Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è stato ucciso dalla polizia a Sesto San Giovanni. Dal mio cuore sgorga un inconsulto sentimento di compassione per quel giovane diavolo assassino. Non so se è bene che io l’abbandoni in fretta o se devo seguire il suo filo
Tocca ai musulmani allargare a dismisura e guidare la schiera del “noi”, confinando il terrorismo jihadista nel recinto angusto del “loro”
Mi chiedo che cos’avrei fatto al posto dell’insegnante delle sei quindicenni musulmane che in un istituto tecnico di Varese si sono rifiutate di aderire al minuto di silenzio per le vittime parigine. Lei non le ha ostacolate, ha consentito loro di uscire dall’aula, e al loro rientro ha ritenuto di discuterne con la classe.
“Volevano capire perché commemorare solo Parigi e non l’aereo russo o Beirut” ha spiegato la prof. “Il gesto è stato una richiesta di aiuto a capire quale sia la discriminante nella valutazione dei morti”.
Probabilmente mi sarei comportata come lei: avrei consentito alle ragazze di uscire di classe e di manifestare liberamente il loro punto di vista, e poi avrei aperto la discussione. Per concluderla, possibilmente, invitando tutta la classe a ripetere il minuto di silenzio dedicandolo anche alle vittime dell’aereo russo e di Beirut, e a tutte le vittime del terrorismo jihadista e di ogni terrorismo.
Non ho informazioni precise, ma non credo che sia andata in questo modo.
Se non intendiamo aderire immediatamente e senza farci ulteriori domande alla spiegazione più autoconsolatoria, si dovrebbe riconoscere che restano molti dubbi aperti sulla motivazione del gesto, così come è stata espressa dall’insegnante.
Perché le ragazze non hanno semplicemente chiesto di estendere la commemorazione anche alle altre vittime? Come si è formato in loro il convincimento che fosse necessario un atto così forte -rifiutarsi di onorare la memoria delle vittime della barbarie jihadista-? Quando l’hanno concordato? E’ stata una decisione autonoma o c’entrano le famiglie? In quali discorsi si è formata la loro decisione? Esiste in quelle ragazze anche solo il germe di quell’identificazione solidale con gli shahid che si è manifestata nei fischi e nelle grida dei tifosi turchi allo stadio di Istanbul? E se sì, perché sei ragazze di quindici anni dovrebbero eventualmente voler considerare le “ragioni” dei terroristi?
Mi pare che il lavoro importantissimo della prof –e di moltissimi altri prof di questo Paese- cominci proprio adesso.
Se sui social network tu provi a definire i terroristi di Isis “nazisti criminali” (è quello che sono), a meno che tu non ti stia rivolgendo a una platea destrorsa raccoglierai ben pochi “mi piace”. L’obiezione che serpeggia la sintetizzerei così: “Si deve essere lucidi e carcare di usare la testa“. Come se non equivalesse a usare la testa -profferendo un preciso giudizio etico, politico e storico- il fatto definire nazisti degli sgozzatori spietati, violentatori e aguzzini di donne e bambine, massacratori di innocenti cristiani, ebrei, yazidi e anche musulmani, assassini di gente che dopo una settimana di lavoro si stava mangiucchiando un piatto cambogiano low cost o si stava godendo un concerto.
La cosa me la spiego così: quando tu dai a qualcuno del nazista stai pronunciando un giudizio inappellabile e definitivo. Un nazista è la catastrofe dell’umano, è quanto di peggio la storia abbia conosciuto, è l’oscurità totale, la caduta definitiva del senso. E’ la disastrosa banalità del male. Se invece tu esiti a dare del nazista a chi, nei fatti, si sta comportando come un nazista, vuol dire che la tua condanna mantiene una riserva, c’è sempre qualche “se” e qualche “ma”, quando non un sottile, ambiguo e inconfessato masochistico sentimento di comprensione per gli spietati macellai.
Che vanno capiti perché sono per lo più dei poveracci di seconda generazione venuti su nei ghetti e nelle banlieu (anche se poi Jihadi John era figlio della media borghesia londinese), vanno capiti perché l’humus in cui prosperano sono gli errori capitali dell’Occidente colonialista e sfruttatore, vanno capiti perché ci sembrano l’evoluzione tecnologica e social delle Intifade per cui abbiamo fatto il tifo, perché sono nemici del “cattivo” Israele e forse anche del capitalismo neoliberista.
Sento correre questi sentimenti in parte della sinistra e ne sono orripilata. Sentimenti che fanno il paio con un eccesso di silenzio, salvo magnifiche eccezioni, di buona parte comunità islamiche: perfino il moderato Romano Prodi ha ammesso che di fronte alla strage parigina qualche voce in più se la sarebbe aspettata.
