglietto di Expo: spendi SOLO 25 € anziché 50 €!”) veicola un messaggio molto discutibile. In sintesi: che iscriversi al Pd conviene. Il fatto è che ogni giorno i giornali sono pieni di plastiche dimostrazioni della convenienza della politica: un sacco di gente che si è arricchita grazie ai partiti. Negli ultimi 20 anni la politica è diventata per troppi “un mestiere come un altro” (il riferimento non è casuale) potenzialmente molto redditizio, una ghiotta opportunità di carriera con la minima preparazione e il minimo impegno. Zero amor mundi, enorme amor sui. Gente che smania ed è disposta a tutto per un posticino di consigliere di zona.
C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui la politica era un’attività in perdita, esistenzialmente dispendiosa, decisamente sconveniente, e una tessera in tasca poteva costarti la vita: un ricordo affettuoso per un mio prozio, il biciclettaio Aliprandi, mite socialista che veniva preventivamente “menà a San Vitùr” ogni volta che il Duce passava da Milano. La tessera che conveniva avere in tasca, in quel periodo, era un’altra.
Ora, senza fare tragedie: è necessario cogliere ogni occasione per fare intravedere la possibilità che tesserarsi a un partito non convenga affatto, che comporti il rischio, anche minimo, connesso a ogni opzione ideale. Il crollo dei tesseramenti è una faccenda seria, legata a una mutazione genetica del partito, alla constatazione di non contare più nulla nella sua vita interna e nelle decisioni che ne conseguono, non servono “punti fragola” o sconti sulle batterie di pentole, come hanno ironizzato in molti.
C’è un’ultima osservazione che riguarda Expo: per come sono andate le cose, gli scandali, gli arresti in corso d’opera, i ritardi, i costi alle stelle, le prenotazioni negli alberghi che languono e molti altri segnali poco incoraggianti, il rischio che l’occasione sia stata sprecata è piuttosto alto. Poche ore fa Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, ha dichiarato di non poter escludere altri scandali. Alla fine si dovrà affrontare la spinosissima questione delle aree e della loro destinazione d’uso. Al momento per i cittadini Expo è stato solo un colossale esborso senza certezza di rientro. Nessuno intende gufare: un flop sarebbe una vera disgrazia per tutti. Ma anche mix-and-matchare il proprio logo a quello di Expo forse non è una grandiosa trovata di marketing.
Monica Maggioni, RaiNews24: basta filmati di Isis. Ma è la scelta giusta?
Monica Maggioni, direttora di RaiNews24, comunica la decisione di non trasmettere più i filmati di Isis.
L’intento è non essere più veicolo di propaganda, diffondendo prodotti di grande efficacia comunicativa realizzati con una duplice finalità: spaventare l’Occidente e arruolare foreign fighters con la suggestiva proposta di una terra promessa in cui saranno finalmente qualcuno. Prendete l’ultimo orrendo video, l’esecuzione dei 21 cristiani copti su una spiaggia libica: c’è molta discussione sul fatto che possa essere un fake. Quasi certamente non lo è, ma i suggestivi elementi di fiction sono molti ed evidenti: i boia in nero alti una spanna in più dei prigionieri a suggerire un superomismo invincibile (ci sarà stato un casting per selezionare i “corazzieri”); quella risacca di sangue nel nostro mare. Una notevole abilità “pittorica”: la scelta dei colori, le inquadrature, il montaggio. Una consapevolezza dei meccanismi base della comunicazione pubblicitaria, che fa pensare che oltre ai foreign fighters siano stati arruolati foreign copy.
Filmati realizzati perché vengano diffusi urbi et orbi: trasmettendoli si asseconda il progetto dei nazislamisti. E comunque quei filmati fanno audience, può esservi quindi un interesse commerciale di una testata a mandarli in onda.
Ma ci sono anche ragioni contrarie alla scelta di non trasmettere i video.
La prima ragione è che quando diventi giornalista sai che il fondamento del tuo lavoro e della tua etica è rendere nota ogni notizia che ti capiti di intercettare: tenerla per te è una specie di abuso ai danni dell’opinione pubblica (altra cosa, ovviamente, è decidere di oscurare i frame più cruenti). La seconda ragione è che, ai fini della non-propaganda, il blocco da parte della tua testata sarà solo una volonterosa goccia nel mare: via tv o online, i filmati troveranno mille altri mezzi di diffusione. Non sarebbe più utile, anziché censurare, una lettura critica di quei video, capace di smontarli nel loro impianto comunicativo?
