Dopo aver dato delle egoiste alle italiane perché non donano i propri ovociti, Roberto Saviano minimizza per correctness la questione migranti-libertà femminile. Alimentando il consenso alle destre xenofobe
Quando Saviano parla di donne. E sbaglia
Sono uomini che ti obbligano a coprirti, e sempre uomini che ti obbligano a scoprirti. E in mezzo tante donne zelanti esecutrici e custodi di quelle leggi di uomini. Dov’è lo spazio a lato per una libera significazione di noi stesse?
Tanti anni fa, subito dopo l’11 settembre, mi sono infilata un burqa afghano di rayon blu e sono andata in giro per le strade di Milano. Per vedere di nascosto l’effetto che fa: a me, e tutti gli altri. L’effetto fu pessimo: un’esperienza terribile, non poter respirare, non riuscire a vedere, non sentirmi più io, essere presa a male parole nel mio quartiere da gente che ritenevo buona e caritatevole. Un incubo. L’unico ricordo gentile, alcune vecchie signore che mi invitarono a levarmi quel coso di dosso: “Qui sei in Italia, non può obbligarti nessuno”.
Tutto sommato ci siamo abituati: non ai burqa afghani, ma qualche niqab nelle nostre città si vede: quel velo integrale total black, una fessura che scopre gli occhi, appena più pietosa dell’accecante reticella del burqa. Io ne ho visti per strada, al supermercato. Doppia umanissima inquietudine: per il destino della donna che sta lì sotto, per la paura che oltre alla donna ci sia qualche etto di esplosivo.
La delibera del governatore della Lombardia Roberto Maroni, che vieta l’accesso a caschi e volti coperti negli ospedali e negli uffici regionali, non parla esplicitamente di velo integrale, ma dice in premessa che «le tradizioni o i costumi religiosi (…) non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione (…) rispetto alle esigenze di sicurezza». Esiste già una legge nazionale a disporre in questo senso: la delibera Maroni ne chiede in sostanza un’applicazione più severa, cogliendo l’occasione post-parigina per fare un po’ di propaganda. Che a mio parere va a segno: la disposizione di sicuro non spiacerà alla maggioranza dei cittadini, anche se il numero dei niqab in giro è molto esiguo.
In Francia da 5 anni è in vigore la legge “interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public”. Il divieto vale anche strada, sui mezzi pubblici, nei centri commerciali, con una multa di 30mila euro e il carcere per chi obbliga la donna a velarsi integralmente. In 5 anni le donne fermate sono state poco più di un migliaio (i musulmani in Francia sono più di 5 milioni) e vivono quasi tutte a Parigi e dintorni. La legge non è servita a impedire l’orribile strage del 13 novembre, e anzi ha risvegliato una sorta di orgoglio del niqab: ci sono donne che hanno deciso di indossarlo in segno di protesta contro il divieto, radicalizzandosi.
La delibera Maroni interferisce anche con il diritto alla salute, per quanto limitato a un numero davvero esiguo di casi: donne che, non potendo presentarsi velate in ospedale, potrebbero decidere di rinunciare alle cure tout court. Non si rischia di peggiorarne la condizione, già evidentemente penosa? Un anno fa a Padova un gruppo di profughi uomini rifiutò di essere visitato da personale sanitario femminile, e l’Asl decise di richiamare medici maschi in pensione. La resistenza a rinunciare ai propri costumi può essere davvero molto forte.
E’ davvero opportuna, questa delibera? Non c’è il rischio che i danni siano maggiori dei benefici?
I giornali e i social network sono pieni del “coraggio di Angela”, di omaggi e di chapeau.
Di Angela Merkel ammiro soprattutto la velocità con cui ha deciso, quasi all’improvviso, di cambiare rotta sul tema dei migranti. Anche il rosso-verde Joshka Fischer dice oggi al Corriere di essere rimasto sorpreso. Sostiene che probabilmente la svolta è arrivata dopo l’attacco dell’estrema destra a una struttura per rifugiati a Eledenau, Sassonia. E aggiunge: “A differenza dell’Italia che vive ogni giorno la realtà drammatica dei profughi, dei morti nel Mediterraneo, la Germania sembrava lontana dall’emergenza. E improvvisamente sono lì, hanno percorso migliaia di chilometri, anche a piedi, per venire da noi. Impressionante”.