Può benissimo essere che i reattivi droni americani, i cacciabombardieri francesi e la navi russe del giorno dopo non siano affatto “la” soluzione, può essere che servano per esempio vere politiche comunitarie europee, compreso un miglior coordinamento delle intelligence, e che si debbano riservare le nostre migliori energie alle politiche di integrazione e di educazione, che si debba stroncare il commercio di armi, che si debba smettere di comprare petrolio prodotto nei territori controllati dal Califfato. Tutto questo certamente è importante e dobbiamo fare in modo che si realizzi.
Ma gli uomini di Isis sono e restano dei nazisti assassini. Su questo non può esserci nessuna incertezza.
P.S: un esempio, stamattina, ci ciò che intendo. A Radio Popolare il conduttore parla di #Isis come di fascisti.Un ascoltatore: no, loro sono i partigiani.
Aggiornamento ore 17.00: lo psicoanalista Boris Cyrulnik parla della similitudine Isis-nazismo.
Perché poi un terrorista kamikaze è questo. (guardate il filmato, l’immagine è un fotogramma)
Un ragazzino di 20 anni mandato a morire perché Allah è grande, perché lo hanno convinto che il jihadista non muore davvero (“Non considerate morti coloro che sono stati uccisi sul sentiero di Allah, sono invece vivi e godono della provvidenza del loro Signore“, Corano, terza Sura, versetto 169), ma che un momento prima di partire per la sua missione scoppia in un pianto disperato, perché inaspettatamente la vita gli urla dentro.
Come si può fermare uno shahid, un martire (letteralmente: testimone della fede)? Che cosa può essere più forte di ciò che appare come una fede titanica, al punto da rendere desiderabile il martirio, e di cui noi non abbiamo più nemmeno gli indizi?
In mancanza di ragazzi come questo, l’azione orrenda di jihad che ha colpito il cuore dell’Europa non sarebbe stata nemmeno immaginabile.
La bomba umana è la più intelligente delle armi intelligenti, costa molto poco, è efficace ed è in grado di cambiare traiettoria fino all’ultimo secondo, non si riesce a intercettare, sfugge all’intelligence.
La bomba umana è fatta di umiliazione, di rabbia, di gioventù, di intemperanze ormonali, del non credere più che convenga cercare qualche America. Del fatto di essere trattato come un eroe per tutto il tempo della preparazione e fino al momento dell’azione. Dell’onore, forse anche dei soldi che toccheranno alla famiglia in conseguenza del sacrificio. Della prevalenza della comunità (umma, la stessa radice di umm, madre) sul singolo: altra cosa difficile da comprendere per la nostra cultura individualistica e “dirittistica”.
Soprattutto è fatta dell’enorme potere di condizionamento da parte delle organizzazioni jihadiste: secondo Scott Atran, ricercatore francese, il condizionamento assoluto, simile a quello che avviene in una setta. è il fattore decisivo.
Come si ferma uno shahid? Che cosa dobbiamo essere capaci di dirgli, per convincerlo a vivere e a non uccidere? E come dirglielo? Qual è il punto che stiamo mancando? Quale la strategia che non stiamo attuando? Ed è pensabile poter procedere per via di umanità?
Quel pianto ci dà qualche indizio? Non somiglia, quel maledetto piagnucoloso bambino assassino, a uno dei nostri figli?
Dov’era sua madre, in quel momento? Che cosa è stato fatto a lei, per ridurla al silenzio?
Perché noi donne occidentali non facciamo niente per fermare lo sterminio delle Yazide?
Da molti mesi veniamo raggiunte da tremende notizie sulla sorte di donne e bambine yazide, stuprate e vendute come schiave sessuali ai guerrieri islamisti, per i quali violare le infedeli è un atto gradito a Dio.
Circola anche un tariffario nei mercati siriani e iracheni: per le donne tra i 40 e i 50 anni si chiedono 50 mila dinari. 75 mila dinari per quelle tra i 30 e i 40 anni. Per una donna tra i 20 e i 30 anni, il prezzo è di 100 mila dinari, 150 mila dinari se è una ragazza tra i 10 e i 20 anni e 200 mila se è una bambina dai 9 anni in giù.
Quelle donne e bambine vivono a tre ore d’aereo da qui, e personalmente non ci dormo la notte.