Terza ragione è che la trasmissione di quei video horror ha avuto quanto meno il merito di elevare la consapevolezza: un anno fa pochi sapevano di Isis, oggi siamo tutti informati. Quarta: la non-trasmissione dei filmati può assecondare l’umanissima e autodifensiva volontà -molto diffusa- di non saperne niente. Occhio non vede, cuore non duole. Ci si comporta così, di solito, quando ci si trova di fronte a un problema al quale non si sa dare soluzione: è la politica dello struzzo. Ma essere consapevoli del fatto che il problema esiste, che è enorme, e che è di difficilissima soluzione è senz’altro una strategia migliore. Non aver voluto, non aver saputo vedere ci ha portati fin qui.
Leggo in questo senso le dichiarazioni di Romano Prodi intervistato dal Fatto Quotidiano sulla Libia:
“Una catastrofe per colpa nostra, dell’Occidente… Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto, davvero non lo era neppure nel 2011… Cosa bisogna fare non lo so. Oggi non lo so più, mi creda. So bene quanto si sarebbe dovuto fare dopo la caduta di Gheddafi. Bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo… La situazione è davvero di una gravità eccezionale, non possiamo fare finta che le nostre azioni non abbiano inciso nel produrre tutto questo… La Libia è dietro l’angolo“.
p.s: Personalmente sono per la trasmissione -tolte le immagini cruente- accompagnate da uno “smontaggio” critico del prodotto.
Rimossi a Milano i maximanifesti di Belen in intimo calante che facevano andare a sbattere gli automobilisti: Belen è bellissima, il gesto ammiccante, il richiamo sessuale irresistibile, smaccato e inequivoco.
Ma a mio parere fa più danni l’innocente spot di Lavazza, ultimo della serie “Paradiso”, Tullio Solenghi nei panni di San Pietro, Enrico Brignano in quelli dell’anima in cielo. Ecco il dialogo nell’ultima parte dello spot:
San Pietro-Solenghi: “In Paradiso tutto è di tutti“.
(dietro di lui una ragazza bionda e angelicata: Anima-Brignano si volta a guardarla con interesse. Vengono in mente le 72 vergini che toccheranno a ogni buon musulmano nel paradiso coranico)
San Pietro-Solenghi ammonisce: “Non tutto“.
Anima-Brignano: “Pensavo che…”
(la ragazza si schermisce silenziosa, abbassa pudicamente lo sguardo)
San Pietro-Solenghi: “Cosa?”.
Anima-Brignano: “Credevo che…”.
San Pietro-Solenghi: “Cioè?”.
Anima-Brignano: “… Niente”.
San Pietro-Solenghi: “Ah. Bravo”.
Tutto, ovvero ogni cosa del Paradiso, è proprietà di tutti. Anima-Brignano guarda la ragazza: anche lei, in quanto cosa del Paradiso, è proprietà di tutti (quindi anche mia)? San Pietro-Solenghi stoppa: “Non tutto“. Pur nella negazione, si ammette implicitamente che la ragazza-cosa fa parte del tutto di cui si può entrare in possesso, ma costituisce un’eccezione, perché lei non è di tutti (magari è solo di qualcuno). Non viene negato, cioè, che la ragazza sia una delle cose del Paradiso, si precisa solo che lei non è di tutti (giù le mani). Resta comunque di, qualcosa che può essere eventualmente posseduto. Ma una donna non è una cosa, e non può essere proprietà di nessuno, né in terra né in cielo.
Il messaggio è sottile e insidioso, e molte l’hanno colto subito, con disagio.
La vicenda dei manifesti di Belen, scoppiata in seguito alla segnalazione di un comitato di cittadini, dimostra che la soglia di attenzione e l’insofferenza alle pubblicità sessiste sono notevolmente cresciute.
Il target di Lavazza sono le famiglie italiane che comprano e bevono caffè. Certi stereotipi sono talmente radicati da essere inconsapevoli. Forse stavolta qualcosa è scappato di mano.