Non sono tra i dietrologi che sostengono che Merkel si stia semplicemente procurando mano d’opera a basso costo, o che abbia detto sì ai siriani, meno poveri e più scolarizzati, per poter dire no ai poverissimi del Corno d’Africa: sento dire questo. Penso che di fronte a certe immagini (fra cui quella del piccolo Aylan, ma anche quelle del Tir stipato di corpi morti nei pressi di Vienna, che ricordava l’orribile passato tedesco degli ammassi di cadaveri ad Auschwitz) la signora Merkel abbia compreso che la questione ormai l’aveva in casa, che non era più un problema confinato nel bel mare azzurro dove ogni anno viene a passare un paio di settimane in vacanza, e che la società tedesca chiedeva una presa di posizione rapida.
Perciò bene, la scelta di Angela, che sembra aver finalmente destato una coscienza europea. Ma a Joshka Fischer, e a tutti quelli che si levano il cappello davanti ad Angela, e dicono “hai visto la Germania? E invece l’Italia…”, ricordo che sono anni che noi sappiamo che quella gente percorre a piedi migliaia di chilometri, patendo l’inferno della detenzione in Libia e spesso affogando in mare. Sono anni che i marinai delle nostre navi militari (io ci sono stata) raccattano esseri viventi e recuperano corpi. E dico che io spero che nei libri di storia, al netto delle ributtanti imprese di Buzzi, Carminati & c, il nostro Paese sarà raccontato come il più ricco in Europa della risorsa dell’accoglienza.
Vedo i tedeschi che nel settembre 2015 cantano An Die Freude accogliendo i siriani, mi commuovo, e penso agli anni e anni d’amore dei Lampedusani che hanno perfino ceduto le loro tombe per quei poveri morti.
E voglio nominare il coraggio di Giusi (Nicolini), sindaca dell’isola, piccola e sola, che avrebbe dovuto essere candidata come capolista alle europee, ma poi il Pd, chissà perché, ha deciso diversamente. Peccato, perché forse avrebbe saputo risvegliare prima l’anima addormentata del Continente.
SAREBBE BELLO CHE ALLE MARCE DELLE DONNE E DEGLI UOMINI SCALZI, l’11 SETTEMBRE, PORTASSIMO LA SUA FOTO, PER GRATITUDINE.
L’altra notte scrivo all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino, in prima linea sulla questione migranti: “Magari quel cubo di plexiglas in stazione dove sono temporaneamente ospitati potrebbe essere oscurato con un po’ di carta da pacchi“. Così, per troncare sul nascere le polemiche sui “migranti in vetrina”, e per garantire a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini un minimo di privacy. In effetti la mattina dopo il cubo è stato oscurato.
Mi vengono dei dubbi: i migranti sugli scogli di Ventimiglia non vogliono essere nascosti. Vogliono stare lì, avvolti nelle metalline, perché il mondo li possa vedere. Oggi papa Francesco chiede “perdono per chi chiude la porta ai rifugiati”. E’ giusto che restino dove intendiamo tenerli, sulla porta, a bussare, fintanto che intenderemo tenerceli.
Ogni volta che passavo dalla stazione e vedevo quelle famiglie sistemate nel mezzanino, donne uomini e bambini, e i volontari che scodellavano pasta e distribuivano biscotti, e i milanesi che arrivavano a frotte con i loro borsoni di viveri, indumenti e giocattoli, era come passare davanti alla grotta di Nazareth, con il Figlio dell’Uomo, i Magi e i pastori. Un punto di santità, un tempio che mi commuoveva nel profondo.
Giusto che profughi e migranti vengano accolti degnamente, quanto meno una brandina al coperto e un bagno dove lavarsi. E giusto che si trovi un modo umano per regolare i flussi, per ridurre al minimo i problemi e i disagi per tutti. Ma la logica non può essere quella del nascondere, del non vedere. Vedere è la prima cosa, per trovare soluzioni efficaci e degne.
Parlo da figlia di figli di migranti (e dalla mia pelle si vede!).