Eppure l’altro giorno ho preferito non sottoscrivere una petizione di Telefono Rosa dove si dice:
“Chiediamo all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini e ai ministri degli esteri di tutti i paesi membri di rivolgere al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon, al Consiglio per i diritti umani dell’ONU e al Consiglio di sicurezza dell’ONU un pubblico appello affinché intervengano a sostegno del popolo yazida contro quello che è un genocidio, un vero e proprio stupro di guerra, un crimine contro l’umanità. Un “Ci dispiace” non ci basta”.
So che alcune amiche di Telefono Rosa non sono state contente della mia non-firma, per quel poco che conta, ma: 1. non amo il business delle petizioni online.2. all’obiezione: meglio una petizione che niente, rispondo no, meglio niente. Bisogna che ci guardiamo bene dentro, a questo niente, che lo interroghiamo senza metterci l’anima in pace, senza allontanarlo da noi con una firma.
Quindi mi faccio la domanda, e la faccio a tutte: perché tanta indifferenza per la sorte di quelle donne? Non è così, qualcuna potrebbe obiettare: nel web ci sono petizioni, prese di posizione, etc. Ma è innegabile che si tratti di voci isolate, flebili e inefficaci.
Provo a ipotizzare qualche risposta:
• perché non crediamo che stia davvero capitando, è una bufala
• perché, se sta capitando, è troppo lontano da noi, e non riusciamo ad empatizzare con donne che ci sembrano tanto diverse da noi
• perché a noi una cosa del genere non potrebbe mai succedere
• perché preferiamo non pensarci, è troppo orribile
• perché occuparcene sarebbe dis-empowering, significherebbe in qualche modo riprecipitare in quella miseria e indebolirci tutte
• perché qualunque cosa noi facciamo, non servirebbe a niente
• perché siamo già sufficientemente oppresse dai nostri problemi
• perché non riteniamo sia prioritariamente compito delle donne occuparsi del destino di quelle donne
• perché non pensiamo di poterci sostituire ad altre nel loro percorso di liberazione: tocca a loro trovare la strada
• perché Isis è frutto degli errori dell’Occidente, meno interveniamo e meglio è
• perché proprio non ci importa nulla, se la vedessero loro
Lascio aperta a voi la serie delle risposte.
(qui alcune informazioni essenziali sulla religione Yazida)
Un anno fa ho passato una settimana su nave San Giorgio, missione Mare Nostrum. Ho partecipato al recupero di un gran numero di migranti dal Corno d’Africa, i più poveri di tutti. Erano cristiani, e la mattina di Pasqua hanno pregato sul ponte della nave. C’erano anche musulmani che sorbivano tè caldo avvolti nelle metalline fornite dalla Marina Militare, ma miseria e speranza non facevano differenze religiose.
In un solo anno sono cambiate molte cose. Che 12 cristiani siano stati buttati a mare da loro compagni di sventura musulmani è stata una frustata nel mio cuore. Erano musulmani in cerca di approdo e accoglienza sulle rive di un Paese cristiano, in cui la Chiesa ha la sua sede. Questo non ha impedito loro di esercitare l’intolleranza al livello più barbaro e atroce. Se i fatti saranno accertati, quei 12 cristiani annegati segnano un punto di non ritorno.
Nell’anno intercorso tra la mia esperienza e l’uccisione di quei fratelli si è verificata l’escalation dello stato islamico. L’uccisione di 12 disperati di fede cristiana per me non è meno grave dell’eccidio a Charlie Hebdo. Un atto di jihad in mezzo al nostro mare. Non voler vedere quello che è capitato significa perseverare in un’ignavia di comodo.
Quello che è capitato è che l’odio si è radicato anche nel cuore dei più deboli, di chi è costretto a rischiare la pelle traversando molte miglia di mare per conquistare una vita degna. Quei musulmani assassini non erano jihadisti o foreign fighters, ma poveracci senza speranza. Ma per loro quei cristiani non erano più fratelli, ma infedeli da convertire o da ammazzare, tertium non datur. E con la certezza di non correre rischi, perché i “crociati” smidollati sono incapaci di reazione. E anzi, stanno lì sulla riva nord, pronti ad accogliere, nutrire e curare (e anche a fare business sulla carne migrante, e questo è un altro fatto).
Fa male la Presidente della Camera Laura Boldrini a dire che in questo eccidio la questione religiosa è stata irrilevante: il suo intento è certamente buono, ma la strategia è sbagliata.
Numeri alla mano, la comunità cristiana è da tempo la più perseguitata nel mondo: notizia che mi ha colto di sorpresa.
Direi che c’è molta materia su cui riflettere.
Questo scrivo oggi nella mia rubrica su Io donna
Dopo l’orrenda strage degli studenti in Kenya qualcuno sui social network si è irritato per il fatto che si parlasse di “vittime cristiane”. L’argomento è che i morti sono morti, a prescindere dalla religione di appartenenza, e che sono i musulmani le prime vittime del naziterrorismo islamista.