(lo spot è stato realizzato dall’agenzia Armando Testa con la direzione creativa di Mauro Mortaroli, copy Leonardo Manzini, diretto da Alessandro D’Alatri, casa di produzione Filmmaster Productions)
Ho fatto di tutto per resistere -per amicizia, per affetto- e forse ormai sono l’unica giornalista d’Europa a non aver scritto sul tema Tsipras-culo, a questo punto indivisibile, come l’atomo. Ma il titolo di El Mundo sulla vicenda (Una “velina” de Izquierda) mi produce uno sconforto definitivo.
Che ciò che proviene dal Paese delle Veline venga regolarmente interpretato in questa chiave (ho girato per dibattiti vari posti d’Europa, nell’ultimo ventennio, e non c’era modo di parlare d’altro: “Ma è vero che le ragazze italiane vogliono fare tutte le veline?”) , be’, non è così strano. Era un rischio da mettere nel conto. A noi sembra passato un secolo ma il resto del mondo, che ci si è tanto divertito, si attacca nostalgicamente a ogni indizio e vorrebbe che tutto continuasse come prima.
L’unico modo è tagliare di netto con questa roba, e senza pietà. L’unico modo è essere inequivoci e inequivoche. La politica è una cosa, e ha molto bisogno delle donne e del loro sguardo, e anche dei loro corpi, ma giocati per sé, non per il piacere maschile. La seduzione sessuale è un’altra. Entrambe padrone nei rispettivi territori. Le svedesi possono anche permettersi gli sconfinamenti, noi no. Le afghane o anche le Pussy Riot devono permetterseli: lì la resistenza si fa anche dai parrucchieri clandestini o esibendo una spalla. Noi no, non possiamo, come convalescenti a cui anche poco più di un brodino di pollo può fare male. E infatti si è visto: ci è andato di traverso.
Viva il sesso, il corpo, il piacere e pure la lussuria. W chi se la spassa allegramente, e che Dio lo benedica. E del resto il femminismo -altro che veterofemministe- nasce proprio di lì: dal corpo e dal piacere, magari ci si informi prima di blaterare.
Ma come abbiamo detto -come la più grande manifestazione del dopoguerra, il 13 febbraio, ha gridato, come quel moto quasi risorgimentale ha testimoniato-: basta scambi tra i due territori, basta con i favori sessuali in cambio di un posto al sole, e mi pare di dire cose talmente ovvie che mi annoio da sola. Non siamo ancora guariti, tanto che un povero bikini fa saltare per aria la campagna elettorale. Tanto che basta non essere del tutto cessa perché qualcuno sospetti o, peggio, si permetta quello che abbiamo visto che tanti si sono permessi nei confronti di deputate, ministre e via dicendo (il repertorio è tutto illustrato in questo blog, buon viaggio). Qualunque cosa faccia pensare a quello, meglio di no.
Per questo, appena intravisto l’ormai celebre bikini per Tsipras mi sono permessa di sconsigliare Paola Bacchiddu, che è una giovane giornalista intelligente e in questo momento coordina la comunicazione per quella lista: tipo Cassandra, avevo immaginato quello che sarebbe capitato. Be’, ero stata ottimista (mi sono anche beccata una rispostaccia fuori tema).
Quasi nessuno, in questo Paese afflitto da analfabetismo di ritorno, sa chi sia il signor Tsipras e che cosa voglia da noi. Ma il bikini per Tsipras è stato elogiato perfino da Libero e da Bruno Vespa, che forse troppo tsiprasiani non sono, e la piccola idea è diventata immortale.
Dico piccola idea e non “geniale” idea, come definita da tanti, perché troppo idea forse non è: senza menzionare quella cosa che tira più di un carro di buoi, mi limito alle campagne di Cetto Laqualunque. Il corpo femminile è bello, accende il desiderio, fa vendere (per la pubblicità, per la tv, per i giornali la dignità femminile costituisce una catastrofe economica, tant’è che il famoso bikini, come in un loop angosciante, è stato ripreso su tutte le homepage, corredato di gallery di tutti gli altri bikini della giornalista) e, come abbiamo visto per un paio di decenni, fa anche votare.
Qui l’intento era spiritoso, certo. Ma oggi non ci sono le condizioni per certe uscite di spirito. Non ci sono ancora. Forse un giorno ci saranno. Ma al momento mi pare proprio di no. La cosa ha certamente rotto il silenzio mediatico -scandaloso- su Tsipras: personalmente mi auguro che la lista passi la soglia di sbarramento, e in particolare penso a un paio di candidate che mi piacerebbe vedere in Europa. Ma ha rotto il silenzio per dire che cosa? Giusto per segnalare il silenzio mediatico. Che continua su tutto il resto, salvo che per il bikini.