Un anno fa ho passato una settimana su nave San Giorgio, missione Mare Nostrum. Ho partecipato al recupero di un gran numero di migranti dal Corno d’Africa, i più poveri di tutti. Erano cristiani, e la mattina di Pasqua hanno pregato sul ponte della nave. C’erano anche musulmani che sorbivano tè caldo avvolti nelle metalline fornite dalla Marina Militare, ma miseria e speranza non facevano differenze religiose.
In un solo anno sono cambiate molte cose. Che 12 cristiani siano stati buttati a mare da loro compagni di sventura musulmani è stata una frustata nel mio cuore. Erano musulmani in cerca di approdo e accoglienza sulle rive di un Paese cristiano, in cui la Chiesa ha la sua sede. Questo non ha impedito loro di esercitare l’intolleranza al livello più barbaro e atroce. Se i fatti saranno accertati, quei 12 cristiani annegati segnano un punto di non ritorno.
Nell’anno intercorso tra la mia esperienza e l’uccisione di quei fratelli si è verificata l’escalation dello stato islamico. L’uccisione di 12 disperati di fede cristiana per me non è meno grave dell’eccidio a Charlie Hebdo. Un atto di jihad in mezzo al nostro mare. Non voler vedere quello che è capitato significa perseverare in un’ignavia di comodo.
Quello che è capitato è che l’odio si è radicato anche nel cuore dei più deboli, di chi è costretto a rischiare la pelle traversando molte miglia di mare per conquistare una vita degna. Quei musulmani assassini non erano jihadisti o foreign fighters, ma poveracci senza speranza. Ma per loro quei cristiani non erano più fratelli, ma infedeli da convertire o da ammazzare, tertium non datur. E con la certezza di non correre rischi, perché i “crociati” smidollati sono incapaci di reazione. E anzi, stanno lì sulla riva nord, pronti ad accogliere, nutrire e curare (e anche a fare business sulla carne migrante, e questo è un altro fatto).
Fa male la Presidente della Camera Laura Boldrini a dire che in questo eccidio la questione religiosa è stata irrilevante: il suo intento è certamente buono, ma la strategia è sbagliata.
Numeri alla mano, la comunità cristiana è da tempo la più perseguitata nel mondo: notizia che mi ha colto di sorpresa.
Direi che c’è molta materia su cui riflettere.
Questo scrivo oggi nella mia rubrica su Io donna
Dopo l’orrenda strage degli studenti in Kenya qualcuno sui social network si è irritato per il fatto che si parlasse di “vittime cristiane”. L’argomento è che i morti sono morti, a prescindere dalla religione di appartenenza, e che sono i musulmani le prime vittime del naziterrorismo islamista.
Vero. Ma nessuno avrebbe obiettato se si fosse parlato di vittime ebree, nel caso in cui il commando avesse attaccato una sinagoga o una scuola ebraica. Specificare invece che si è trattato di cristiani martirizzati in quanto tali è ritenuta da molti un’informazione superflua e in qualche modo scorretta. E suona quasi una provocazione che qualcuno sottolinei, come il sociologo Massimo Introvigne, che quella cristiana è la comunità religiosa oggetto del maggior numero di violenze e discriminazioni nel mondo.
Il motto crociano, “non possiamo non dirci cristiani”, si è pervertito in un “non è il caso di dirci cristiani”, a meno di non essere dei torvi conservatori. Perché dirsi cristiani comporterebbe in automatico (di default, come si dice oggi) l’abdicazione a ogni laicità, la rinuncia a perseguire il progresso, l’assunzione bellicosa delle insegne crociate. Il plauso unanime va a Francesco quando sferza l’avidità umana, e non quando, in una logica giudicata “di parte”, stigmatizza come complice il nostro silenzio di fronte al martirio dei cristiani.
JesuisCharlie, Jesuisjuif, ma Jesuischrétien resta inaudito.
Non c’è niente di male a dirsi cristiani: mi accontenterei di questa rivisitazione di Croce. Non c’è niente di male nel dichiarare la propria fede in un Dio tanto amoroso da farsi uomo e morire per noi. Resta questo, lo scandalo più grande.