Vero. Ma nessuno avrebbe obiettato se si fosse parlato di vittime ebree, nel caso in cui il commando avesse attaccato una sinagoga o una scuola ebraica. Specificare invece che si è trattato di cristiani martirizzati in quanto tali è ritenuta da molti un’informazione superflua e in qualche modo scorretta. E suona quasi una provocazione che qualcuno sottolinei, come il sociologo Massimo Introvigne, che quella cristiana è la comunità religiosa oggetto del maggior numero di violenze e discriminazioni nel mondo.
Il motto crociano, “non possiamo non dirci cristiani”, si è pervertito in un “non è il caso di dirci cristiani”, a meno di non essere dei torvi conservatori. Perché dirsi cristiani comporterebbe in automatico (di default, come si dice oggi) l’abdicazione a ogni laicità, la rinuncia a perseguire il progresso, l’assunzione bellicosa delle insegne crociate. Il plauso unanime va a Francesco quando sferza l’avidità umana, e non quando, in una logica giudicata “di parte”, stigmatizza come complice il nostro silenzio di fronte al martirio dei cristiani.
JesuisCharlie, Jesuisjuif, ma Jesuischrétien resta inaudito.
Non c’è niente di male a dirsi cristiani: mi accontenterei di questa rivisitazione di Croce. Non c’è niente di male nel dichiarare la propria fede in un Dio tanto amoroso da farsi uomo e morire per noi. Resta questo, lo scandalo più grande.
Ieri, erano quasi le 23, mi ha chiamato la mia amica Maryan Ismail. Avremmo dovuto vederci stasera in un’occasione conviviale. Con voce ferma, Maryan mi ha detto che non ci sarebbe stata perché gli jihadisti avevano appena ucciso suo fratello Yusuf Mohamed Ismail Bari-Bari, ambasciatore somalo all’Onu di Ginevra. Yussuf è morto a Mogadiscio nell’attentato al Maka Al Mukarama Hotel a opera di al Shabaab, filiale somala di Al Qaeda. Ci sarebbero decine di morti, e non è chiaro se l’hotel sia ancora nelle mani dei nazislamisti e se vi siano ostaggi.
La famiglia Ismail ha vissuto in esilio in Italia durante la dittatura di Siad Barre. Yusuf era nato a Roma e aveva studiato a Bologna. Maryan è una femminista molto impegnata politicamente, ha sposato un italiano, vive a Milano dove guida il circolo Pd Città-Mondo ed è da poco entrata a fare parte della segreteria metropolitana del Partito Democratico. Sua madre e altri familiari abitano a Bologna, mentre Yusuf risiedeva in Svizzera.
Questa tragedia conferma che tra noi e quei barbari assassini ci sono solo pochi gradi di separazione. E che, come dice lo studioso dell’Islam Gilles Kepel, i musulmani -laici, “moderati”, a loro dire “conniventi” con l’Occidente-sono le prime vittime del jihad (al secondo posto gli ebrei, al terzo gli intellettuali occidentali).
Maryan dice di stare in buona compagnia questa sera anche per lei e Yusuf. La vita non si deve fermare, è questo che che vorrebbero gli jihadisti. E’ una donna molto forte, e supererà questo dramma che la rafforza nella sua convinzione e nel suo impegno.
Abbraccio questa mia sorella, colpita così duramente, e le giuro che non sarà mai sola.
Niente da obiettare sull’iniziativa donne con la A lanciata per l’8 marzo da Se Non Ora Quando (da qualche parte nella mia incasinata biblioteca devo ancora avere il volumetto di Alma Sabatini “Per un uso non sessista della lingua italiana“, era il 1987, figuriamoci). Ci sono ancora troppe donne che pretendono la qualifica al maschile, vale la pena di tornare in argomento. E’ ancora necessario presidiare i minimi: dico per esempio prostituzione, maternità e aborto, etc. Lo faccio anch’io, ci mancherebbe.
Però poi guardo questo trittico della giovanissima artista afghana Kubra Khademi, e come dice un’amica a cui l’ho inviato “mi sembra un sogno”. Il sogno di volare veramente alto, fino a quel punto di altitudine. Di un essere donna a cui è affidato di incarnare il più dell’umanità, per il bene di tutte e di tutti.
In questo blog e in molte altre occasioni mi sono spesso lamentata del silenzio di tante -la cui parola per me è vitale- sul change of civilization che oggi prende la forma di una profondissima crisi del modello capitalistico, ma anche di un conflitto molecolare sanguinoso e potenzialmente devastante con l’Animale Morente, quel patriarcato irriducibile, malato e violento che oggi si esprime -non solo, ma soprattutto- nelle azioni di Isis.