Questo servirà a portare i voti che servono? Qualche voto di donne, lo so per certo, elettorato molto importante per quella lista, è andato perduto. Speriamo compensato da qualche altro voto: ma su questo non ho prove certe. E comunque -per carità, non si butta via niente- ma che voti sarebbero? A occhio l’operazione non mi sembra riuscitissima.
Infine mi è molto spiaciuto che per difendere l’iniziativa si siano tirate in ballo le “veterofemministe che hanno fatto carriera passando dal letto dei potenti”, accusate di moralismo suoristico. Intanto perché il soggetto (la veterofemminista) andrebbe definito con maggiore precisione: chi sono? le femministe in menopausa? o le più vecchie? quelle che hanno reso possibile anche la nostra libertà? le madri di tutte noi? Quanto poi alla carriera, dovrebbe essere arcinoto che l’essere femminista non l’agevola affatto -semmai funziona bene il non esserlo- e infatti di anziane femministe quasi indigenti ne conosco alcune. E di quali diavolo di “potenti” si parla? E di quale diavolo di moralismo si va cianciando, donne che per la loro gioia sessuale ne hanno fatte più di Bertoldo -avete presente la sex revolution– quando oggi mi pare di vedere una marea di ragazze andare in bianco?
Si è perfino sciaguratamente tirato in ballo il docufilm “Il corpo delle donne” come pietra miliare dell’irriducibile moralismo -sul quale docufilm, per carità, è legittimo esprimere qualsivoglia giudizio-. Si sarebbe tuttavia dovuto tenere conto del fatto che l’autrice di quel docufilm, Lorella Zanardo, è candidata proprio nella lista Tsipras, e forse non è stata un’ideona non pensarci prima.
E condannarla, lei e le altre candidate femministe, perché ce ne sono altre, a sprecare anche quei due minuti di visibilità che saranno loro concessi per parlare di un bikini, e non dei loro temi. Che forse, per le vite di tutte e tutti, pesano un po’ di più.
La pubblicità, pari pari, è esattamente la stessa realizzata da Tom Ford. A parte un bollino sopra il seno della ragazza: “Perché siamo nelle Marche, zona cattolica, c’è il Vaticano, e poi anch’io sono cristiano praticante”.
Luca Paolorossi, imprenditore della moda -la sua azienda in provincia di Ancona confeziona abiti da uomo su misura, showroom da Dubai a Mosca a Montecarlo e fatturati in crescita- è finito nell’occhio del ciclone per l’immagine di quella sposina nuda che stira i pantaloni del tight al suo futuro marito. Luca Paolorossi dice di averla utilizzata consapevolmente: “Sapevo che sarebbe stata una bomba. E’ stata una strategia pubblicitaria, e ha funzionato. Non mi pento affatto di averlo fatto: amo il corpo della donna, e la rispetto. Vivo tra le donne, assumo quasi solo donne. Mi pento solo degli insulti…”.
“Troie… cornute”, “Offro escort ai mariti delle mamme di Ancona” e altre piacevolezze del genere, seguite da commenti di odio, tipo “massacrale”. Oltre all’auspicio che possa tornare “il Duce” contro quel gruppo “mamme di Ancona” che aveva protestato per la pubblicità sessista. Protesta immediatamente raccolta e amplificata da Telefono Rosa e dalla Rete delle Consigliere di Parità delle Marche, che si sono appellate all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria.
Paolorossi ribadisce accoratamente il suo rammarico per gli insulti (“ho un carattere irruento e irascibile, non ho saputo reagire con intelligenza, chiedo scusa e me ne pento“) e dice che a causa di questo la sua compagna non gli parla più. Ma rivendica la sua strategia di marketing, e promette azioni legali contro le donne (che gli hanno augurato un pronto fallimento) e contro Facebook che gli ha bloccato la pagina.
A suo modo, omaggia le antagoniste: “Mi piace vedere gli artigli delle donne: se il Paese fosse in mano a loro, saremmo come la Germania”, ma non arretra di un millimetro: “Non userei mai un’immagine che allude alla pedofilia. Ma quella pubblicità non è affatto offensiva“.
Stando al codice di Autodisciplina pubblicitaria, invece, che all’ art.10 stabilisce che «La pubblicità non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini. La pubblicità deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni», quella pubblicità appare indubitabilmente sessista.
Lei che stira -imprigionata in uno stereotipo tra i più classici-, oltretutto nuda, truccata, ingioiellata e con i tacchi, quindi sessualmente a disposizione perfino con il ferro in mano: se a lui venisse un’improvvisa voglia basterebbe staccare un attimo la spina. Come se non bastasse, la poveretta guarda adorante e e implorante il suo uomo (“… ma come? nemmeno ti accorgi di me?”), mentre lui virilmente la ignora, preferendole il giornale. Il solito imbecille che non deve chiedere mai.
Una tristezza che più atroce non si può: esistono ancora uomini che vivrebbero volentieri un film del genere?
La gnocca è pur sempre la gnocca. E continua a far vendere. La bellezza del corpo femminile: desideratissima “merce” simbolica. E per la pubblicità, dopo tanti anni di indisturbato Bengodi, rassegnarsi a rinunciare a tette e culi è un bel problema, specie in un momento così forzatamente anticonsumistico. E se perfino le homepage dei giornali online qualche quarto di manza cercano sempre di piazzarlo, così come, per moltissimi anni, le cover dei newsmagazine (“chi è la gnocca della settimana?”: io le riunioni di redazione me le ricordo) perché mai un imprenditore di provincia, emulo del grande Tom Ford, dovrebbe fare eccezione?
Il tutto è orribilmente deprimente.
Prima madri e padri. Poi lavoratrici e lavoratori
Nell’attesa che si sciolga il nodo della legge elettorale, speriamo di liberarci dall’impiccio al più presto, vediamo quello che c’è subito dietro l’angolo. E scalpita, perché nessuno di noi può più permettersi di aspettare: la questione lavoro-welfare.
Qui c’è da fare e da dire moltissimo, e ognuno approccerà la cosa dal proprio punto di vista. Io non riesco che a partire dalla vita: dalle esistenze reali, dal cambiamento dell’idea del lavoro e del rapporto lavoro-vita, dalle soluzioni, dagli aggiustamenti e dalle invenzioni prodotte dalle persone reali, intuizioni che dovrebbero essere la materia prima politica con cui quell’altra politica può lavorare (quell’altra politica non inventa mai davvero nulla: quando è buona è perché sa cogliere ciò che sta capitando, rappresentarlo e facilitarlo).
Mi sembra interessante quello che è stato pensato da un gruppo di madri e padri che a Milano si sono incontrati per ragionare insieme e mettere in comune le proprie esperienze. E che tanto per cominciare si qualificano come “madri e padri” e non come lavoratrici-ori anche quando parlano di lavoro e welfare, privilegiando sempre (primum vivere) questo aspetto della loro identità, ciò che dà davvero un senso alla propria esistenza (vale anche per un numero sempre maggiore di uomini). Questa è la prima intuizione: rimettere le cose nel loro giusto ordine.
La seconda è l’assunzione che non solo il lavoro ma anche la percezione del lavoro sono profondamente cambiati: e infatti parlano di “nuovo lavoro“, tenendo in mente le/i venti-trentenni (le madri e i padri) che oggi hanno bisogno di un welfare che tenga presente, oltre alla minoranza dei dipendenti, la grande maggioranza di “autonomi, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti etc. etc.“. Smantellando cioè un immaginario sul lavoratore che non ha più riscontri nella realtà e cambiando prima di tutto l’immaginario del cambiamento.
La proposta dell‘indennità di maternità universale prende le mosse di qui, da questi cambiamenti nel lavoro e dalla percezione del lavoro, e dall’idea che i figli e la cura non siano più una faccenda esclusiva delle donne: si parla infatti di un welfare per l'”universal caregiver“, per chi presta lavoro di cura, preziosissimo e insostituibile, donna o uomo che sia.
Una terza intuizione (la proposta la trovate integralmente qui) è che il welfare non può essere inteso come un modello uguale per tutti, ma deve offrire “libertà di scelta“ in modo che ciascuna/o possa praticare le proprie “preferenze e strategie personali e familiari”, che cambiano da individua-o a individua-o e nelle varie fasi della vita.
Cerchiamo di non dimenticare mai la vita reale, anche quando parliamo di contratti e di servizi.