Guardo il dipinto di Kubra e mi piace pensare che quel Dio strattonato e chiamato brutalmente in campo stia chiedendo aiuto a una donna (ci sono momenti in cui, come dice Etty Hillesum, Dio ha bisogno di noi): mi pare cioè che il soffio vitale vada al contrario, o meglio nella direzione giusta, che sia lei a dare vita e linguaggio e coraggio a Lui, come sperimentiamo ogni giorno nelle maternità corporee, e non Lui a lei. O comunque, che tra i due ci sia un’alleanza, un patto da stringere.
Questo mi insegna il quadro di una ragazzina afghana, e mi suggerisce la strada di una differenza femminile che indichi l’uscita, che colga l’occasione di questa grande crisi per mettere al mondo un altro mondo.
Monica Maggioni, RaiNews24: basta filmati di Isis. Ma è la scelta giusta?
Monica Maggioni, direttora di RaiNews24, comunica la decisione di non trasmettere più i filmati di Isis.
L’intento è non essere più veicolo di propaganda, diffondendo prodotti di grande efficacia comunicativa realizzati con una duplice finalità: spaventare l’Occidente e arruolare foreign fighters con la suggestiva proposta di una terra promessa in cui saranno finalmente qualcuno. Prendete l’ultimo orrendo video, l’esecuzione dei 21 cristiani copti su una spiaggia libica: c’è molta discussione sul fatto che possa essere un fake. Quasi certamente non lo è, ma i suggestivi elementi di fiction sono molti ed evidenti: i boia in nero alti una spanna in più dei prigionieri a suggerire un superomismo invincibile (ci sarà stato un casting per selezionare i “corazzieri”); quella risacca di sangue nel nostro mare. Una notevole abilità “pittorica”: la scelta dei colori, le inquadrature, il montaggio. Una consapevolezza dei meccanismi base della comunicazione pubblicitaria, che fa pensare che oltre ai foreign fighters siano stati arruolati foreign copy.
Filmati realizzati perché vengano diffusi urbi et orbi: trasmettendoli si asseconda il progetto dei nazislamisti. E comunque quei filmati fanno audience, può esservi quindi un interesse commerciale di una testata a mandarli in onda.
Ma ci sono anche ragioni contrarie alla scelta di non trasmettere i video.
La prima ragione è che quando diventi giornalista sai che il fondamento del tuo lavoro e della tua etica è rendere nota ogni notizia che ti capiti di intercettare: tenerla per te è una specie di abuso ai danni dell’opinione pubblica (altra cosa, ovviamente, è decidere di oscurare i frame più cruenti). La seconda ragione è che, ai fini della non-propaganda, il blocco da parte della tua testata sarà solo una volonterosa goccia nel mare: via tv o online, i filmati troveranno mille altri mezzi di diffusione. Non sarebbe più utile, anziché censurare, una lettura critica di quei video, capace di smontarli nel loro impianto comunicativo?
Terza ragione è che la trasmissione di quei video horror ha avuto quanto meno il merito di elevare la consapevolezza: un anno fa pochi sapevano di Isis, oggi siamo tutti informati. Quarta: la non-trasmissione dei filmati può assecondare l’umanissima e autodifensiva volontà -molto diffusa- di non saperne niente. Occhio non vede, cuore non duole. Ci si comporta così, di solito, quando ci si trova di fronte a un problema al quale non si sa dare soluzione: è la politica dello struzzo. Ma essere consapevoli del fatto che il problema esiste, che è enorme, e che è di difficilissima soluzione è senz’altro una strategia migliore. Non aver voluto, non aver saputo vedere ci ha portati fin qui.
Leggo in questo senso le dichiarazioni di Romano Prodi intervistato dal Fatto Quotidiano sulla Libia:
“Una catastrofe per colpa nostra, dell’Occidente… Non era difficile prevedere che si sarebbe arrivati a questo punto, davvero non lo era neppure nel 2011… Cosa bisogna fare non lo so. Oggi non lo so più, mi creda. So bene quanto si sarebbe dovuto fare dopo la caduta di Gheddafi. Bisognava mettere tutti attorno a un tavolo, invece ognuno ha pensato di poter giocare il proprio ruolo… La situazione è davvero di una gravità eccezionale, non possiamo fare finta che le nostre azioni non abbiano inciso nel produrre tutto questo… La Libia è dietro l’angolo“.
p.s: Personalmente sono per la trasmissione -tolte le immagini cruente- accompagnate da uno “smontaggio” critico del prodotto.